domenica 2 agosto 2009

Merda d'artista, o sulla filosofia della fossa


“Preparare i cimiteri a una mortalità anormale dovuta all'influenza A”. E’ quanto scritto in una circolare diffusa dalla Vallonia, regione francofona del Belgio, ai comuni del proprio territorio. E riportata in una pagina del giornale disteso sopra il tavolino, dove sta seduto il mio amico con una sigaretta spenta in bocca. Vicino un tè freddo alla pesca, un pacchetto di Winston light appena aperto, parole accidentali tra maschi che si incontrano per caso. Lui mi racconta che è venuto a trovarlo suo figlio, vive a Firenze con la madre. Ha ormai trentacinque anni e da dieci quasi non esce più di casa. Gli mancava solamente la tesi per laurearsi, non l’ha data. Ora passa le giornate davanti al computer. Non è depresso. E’ pieno di interessi, anzi. Un ragazzo intelligente e sveglio. Però non ha un lavoro e non lo cerca. Nemmeno la patente della macchina: non si è presentato il giorno dell'esame di guida. Come se questo suo interessarsi alle cose del mondo si richiudesse subito su di sé, un’onda che si frange in una leggera schiuma di latte.
In Giappone credo che abbiano anche battezzato questo atteggiamento, cresciuto al punto da diventare un fenomeno sociale; una sindrome psichiatrica, addirittura. Lui ne conosce il nome e me lo rivela. Ha un suono acuminato, pieno di spigoli, come la lingua impossibile che lo esprime. Io trovo che sia invece un fenomeno semplice e “convesso”, per così dire. E che mi viene da chiamare proprio con l'immagine della Vallonia: essere in un fosso, scavarsi la fossa con le proprie mani.
Ricordo quando mia nonna mi ripeteva: Guido, non fasciarti la testa prima di averla rotta. E io invece lo facevo di continuo, e lo faccio spesso ancora oggi: mi fascio la testa, mi scavo pure io una fossa con le mani. Come i valloni, resto quindi in attesa di una qualche peste bubbonica, che soffi via la nostra inutile specie con un sospiro. Invece non è mica vero, penso subito dopo, che l'umanità è inutile. Siamo infatti bravissimi, a scavare delle fosse.
Provo allora a entrare ancora più dentro la mia fossa, tra gli umori delle metafore. In un libro che ho amato molto, Il giovane Holden di Jerome David Salinger, siamo alle prese con un adolescente di questo genere. E’ in crisi col mondo, ogni cosa gli sembra stupida, inutile e fasulla. E non ha tutti i torti. Così anche Holden, giorno dopo giorno, inizia a scavarsi la sua fossa.
Una notte torna a casa di nascosto dai genitori – loro lo pensano ancora nel collegio da cui è fuggito – e qui ritrova la sorellina Phoebe. Hanno una conversazione illuminante, una pagina di grande letteratura. In cui Holden riesce finalmente a tirar fuori tutta la terra da sotto le unghie. Questa cosa qui è una scemenza, quest’altra non mi piace, quel tizio è un cretino. La lista delle idiosincrasie di Holden è lunga e articolata. Convincente, anche, da molti punti di vista. Ok ok, lo interrompe al termine della sua requisitoria la serafica Phoebe. Mi hai detto tutto quello che non ti piace. Ma adesso me la vuoi dire, una cosa che ti piacerebbe fare nella vita?
La domanda è spiazzante. Holden proprio non se l’aspettava. Tace, barcolla come un pugile appena colpito alla punta del mento. Ma dopo un lungo silenzio, se ne esce con una risposta che vale da sola tutto il libro. E che in inglese ci rimanda al titolo originale: The catcher in the Rye (“l’acchiappatore” nella segale). A volte mi sogno un campo dove i bambini corrono e giocano, una grande distesa colma di segale. Inizia così la riposta di Holden a Phoepe, che Salinger ha il potere di farci sentire con le sue orecchie femmina in miniatura. Però questo campo è sulla soglia di un precipizio. Correndo, ignaro, festoso, ogni tanto qualche bimbo casca inavvertitamente nel precipizio. Gli altri non se ne accorgono e continuano a giocare come se nulla fosse accaduto, fino alla prossima giovane vittima.
