mercoledì 27 giugno 2012

La sindrome del disc jockey, o sulle nostre vite in conto terzi


La sindrome del disc jockey, ecco, finalmente ne ho acciuffato il nome. Era da un po’ di tempo che ci giravo attorno. Ad esempio, provo a spiegarmi, te lo chiedi quando incontri un amico che vuol convincerti a vedere quel film struggente, usa proprio questo aggettivo: struggente; o ti supplica di leggere il libro appena uscito dell’esordiente morto di aids il giorno del debutto, di fronte al buffet grondante tramezzini; o ancora, e questa volta è un imperativo, devi, devi assolutamente ascoltare un cd composto con il battito d’ali e gli ultrasuoni dei pipistrelli, e giuro che ci stanno davvero dei dischi così, una mia cara amica ne ha inciso uno, se vi interessa vi giro i riferimenti, che lei magari è contenta. In ogni caso, tutte esperienze imperdibili – non ho ragioni per dubitare – che lui, il tuo amico, non quella dei pipistrelli, è felice di consegnarti come si consegna la mappa di un tesoro, nemmeno la fatica di decifrarla: basta scartare il suo dono e il gioco è fatto, vieni immediatamente assunto nel club.

La sindrome del disc jockey si riproduce però anche in forme indirette, anzi si fa ancora più virale, contagiosa, quando entri su un social network: Facebook, tanto per dirne uno. E se la prima cosa che vedi quando scendi dal traghetto è quello che vomita i maccheroni appoggiato a una bitta incrostata di salsedine, in Facebook, la prima cosa che ci trovi, è un’acuta citazione di Guido Ceronetti o di Roland Barthes o di Pessoa o di Rilke o di Hannah Arendt o di Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti… Insomma, una citazione.

Se però siete di quelli che preferisco le immagini al fumetto, ci stanno anche quelle: riproduzioni di quadri celebri, antiche miniature ottomane,  più diffuse ancora le fotografie, che possono essere ironiche oppure “artistiche” –  chissà perché le tette delle donne, quando riprodotte in bianco e nero, vengono chiamate artistiche, mentre a colori diventano erotiche, in taluni casi perfino pornografiche... Dilaganti, infine, i link che rimandano a brani musicali, perlopiù attinti dall’infinito catalogo di YouTube. Così se gli ambiti espressivi pure sono variegati – testi, suoni, immagini, video, performance multimediali etc. – la loro compressione dentro il medesimo contenitore ne tradisce un’unica matrice. Collocabile, appunto, nella mano svelta del disc jockey.

Ma chi è, esattamente, un disc jockey?

Cerchiamo di capire facendo un po’ di storia; o, se non altro, rileggiamo lo smilzo foglietto contenente le istruzioni, dove stava scritto tutto già da sempre. Il disc jockey, in primo luogo e come noto, è la persona che mette la musica alla radio e nei locali, mentre la gente intorno balla oppure fa i cazzi propri oppure le due cose insieme, impugnando un gin tonic; se non vi piace il gin, e l'acqua tonica, volendo anche senza, questo non è tanto importante; al limite lo diventerebbe se stessimo parlando del barman, qui però non stiamo parlando del barman e dunque lasciamo perdere il gin tonic, e torniamo a lui. Il disc jockey.

La sua progressiva affermazione si accompagna alla speculare diffusione – anzi ne discende – dello strumento inizialmente utilizzato: il disco in vinile, introdotto negli Stati Uniti nel 1948 e conosciuto anche come microsolco o long play; per quanto ne esista anche una versione ridotta a 45 giri, più adatta ai mangiadischi in voga a partire dai tardi anni cinquanta, che è esattamente l’epoca in cui viene assunta nel pantheon collettivo la figura del disc jockey.

Semplificando al massimo, il disc jockey è uno che non sta dentro le cose, nel loro cuore pulsante. La sua postazione dietro la consolle lo protegge infatti dal trambusto della sala, e così se parte un trenino danzante, con  i ballerini un poco alticci che afferrano per le spalle chi immediatamente li precede, lui osserva con un sorriso vagamente sornione, sempre e per sempre al margine della pista. Eppure, il non fare del disc jockey produce comunque azione, dinamica sociale, già che senza un brano lento tanto dolce tanto sentimentale, quella coppia – lui basso, tarchiato e muscoloso, ma con una vezzosa catenina di corallo; lei bionda e minuta, ai piedi dei voluminosi Dr Martens con la punta di metallo – quella coppia ora non starebbe ballando stretta stretta, prima di scambiarsi un bacio timido e interlocutorio sul divanetto amaranto, nascosti dal separé di canne intrecciate.

Il disc jockey è qualcuno che non facendo fa, ecco. O meglio ancora, riluttando ad agire in nome proprio ma sempre e comunque per contro terzi, con voce e suoni e gesti messi al suo servizio da altri, più che incidere sull’essenza delle cose ne riconfigura lo sfondo, la campitura. La prerogativa del disc jockey, potremmo addirittura azzardare, è quella messa in luce dalla grande arte concettuale novecentesca, che da Duchamp in poi ha intuito come l'ambiente, la circostanza, lo spettro pubblico nella ricezione siano parte integrante dell’opera, costituendo un elemento decisivo nella formazione del giudizio, modulato seguendo il flusso delle luci stroboscopiche, i fondali di cartapesta della scena. Il contesto, detto in una battuta, è funzione del testo. E per quanto tutto ciò appaia modernissimo, possiede un nome antico quanto la storia del pensiero. Si chiama interpretazione.

Bene, la sindrome del disc jockey che vediamo dilagare sotto i nostri occhi ogni qualvolta ci affacciamo al mondo, e in particolare su quel sottomondo che è il web, consiste dunque nell’atteggiamento di una comunità umana che ha scelto l’interpretazione piuttosto che l’esperienza, lo sguardo piuttosto che l’azione, il pensiero degli altri piuttosto che il pensare. E tutto ciò, in effetti, corrisponde incredibilmente alla nostra fotografia!

E allora ci conviene guardarla bene, quella foto, percorrerla con le pupille tra un disco e l'altro per l'estate, tra una citazione su Facebook e un imperdibile evento, articolo, poesia, spettacolo o scoreggina da prescrivere agli amici degli amici fino al sesto grado, aspettando che qualcuno alzi il pollicione per approvare. Oppure che qualcun altro – un barbaro, un Gremlin, un cinese con le palle quel giorno più girate del solito – decida di trasformare la discoteca in cui ci siamo rifugiati in un enorme centro commerciale. Dove non ci sarà più bisogno di un disc jockey che suggerisca la musica dal proprio angolo riparato, ma solo tracce random che girano e rigirano all’infinito.

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