venerdì 13 luglio 2012

Adesso o mai più, o sull’ultima scommessa dell’angelo

Il giorno in cui mi suiciderò lo farò lanciandomi da una finestra. Ma perché proprio in questo modo, questo gocciolare al suolo in agonia, senza la possibilità di riavvolgere il nastro all’attimo in cui i piedi, o le mani, chissà come avviene esattamente in quei momenti, si distaccano definitivamente dal cornicione? Molto più sicuro e confortevole il gas, o un tubetto giallo di medicinali, di capsuline rosa shocking come le caramelle di Suor Tecla. Eppure mi lancerò anche io da quella finestra, o, in alternativa, potrà essere un trampolino di ferro e asfalto e bulloni (dall’inaugurazione nel 1937, scavalcando i parapetti del Golden Gate Bridge hanno spiccato il volo più di 1200 persone), in ogni caso da un’altura. Ed è strana anche questa certezza – dobbiamo chiamarla vocazione? – da parte di una persona che, come me, ha sempre sofferto di vertigini. Così quando la cabina della funivia raggiungeva il pilone di campata, sotto cui si apre l’abisso trapuntato di chalet della vallata angusta di Chiesa Valmalenco, già da piccolo mi rincucciavo sotto la linea accalcata dei finestrini, da cui scorgevo solamente gli scarponi e le sigle sopra le solette innevate degli sci: Spalding, Rossignol, K2… E non nascondo una profonda tristezza nell’abbandonare tutto ciò: la neve bianchissima, soffice, con varchi tortuosi e lucenti tra i pini, su cui lasciarsi scivolare; all'inizio solamente brevi semipiani come seni levigati e acerbi, da cui discendere a spazzaneve con il cuore che batte forte, a intermittenza; ma man mano che gli anni crescono insieme alla sicurezza del fare, una moneta che all'altro lato esibisce l'immagine occhiuta di Superbia, a capofitto vengono le piste nere, i dossi infidi e ghiacciati; per terminare con lo scarto di lato che solleva una nuvoletta festosa, da cui mai e poi mai avresti detto che sarebbe potuto grandinare. E però si sa, i ricordi non sono mai stati un buon impermeabile – il senso vivo di una catastrofe già avvenuta in piena letizia, un dopostoria, come lo chiamava Pasolini – e anzi proprio ciò che inzuppa l'anima del suicida, armandone le intenzioni. In particolare di chi sceglie di abbattersi al suolo, opponendo alla garrula ricreazione del mondo, quale scandalo tangibile, malattia finalmente manifesta e non redenta, il suo corpo inerme e maciullato. Malattia, ecco, l’hai detto! Avete ragione: malattia, o più precisamente depressione, alla maniera in cui il verbo psichiatrico ci ha insegnato a sillabare, accompagnando una pigra alzata di spalle: L’ho incontrato ieri, stava benissimo, vai te a capire cosa passa nella testa di certa gente… Sarà stato depresso. Io però preferisco sottrarre il termine alla supponenza nominale dei formulari, la brossura opaca dell’AMDP o dei suoi numerosi derivati (vengono sterilizzati a vapore insieme alle fialette per l’urina), ugualmente privi di quel soffio di umana compassione che inspira almeno quando espira, ricambiando il dono, per riconsegnarlo all'ambito assai più concreto della geografia. Depressione, dunque, ma quella verde cupo del Mar Caspio. Un mare che si interra sotto al livello del mare, uno stare sotto soglia, superata la linea invisibile di galleggiamento. Simile in questo all'incubo della gondola di risvegliarsi sommergibile, o all'aquila che, lanciata la folle picchiata, si infili nel varco di una tana in cui ha ben visto rifugiarsi la lepre, e qui rimanga incastrata. Immaginate allora la scena: il becco adunco, la testa sanguinante e il collo arruffato e teso nello sforzo, conficcati nel terriccio umido e roccioso mentre le ali si dibattono furibonde, senza riuscire a liberarsi. E se siete di quelli che si accontentano di una metafora, troverete quel poco o tanto che ci rappresenta. Con l’uomo fermo sul davanzale – austero dall’alto che è finalmente un altrove –  a spalancare il soprabito per mostrare infine quel che è. Un angelo. E prima di lanciarsi, sussurra ai gerani distratti e alle automobili da lassù così piccine: Si vola adesso, Madre, o Padre mio mai più…

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