Io mi fermerei qui per un momento, una breve riflessione. Cos’è che distingue Holden dagli altri adolescenti del collegio da cui è scappato? Sì, il fatto che quasi tutto gli fa schifo. Ma anche la percezione, simbolica non meno che concreta, di qualcosa come una minaccia latente, un’incrinatura nella rappresentazione felice del mondo. E scavarsi una fossa, è forse allora l’unico modo per non venire inghiottiti dal precipizio della menzogna, dell’illusione che tutto rende fasullo e privo di verità. C’è insomma anche un elemento di lucidità e perfino di saggezza, in quelle sensibilità allertate, come il figlio del mio amico, che decidono di sfuggire a tutto ciò. Eppure la risposta di Holden non è questa.
Ecco, a me piacerebbe poter stare al limite estremo del campo, continua Holden. Stare proprio a un passo dal precipizio. Così quando un bambino, correndo, si avvicinasse troppo al burrone, io lo acchiapperei per la collottola, impedendogli di precipitare …
Phoebe lo osserva, muta, dentro una notte newyorkese spalancata come i suoi grandi occhi curiosi. Poi mentre lui sta per uscire dalla stanza, lo richiama: Holden. Sì, risponde lui arrestandosi sulla porta. Quindi si gira con l’estenuata lentezza di un film di Sergio Leone. Sai, sto prendendo lezioni di rutti da una mia amica.
Salinger è tutto così: prosa e poesia, ossimori radiosi. Ci rimane l’immagine di questo adolescente sensibile e disadattato, che in un momento di disarmato candore vorrebbe sostare sulla soglia di un precipizio, salvare il mondo o anche solo un bambino, un cane, un qualcheduno. Ma c’è una cosa di cui forse nemmeno lui si è reso conto: per quanto ancora all'interno di un sogno, per raggiungere il limitare del campo, il principio dell’abisso, ha dovuto uscire dalla fossa che si era scavato. Passare dal rancore al fare.
Non vorrei trasformare in apologo quella che era solo una metafora letteraria. Però mi sembra che da quando il libro è stato pubblicato, nel 1951, l’intima dissidenza di Holden sia diventata uno stile quasi di massa, come le ciabatte con l’infradito. Tanto che i giapponesi gli hanno dato questo nome spigoloso, che non riuscirò mai a cacciarmi nella testa. Io stesso, per molti anni, ho preferito il tepore di una tana, in cui infiniti specchi restituiscono l’immagine ribaltata di quel che sta fuori. E’ come osservare il mondo dal periscopio di un sommergibile. Così quando tutto sembra brutto e volgare, basta porre un prefisso negativo per sentirsi diversi e migliori: NON-brutto, NON-volgare, NON-ipocrita e consumista. Il processo di disidentificazione, utile premessa all'emancipazione personale, è stato insomma confuso con la misura del Vero.
Ciò è attuale anche da un punto di vista politico. Cosa c’è di più infossato del Partito Democratico italiano, un partito che ha saputo fondarsi solamente sulla figura retorica dell’antitesi: NON-berlusconiano, NON-scopatore-di-escort, NON-amico-di-Dell’Utri … Ok, ok, tutto giusto, direbbe Phoebe. Ma se anche il PD avesse una sorellina arguta, con grandi occhi spalancati nella notte scura, aggiungerebbe: Franceschini, Bersani, Dalema, Veltroni … Ma una buona volta lo volete dire, e però in positivo, una cavolo di cosa che vi piacerebbe fare nella vita. Quindi mostrerebbe cosa ha imparato al suo corso di rutti.
