8:30. E’ luglio e già fa caldo, a quest’ora del mattino. Sala d’attesa di uno studio dentistico di provincia. La donna di fronte a me sta seduta nervosamente. Ogni tanto allunga una mano, si tocca una guancia. Poi afferra una rivista tra quelle sparse sul tavolino basso – Oggi, Chi, Grazia – ma la posa dopo aver sfogliato poche pagine soltanto. Io sono qui per il controllo di una fastidiosa pulpite, che la notte non mi ha lasciato tregua. La donna ha i capelli rossicci, tinti, leggermente diradati.
Entra l’assistente alla poltrona e mi invita ad accomodarmi nel laboratorio medico. Mi avvio verso la poltrona da astronauta, da bambino ci diventavo matto. Peccato che, già allora, il tasto per l’acqua fosse l’unico ad essermi consentito. In compenso, quando restavo solo sotto la luce abbagliante della lampada – destra, sinistra, il collo che si allunga circospetto da ogni lato... – , subito mi avventavo verso il resto della pulsantiera: pigiando a casaccio, con gusto, con foga, come un pianista assorto in un assolo di free jazz. Salvo interrompere l'esecuzione al rientro del dentista, e farmi un po' di gargarismi con lo sguardo di chi implori: Io non ho toccato nulla, giuro!
Poi, l’assistente – blusa arancione intonata con le lenti per proteggersi dall'amalgama, che schizza in rabbiosi lapilli al sibilante protendersi del trapano sull'otturazione – si rivolge alla donna con un sorriso ampio e calmo, si intravede anche da sotto la mascherina: "Un attimino e sono da lei, signora." E in qualche modo mi si allarga il cuore.
Provo a spiegarmi.
E’ più di quindici anni che ci dicono che un attimino non si dice: l'espressione è incongrua, attimo costituisce l’unità minima in cui si riduce il tempo cronologico. Dunque non contempla vezzose compressioni, sarebbe come un superlativo per immenso: "immensone", o "immensissimo"... No, vero, non funziona? Eppure, ascoltandolo, un attimino, a me non procura nessun fastidio. Arriverei perfino ad azzardare che sia perfetto...
Perfetto dentro lì, intendo. In quel momento, con quel sorriso che fa breccia nella mascherina, e la persona a cui è rivolto, quella persona lì. Che è evidentemente tesa, imbarazzata, costretta in uno spazio che avverte come ostile, e rassegnata al dolore che a breve l’attende. Attimino ha così la funzione di ridimensionare il rovello dell’attesa. Come a dire: un po’ di dolore, sì, certo. Ma piccolo piccolo, breve, è già finito, lo vede. Insomma, un dolorino.
Negli anni dell’università ho incontrato diverse teorie linguistiche. Una di queste – ora mi sfugge chi ne fosse l’artefice – suddivideva ogni enunciato in tre diverse stratificazioni, come gli strati minerali in cui si avventura il geologo, con la torcia che gli brilla sull'elmetto. Ne ricordo ancora i nomi spigolosi e vagamente antipatici:
1) locutorio;
2) illocutorio;
3) perlocutorio.
Al netto della sentenziosità accademica, volevano però significare cose molto semplici e intuitive. Esiste un livello della comunicazione, argomentava la teoria, in cui il senso della frase va ricercato nel suo dettato verbale. Ad esempio, se io vado dal fruttivendolo e chiedo un chilo e mezzo di banane poco mature, sto, né più né meno, chiedendo un chilo e mezzo di banane (mi raccomando, che non siano già marroncine!).
Questa assoluta coerenza discorsiva tra polpa e scorza, o se vogliamo essere più tecnici tra significante e significato,
corrisponde al livello formale del linguaggio, che è poi quello
indagato dalla grammatica e dall'analisi logica. Linguaggio che nella
sua intonazione orale viene anche detto loquela (dal lat. loqui, parola), da cui la paludata definizione di locutorio.
