venerdì 26 febbraio 2010

Il colore delle rose, o sul godimento come fattore politico


Sono tutti uguali: i partiti, i politici, gli uomini di governo e di opposizione. Non voto perché non c'è nessuna differenza, cosa me ne importa. Tutti uguali.
Se fosse un film di Nanni Moretti a questo punto entrerebbe nell'inquadratura Michele Apicella, e con la sua voce di ruggine e mentine si chiederebbe: "Chi è che sta parlando, ma chi è ...? Rossi, neri, sono tutti uguali... Ma che siamo, in un film di Alberto Sordi?" E prima di essere sbattuto fuori dal locale, farebbe ancora in tempo a dire: "Te lo meriti Alberto Sordi, te lo meriti!"
Questo però non è un film di Alberto Sordi, e nemmeno di Nanni Moretti. Ma il locale quello ci sta davvero. E' la Scighera, il circolo Arci di via Candiani, Milano, zona Bovisa. Io abito a poche decine di metri. Il tempo dunque di infilare un giaccone militare e raggiungere alcuni vicini di casa, cogliendo questa conversazione già in corso.
A parlare è una ragazza di 22 anni. I partiti sono tutti uguali, i politici. Tutti uguali.
Giorgio, seduto allo stesso tavolo e con più del doppio dei suoi anni, quando lei si alza me lo domanda sconcertato: "Ma se avessi una figlia della sua età, come farei a spiegare, con quali parole e quale autorità, a farle capire che non è affatto vero? Il rosso è rosso. Il nero è nero. E ogni cosa è diversa da tutte le altre, anche il colore dei pescetti che nuotano dentro al mare."
Guardo il punto interrogativo al termine delle sue parole ma resto muto. Come un pesce, appunto. O come succede in ascensore con un estraneo, i numerini della pulsantiera che si illuminano con spietata lentezza, sei lì che ti guardi i piedi e non ti viene nulla da dire, solo qualche colpetto di tosse. Abbozzo quindi un sorriso a mezza bocca, prima di riposare lo sguardo in terra aspettando che l'ascensore raggiunga il mio piano. Infine, dopo molti altri sorrisi e colpetti di tosse, saluto e ringrazio per la bella serata. Dando appuntamento per un dove e un quando non più certi del mio saluto.
Fuori dalla Scighera il solito grappolo di fumatori infreddoliti, piovischia.
E' passata una notte, il viaggio in macchina verso Sondrio, modestissimo ultimo cd dei Muse sull'autoradio, mattinata per uffici, quando ripenso alla domanda di Giorgio: con quali parole, quale autorità. Come spiegare la sottile arte della distinzione, a un ventenne ...?
Piove ancora.
Accendo il televisore è assisto alla riedizione di uno spettacolo di varietà, in cui un politico di destra racconta cose buffe, sta allo scherzo, cerca insomma di fare il simpatico. Nell'intenzione degli autori, e del politico stesso, ciò dovrebbe renderlo simile alla "gente", e con ciò bucare il video. Ossia piacere.
Piacere, una parola che mi appunto sopra un lembo del giornale.
Alcuni anni fa il filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Žižek, in un suo saggio di natura politica, reintroduceva, estendendola al dominio sociale, la nozione di "jouissance", utilizzata da Lacan per indicare il piacere. O ancora più precisamente jouissance è traducibile con godimento, nei termini della dinamica mentale ipotizzata da Freud. Il principio del piacere, del godimento, è diventato oggi per Žižek il metro attraverso cui si determinano le forme volontarie di associazione tra gli uomini. O più semplicemente, la comunità.
Mentre in tempi ancora recenti le comunità si costituivano su base geografica, o ancor prima etnica - la consanguineità come elemento di appartenenza tribale - il fattore aggregante è ora diventato mobile, fluido. Ma pur sempre agganciato a un minuscolo scoglio senza il quale non c'è possibilità di approdo, né il riflesso speculare necessario al riconoscimento. E questo sassetto nel mare dell'indifferenza, alla base del fragilissimo edificio comunitario, è costituito dal piacere.
Godere degli stessi piaceri e frequentare i medesimi luna park, è insomma la premessa tardomoderna di una identità sociale sempre più dislocata a macchia di leopardo. Da questo punto di vista l'idolatria musicale - le ragazze che si strappavano i capelli per i Beatles tanto a Liverpool che a Barletta - diventa allora il modello di ogni altra comunità. Lo specchio non è più conficcato dentro le radici della terra o nelle eliche del DNA, ma nel cielo delle passioni. Se non tra la scorza glassata di un cannolo.
Certo, anche il cosmopolitismo libertario rappresentava già una prima forma di emancipazione dai vincoli geografici ed etnici. Con la significativa differenza che il sentimento di identità popolare, o come si sarebbe detto di classe, aveva la sua matrice psichica dentro il dolore, in una sopraffazione violenta e diffusa quanto oscurata con le fronde della "naturalità". Non certamente un piacere, un godimento. Il pronome noi - noi popolo, noi lavoratori, noi comunisti - aveva il suo punto di irradiamento proprio a partire da un conflitto. Che generava un trauma che generava identità.
