lunedì 15 febbraio 2010

Il venait d'avoir 5 ans, o sulla nostalgia


La nostalgia, che cos'è la nostalgia?

Ma forse posto in questo modo è un interrogativo privo di senso. La nostalgia è un paradosso inafferrabile per il filosofo: è qualcosa che non è, la presenza di una mancanza.

Domanda a cui si dovrebbe allora rispondere in nome proprio, non astrattamente. Come alla visita di leva quando ti fanno abbassare le mutande davanti a tutti. Il tuo nome, le tue mutande, il tuo pisello rattrappito dalla vergogna. E anche la tua nostalgia, quell'assenza che si fa presente nel definirti quale ora sei, per tutto ciò che hai avuto senza mai davvero possederlo. E che ora ti manca.

E poi in fondo io lo so benissimo cosa è la nostalgia. E' una canzone di Dalida, "Il venait d'avoir 18 ans".

Ma invece di diciotto potrebbero essere anche otto anni, o ventotto o trentacinque. C'è sempre un tempo che sfugge alla stretta delle mani. E spesso è proprio quel tempo che, quando ci viene consegnato, facciamo di tutto per restituire al mittente, ficcando il testimone in pugno al prossimo atleta. Oppure lo scagliamo lontano, il più lontano possibile, come sassi sopra a un fiume.

Io ci andavo con mio nonno Pinin e il fiume era l'Adda. Un'ampia insenatura scavata dalla draga di un silos, vicino al ponte che porta ad Albosaggia, appena fuori Sondrio.

Mattine d'autunno, o forse di primavera, andavamo all'Adda apposta per far rimbalzare i sassi piani e levigati sopra alla superficie opaca dell'acqua, e per osservare la draga del silos tuffarsi con la furia di un gabbiano. Il nonno riusciva a realizzare anche sette otto balzi. Io due, massimo tre. Poi un misero ciuf come il tappo della vasca, quando le mani si fanno rugose, da vecchietta, e la mamma lo rilascia.

In pochi secondi il foro sul fondo si beve la festa della schiuma Vidal, quella con il cavallo bianco, e comincia a fare freddo anche sotto la salvietta; il lusso degli accappatoi solamente dentro ai film americani, dopo che le valvole della tivù si sono scaldate per bene. Sulla ceramica concava rimane lo scheletro di qualche capello, la spugna che non sapevi dov'era finita. Adesso è grassa e sformata come una Big Babol prima di scoppiare.

Al ritorno dal fiume, con il nonno Pinin, andavamo a osservare gli operai nei cantieri, che facevano grandi e belle le nostra periferie. O almeno così mi sembrava, affondando una mano in quella di mio nonno e l'altra nelle tasche di velluto a coste, dove nascondevo due o tre sassetti lisci lisci per la prossima volta che saremmo tornati al fiume.

Allora sarei stato più grande, più forte, più bravo. E se il pescatore diceva un'altra volta di andare più in là, che gli facevamo scappare i pesci, gli avrei cacato dentro agli stivaloni verdi, pisciato nel buco del culo. Poi avrei fatto un balzo e un altro ancora sempre più lontano, oltre al sassetto lanciato dal nonno.

Intanto gli operai lavoravano dentro un tempo largo che un tempo così largo lo potevi ritrovare solo a messa, la domenica mattina. Odore di incenso da sentirti male, quando stavi vicino, troppo vicino, e io ci stavo più vicino di tutti. Ero chierichetto, ma questo milioni di secondi dopo.
Chiuso nella cotta bianca con la tonachetta nera; ma ogni tanto anche rossa o perfino marrone, come quella dei frati che si arrampicavano sulla salita di Colda, ma non facevano l'autostop come i drogati. I drogati fanno l'autostop, per la nonna questo era un punto fermo. E se la mamma arrestava la 500 bianca per dargli un passaggio, ai frati, non ai drogati, loro dicevano grazie.

Solamente grazie.

Così, quando veniva Natale, tutte le parole che non avevano detto, solamente grazie, si facevano figura. O meglio radura, brusio, dilagando nell'eloquenza muschiosa del presepe, con un sistema idraulico e di luci a simulare l'inganno del tempo, le albe e i tramonti e i ruscelli. Sì, era decisamente il presepe più bello di tutti, quello dei frati di Colda. Perché è una gara il presepe. E quegli omini taciturni e barbuti, con i loro piedi nudi dentro i sandali, la pioggia, la neve, grazie prego grazie prego, la vincevano sempre.

Ma anche raggiungere lo spalto della messa grande della domenica, era una gara. Ci sono decine di messe, e poi anche i funerali, le benedizioni, occasioni ghiotte per gli aspiranti chierichetti. Ma nessuna importante come la messa della domenica mattina.

Quando riuscivo ad arrivarci e acciuffavo il turibolo, lo tenevo stretto e non l'avrei mollato più, ceduto per niente e a nessuno al mondo. Non come pietre tonde da riconsegnare al fiume.
E poi oscillare il polso e dondolarlo piano, cullarlo, il turibolo. L'odore dell'incenso che si sparge come l'anestesia del dentista, un canto soffuso e lunghe processioni per l'eucarestia. Cullarlo come un bambino morto da rianimare.

Sì, si chiama nostalgia questa cosa qui.

Bambini morti, tempo morto. Perché si può davvero morire di nostalgia in questo presente senza tasche, senza sorprese. E senza più una mano di nonno a calare sopra gli occhi, ogni volta che gli operai iniziavano ad arroventare la fiamma ossidrica.

Solo una voce, da fuori, come il playback di un vecchio film. A ricordarti che gli uomini che camminano a piccoli passi con enormi occhiali neri, il cane lupo con lo stemma della Svizzera, oscillando il bastone verso l'incalzare minaccioso di un niente, sono bambini che hanno guardato la fiamma ossidrica. Che a guardare la fiamma ossidrica si diventa così, ciechi.

E secondo me davvero abbiamo guardato il drago dentro agli occhi, per diventare quel che siamo. Sassetti che hanno smesso di danzare sopra a un fiume.

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