Ma torniamo a me, al mio amico e a quel suo figlio un po' giapponese. Tutti in un fosso, è questa la nostra epoca. Ciò che io però trovo veramente insidioso, non è il NO IO NON CI STO, che con qualche buona ragione risbattiamo sul muso del mondo. Piuttosto il Si’, incondizionato, che viene espresso nella direzione dello stagno in cui si riflette la nostra labile figura. La mia impressione, è che il processo di diffusa giapponesizzazione nasca da qualcosa come una sorta di arrocco mentale, che in psicologia clinica potrebbe essere definito formazione reattiva. Nietzsche utilizzata un termine ancora più bello: malattia delle catene. Ad indicare il gesto di chi, reagendo a una condizione esterna percepita come ostile, ne replichi l’essenza dentro la sua risposta, solo in forma ribaltata. Da qui ricavò l’idea che il comunismo fosse intimamente legato al capitalismo, come l’immagine negativa impressa sulla pellicola. E facendo ancora un po’ di filologia, Felix Guattarì, parlando degli anni ’80, li chiamò anni invernali. Con questa immagine sottolineando come una sana dinamica psichica, dove il mondo venga investito dal desiderio, dalla libido, a partire dagli anni ’80 si è invertita di segno. Ritirandosi dal mondo, la libido ha così finito con l’allagare le nostre stanze.
Un altro esempio, nel diverso campo dell’arte, è quello che ricaviamo da una delle più celebri opere di Piero Manzoni. Mentre Holden Caulfield sfugge dal mondo, organizzato in collegi per figli viziati dei ricchi, Manzoni restituisce al mondo quello che il mondo gli offre: merda. Solo che in questo caso ci troviamo di fronte a una “merda d’artista”. Qual è dunque la differenza tra merda comune e merda d’artista? Io credo che, al di là della provocazione beffarda, nella definizione ci sia una motivazione non peregrina e genuinamente “artistica”, come lo stesso Manzoni sottolinea. Infatti il termine artista, nella tarda modernità, ha finito col coincidere con il luogo più intimo e profondo della soggettività; in altre parole, con la titolarità di una visione. Che in questo caso, corrisponderebbe con la titolarità della propria merda, sottratta alla cloaca sociale che va imponendosi attraverso la nuova scena metropolitana e tecnologica, che culmina nel sistema dello Spettacolo: estrema purga del desiderio da ogni residua incrostazione critica. Un processo che produce la cosiddetta omologazione culturale, che poi è forse semplicemente il gesto cacare tutti assieme, in famiglia, come cantava Giorgio Gaber. Quella del mondo è insomma una merda indifferenziata, alla maniera di un coro tragico, mentre l’artista si sottrae al brusio delle masse anonime che guadagnano la scena moderna, opponendo la sua irriducibilità olfattiva: va bene puzzare di merda, purché sia la propria merda.
La riflessione sull’ineffabile opera di Manzoni, è dunque per me decisiva nell’accostarmi alle parole del mio amico. Non più fosse comuni, come quelle in cui venne svilita la “salma d’artista” di Mozart, ma fosse napoleoniche per lo snobismo di massa: individuali, confortevoli, su misura come un bel vestito. In questo spostamento della percezione, l’elemento che diventa davvero cruciale nella sindrome giapponese della fossa - da scavarsi rigorosamente con le proprie mani - non è più la virtù, intesa come eccellenza del singolo all’interno di un sistema di valori condivisi. Piuttosto l’anti-virtù, interpretata come rifiuto di qualsiasi categoria generale di bello, buono e giusto. L’unico valore riconosciuto e ricercato, diviene dunque la corrispondenza di sé con sé. Ma al di fuori di qualsiasi altra categoria individualizzante – io non posso più essere intelligente o bravo, se rifiuto la nozione comparativa di intelligenza o quella etica di bene – lo stile unico e irripitibile della propria cicatrice, si pone come fondamento unico e tautologico della soggettività. Che tradotto nel linguaggio del Belli, diventerebbe: “Io so io, e voi nun siete un cazzo”. Insomma, un nuovo orizzonte culturale che forse non è nemmeno tanto nuovo. E all’interno del quale, diventa perfino ovvio sottrarsi alla fatica del lavoro o al giudizio di una commissione di laurea. Quando questa dovrà necessariamente fare riferimento a categorie di valore percepite come estrinseche, se non addirittura ostili.