Ci sono però altre espressioni in cui la polpa non si offre immediatamente al cucchiaio, con il significato che risulta più intimo, deducibile solo dal contesto. Se, ad esempio, qualcuno ci dice Ti vedo bene, questa frase avrà una sfumatura diversa se ci troviamo alla griglia di partenza di una maratona oppure a un esame di diritto romano oppure su un letto d’ospedale. Così, in ciascuno dei tre casi, la comprensione verrà mediata: sia dalla sensibilità dell'interprete, sia dalla situazione contingente. Al punto che una frase del genere assume il suo senso originario (locutorio) solo durante una visita oculistica.
Diverso ancora è il caso della domanda Sai che ore sono?, soprattutto se a porla è un maschio a una bella ragazza sconosciuta, fermandone la falcata neghittosa lungo un marciapiede affollato. Non ci vorrà infatti molto per capire – dalla bella ragazza specialmente – che ciò che le viene effettivamente chiesto è un’altra cosa… Ossia che sotto una domanda apparentemente semplice e ordinaria si cela una intenzione ben diversa, a volte perfino estranea od opposta alla sua lettera (Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, stava scritto all'ingresso di Auschwitz).
Chiameremmo allora perlocutorio proprio tale livello: delle intenzioni strategiche, e non più solo comunicative. Ossia l’effetto che si vuole ottenere dicendo quel che si dice.
Per quanto la mia memoria risulti un poco approssimativa, proviamo, in ogni caso, a scomporre la frase dell’assistente alla luce di questa teoria. Un attimino e sono da lei, signora. L’enunciato è assai chiaro, almeno verbalmente. Quel che si richiede è di pazientare ancora un po’. Ma siamo solo al livello locutorio, come abbiamo imparato. E la buccia a volte inganna.
Certo, al posto che attimino si sarebbe potuto dire aspetti un attimo, per cortesia, oppure tra un momento è il suo turno. E in entrambi i casi, da un punto di vista grammaticale, la frase sarebbe stata più corretta. Ma come già abbiamo visto la donna era tesa, a disagio. Il suffisso alterativo -ino non conteneva dunque solo un riferimento temporale, ma si collocava più internamente: non sul quadrante, assieme alle lancette, e piuttosto nel vano in cui si nasconde l'uccellino in attesa di scoccare il suo cucù. Serviva a sdrammatizzare, ecco. E per farlo articolava la lingua infantile delle emozioni.
Ritraducendo la frase nella sua dimensione illocutoria (cosa si intende comunicare nella specifica circostanza), il suo senso cambia allora profondamente, e dovrebbe suonare più o meno a questo modo: "Stia calma signora, si tranquillizzi. Siamo qui per prenderci cura di lei, nel più gentile e lieve dei modi. Non le faremo male, vedrà."
Se tale intenzione comunicativa centra il bersaglio incarnato, l'assistente alla poltrona avrà raggiunto il suo obbiettivo (perlocutorio), che consiste nell'attenuare l’ansia della donna con i capelli rossi. E a una persona che svolge quella professione, in fondo, non è richiesto di essere una fine linguista, immune dalle incongruenze della logica aristotelica, ma di mettere le persone a loro agio. Accogliere e tranquillizzare, a noi pazienti basta questo.
Compreso nei miei ragionamenti, mi ritrovo così sulla poltrona da astronauta – le prometto, dottore, che non lo pigio più quel pulsantino rosso… E mi accorgo che il mal di denti che mi assilla non è dedicato alle numerose persone
che, venialmente, peccano nell'utilizzo approssimativo del linguaggio.
Piuttosto a una certa intellighenzia che non manca occasione per esibire i
propri galloni scolastici: in televisione, sui giornali o in semplici conversazioni all'happy hour, con un olivetta in bocca e l'occhio sul culo nelle cameriera. In cui ad esempio vengono irrisi tutti quelli che dicono
attimino: Poveretti, non frequentano, come noi, il signor Devoto e il signor
Oli...
Beh, una semplice assistente alla poltrona è in grado offrire a questa gente un'importante lezione. Umana, prima di tutto. Ma anche intellettuale. Già che ha compreso, probabilmente senza saperlo, ma sentendolo, che il linguaggio è strutturato come una cipolla. E non sempre, anzi quasi mai, dicendo una cosa vogliamo dire proprio quella cosa lì. Così quasi nulla si dice, il resto lo si evoca.
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