Ora non è più così, suggerisce Žižek.
Lo scrittore Giorgio Vasta, in un recente articolo su la Repubblica, aggiunge che il nostro presente si offre come serie di eventi, anche forti, anche dolorosi, che non vengono però più percepiti come trauma. Fatti separati dalle emozioni corrispondenti, potremmo dire.
Diversamente la gratificazione leggera e l'intrattenimento svagato trovano forme di amplificazione nei sistemi della rappresentazione pubblica. Radio, cinema, televisione. Anche i siti web di importanti giornali indulgono a una piacevolezza spesso pruriginosa. E il contrario del trauma è appunto il godimento, la jouissance.
Ecco allora che in un orizzonte oscurato dal trauma, una terra senza il male, il piacere assume una sorta di ruolo suppletivo, che disciplina il consenso e l'appartenenza dentro comunità del gusto, appartenenze di tipo estetico e spettacolare. E come già abbiamo avuto occasione di scrivere su Fontana con soldino, Facebook è un perfetto esempio di tutto ciò. Una dinamica del moderno che, senza tante sottigliezze ermeneutiche, noi percepiamo come regressiva.
La natura reazionaria di Facebook e del piacere come nuova radice comunitaria, è in fondo facilmente intuibile. Mentre attraverso il trauma, il conflitto, tanto la comunità quanto l'anima singolare vivono un'esperienza dentro l'opacità sensibile delle cose, cercando di integrare la differenza in una sintesi dialettica, nel piacere si tende piuttosto a privilegiare il simile, l'analogo. Il principio di realtà si trasforma dunque in particolarità. Dove il particolare è per l'appunto l'omologo, il connaturato.
Se la dimensione del particolare, del gruppo chiuso, la casta, è l'elemento che storicamente ha qualificato la cultura politica delle destre, lo scenario appena tratteggiato potrebbe allora essere battezzato come destra ludica. A cui, almeno in via teorica, dovrebbe corrispondere una sorta di sinistra traumatica.
In realtà le cose non stanno affatto in questo modo.
Come ciascuno ha continue occasioni di constatare, anche la cultura di sinistra ha preso la via di una semplificazione sorridente dentro le categorie dello spettacolare, del piacere per piacere. Così se fino a pochi anni fa icone di sinistra potevano essere l'operaio vessato, il Cipputi, o l'ostensione del corpo cristico di Che Guevara , ora vanno a costituire identità e riconoscimento le canzoncine di Jovanotti, i comici di Zelig, i film di Muccino o i libri di Fabio Volo e della Littizzetto. Che il più delle volte posseggono una loro intima piacevolezza e verità, intendiamoci. Ma che non hanno sufficiente potere di radianza, diciamo così, per richiamare l'elemento traumatico dentro l'orizzonte del piacere e dello svago.
Da questo punto di vista la forma di spettacolarizzazione che meglio incarna la nuova cultura di sinistra, è la trasmissione di Fabio Fazio Che tempo fa. Puro piacere, anche intelligente, anche arguto, ma senza la minima ombra di un trauma.
Rimane la disillusione della nostra amica di vent'anni, e l'interrogativo di Giorgio: come fare, come possiamo riuscire a spiegarle che non è vero, che le cose non stanno a questo modo, frullate e stinte come appena estratte da una centrifuga? Tutto non è uguale a tutto, e ogni parte ha il suo preciso colore.
Beh, Giorgio, forse non è la risposta che cercavi tu, ma il timido principio di un suggerimento mi sento ora di offrirtelo. Guardiamo dentro le forme del piacere, del godimento. Cerchiamo cioè di capire qual è l'idea di mondo, l'orizzonte estetico che ci propongono i diversi partiti, i giornali, confuso e infuso negli spettacoli tutti. E naturalmente nei politici che ci sfilano sorridenti e giocosi in televisione.
Quindi interroghiamo anche le risate che ci mettono in bocca, gli applausi registrati. Perché quello è piacere indotto, che perciò ha un ruolo politico decisivo: quella è propaganda elettorale! Soprattutto in questo tempo liquido e scanzonato. Dove, come si è visto, non ci è rimasto molto altro per fare comunità, se non ingozzare i carrelli e i pensieri dei medesimi diletti.
Così se nella loro idea di piacere, nelle barzellette che ci raccontano ammiccando all'intervistatore, è svanita anche l'ultima ombra di un trauma: diffidiamone, cambiamo canale e teniamoci stretto il nostro voto. Perché non c'è vero piacere senza il pungolo sottile di un trauma, anche quando nascosto come un pisello sotto a un cumulo di materassi. Non c'è vita senza conflitto e differenza che stride.
Ma in fondo anche un bambino di otto anni, che abbia appena letto il Piccolo principe, lo sa benissimo senza bisogno di spiegarglielo ancora. Che non c'è rosa che non sia rossa come solo quell'unica rosa.
Rossa.

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