La sensibilità moderna, centrata sul languore del riconoscimento, vertigine ammaliante dello specchio di Narciso, ha però un corollario. Se il desiderio libidico non è più orientato verso il mondo, come suggerisce Felix Guattari, ma autoriferito dentro un loop ipnotico e confortante, per centrare il bersaglio dell'ombelico è necessario scorgerne i contorni con chiarezza, distinguerci dal branco. Questo porta a una sorta di estetizzazione diffusa, di femminilizzazione del maschile. I valori storici della mascolinità si sono infatti costituiti, almeno in Occidente, a partire da una comunità politica, cioè una polis intesa come gruppo solidale e geograficamente collocato, a cui essere conformi anche nello spirito. Mentre il femminile, bandito dal discorso pubblico in quanto pericoloso, o meglio percepito come tale perché troppo “naturale”, confusivo, per essere accettato dalla comunità dei maschi ha avuto bisogno di distinguersi; ma non oltre una certa misura, per non destabilizzare nuovamente. E’ infatti a tutt’oggi considerato un pregio, per una donna, essere abbigliata in un modo personale ed eccentrico ad un party, quando invece il fascino maschile è giudicato con un metro quantitativo: i soldi, il potere, la cultura come somma di nozioni. Ecco, l’uomo del fosso è così un uomo femminilizzato, che fa della bizzarria, della stravaganza e della irriducibilità formale al gruppo, i suoi caratteri distintivi. Ma tale irriducibilità può avere anche un tratto filosofico, socratico: sapere di non sapere, quando il sapere pubblico è uno pseudo-sapere fondato sulla menzogna. La sintesi più efficace, diventa allora quella dei memorabili versi di Montale: “codesto solo oggi possiamo dirti, \ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”
Lo scenario che si sta delineando, mi richiama infine a un’altra opera che ho amato molto. E’ un film di Ken Loach, un bellissimo film. Il protagonista, Joe, viene da un doloroso percorso di disintossicazione alcolica. Prima di essere accettato dentro una comunità di recupero, gli è stato richiesto, come sempre in questi casi, di sottoporsi a una presentazione a dir poco imbarazzante. Di fronte all’intera assemblea degli alcolisti anonimi, egli deve alzarsi in piedi, con solennità rituale, e pronunciare la seguente frase: “Il mio nome è tal dei tali, e sono un alcolista”. Fino a che non avviene una pubblica associazione tra nome e vizio, i gruppi di recupero si rifiutano di accogliere le persone che richiedono il loro aiuto. Senza tale associazione, infatti, pare che permanga una percezione di sé in termini eufemistici: posso smettere quando voglio, un bicchierino ogni tanto … No No, il tuo nome, prima, e poi la descrizione del tuo gesto, che imparerai a chiamare vizio. Ciò che sembra implicito al percorso di riabilitazione, è pertanto l’esatto contrario della cultura della fossa. Gli alcolisti anonimi sembrano dirci questo: tu non esisti come individualità irrelata, tu sei qualcosa come una canna vuota soffiata dal vento delle relazioni. Che producono effetti nel mondo, conseguenze misurabili, quindi nuove relazioni. Per questa ragione, anche nozioni come sensibilità e interiorità perdono infine di significato, a favore della cruda concretezza dei gesti, degli atti pubblici che noi compiamo. Così se facciamo la cacca diventiamo dei cacatori, non degli artisti. E se beviamo oltre un certo limite, degli alcolisti.
Con tutta la forza e con tutta la dignità di cui dispone, e dopo molti dubbi, Joe si alza dunque in piedi. Pronunciando la frase in un sol fiato, come fosse l’ultimo bicchiere: “My name is Joe, and I’m alcoholic”.
Osservando la scena con incantata ammirazione, non posso fare a meno di un nuovo collegamento. Ritorna infatti alla mente la distinzione, suggerita da Max Weber, tra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità. Dove la prima, fondata sulla volontà di fare il bene piuttosto che sugli effetti di tale volontà, è completamente svincolata dal gesto, poggiata com'è sul volubile ritmo del cuore. Non è difficile scorgerne l'ascendenza dentro cultura cristiana, e in particolare cattolico-romana, per quanto malintesa. Mentre per Max Weber un’etica matura è quella che pone il gesto, ma soprattutto le sue conseguenze, al centro della costruzione dell’identità soggettiva, che per avere sostanza etica deve avere una comunità come suo riferimento primo. Da questo punto di vista, è allora evidente come gli alcolisti anonimi, per quanto forse inconsapevolmente, siano degli incalliti weberiani (corretti da un pizzico di Levinas ...). Mentre la cultura della fossa riporta l’etica a una sensibilità agostiniana. “Ama e fa ciò che vuoi”, sembra infatti dire l’uomo del fossato. Ma in fin dei conti, non è tanto importante se quel che ami è il prossimo tuo.
Credo che sia conseguenza del film che mi scorre davanti agli occhi, che anche a me sta passando la voglia di impicciarmi del prossimo mio, almeno per un momento, e di concentrarmi sullo scarabocchio della mia cicatrice. In fondo le Winston sul tavolino non mi appartengono, io nemmeno fumo, o il tè freddo alla pesca o il giornale spalancato come lo sguardo di Phoebe, in cui si paventano distese di nuove fosse tra i valloni. A ognuno allora la sua fossa, la sua pagliuzza conficcate nella retina. Interrompo così il mio amico: per piacere, non voglio più sapere di tuo figlio. Se ha scelto di stare dentro un fosso, che ci resti, no? E’ una scelta come un’altra, almeno fino a quando ci sono viveri a disposizione. Può perfino essere qualcosa come un vaso da cui sbocciare più sani e più belli. Personalmente, ho però deciso di considerare vergognosa questa condizione, né più né meno una vergogna, se la vergogna è quel sentimento che nasce dal considerare gli altri come proprio specchio. Pascal diceva che dovremmo imparare a vergognarci di continuo. Sì, ho deciso di coincidere con la mia mano, di chiudere per un momento la pagina del cuore, stando agli effetti pubblici dei miei gesti. E mettendo così tra parentesi anche le languide dolcezze della sensibilità, o la mia merda ma tanto tanto profumata. Perciò mi alzo in piedi davanti al computer, davanti a tutti a voi, e lo dico chiaro e tondo:
Il mio nome e Guido, e sono in un fosso.
Poi correggerò questo testo, spegnerò il pc e uscirò fuori a ritrovare gli amici del bar Piero. Il Cagnola, il Farofa , il Miglietto e suo nipote Angiolino, che a cinque anni parla solamente il dialetto di Piateda, più incomprensibile e misterioso del giapponese dell’epoca Sengoku. Oppure il Cicci, camicia nera d'ordinanza. Adesso che non ha più l'età per fare il buttafuori nei night club, sta tutti i pomeriggi al bar Piero a incazzarsi con chi gli tocca la Juventus. Alla fine l'ho spuntata, mi ha promesso di prepararmi il minestrone con le verdure del suo orto; una punta di carne di manzo però, come gli ha insegnato sua madre. Ma dovremo aspettare l'autunno, quando sarà tornato anche il Mineur dalla Libia, e il tepore della carota e del sedano e della cipolla, come una benedizione laica e misericordiosa, disporranno gli animi all'agguato dei primi timidi starnuti. Proseguendo la mia passeggiata, magari troverò anche il mio angolo di campo. Dove acciuffare i bambini che corrono troppo vicini al burrone, in cui solo faremo gara a chi piscia più lontano. Ascoltando poi l'eco fragoroso dei nostri rutti nel vento.

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