lunedì 17 agosto 2009

Breve corso di scrittura creativa


Blood! Blood! Blood! Sangue e anche molto per cominciare, da spargere con il gesto largo di chi versi l’olio sulla focaccia. In tasca una storiella sanguinolenta da servire in ogni occasione. Ma con noncuranza, senza apparente sforzo o fatica. Come l’anziano che dice al giovane: “Ce la facciamo una sgambata?”

Ho visto una ragazza dal dentista spillare fiotti di sangue dalle gengive scoperte. Non poteva chiudere la bocca, i rotoli di ovatta erano ormai completamente inzuppati e le deformavano i lineamenti del viso. Stentando, la cannuccia aspirava la saliva impiastricciata, ormai livida. Il suono era quello consueto di un Apecar che arranchi su un vallone, con un cagnetto meticcio che scodinzola sul pianale. E però mancava movente, colpa ed espiazione. Una cattiva storia, insomma.

Eppure lui continuava a guardare, a rovistare in quella bocca con lo sguardo vacuo di chi frughi dentro a un frigo; cercando lattine di birra danese, i wurstel di Bolzano o la ketchup da riversare a litri sui pellerossa quando cascavano da cavallo; o meglio si lanciavano scivolare con plateale perizia, un ultimo sussulto come di gallina colta da una vampa di calore (sindrome chiamata SIM, lo stesso dei telefonini). A terra dovevano fingere di essere morti stecchiti, anche quando l’uomo bianco si avvicinava al loro scalpo. In viaggio per i verdi pascoli di Manito.

Storie che germogliavano nel niente di un mattino, ma per coglierle bisognava possedere un solo occhio, come Ciclope. A John Ford (ma pure a Nick Ray, a Fritz Lang) forse per questo cominciò a calare un sipario ovoidale e scuro sopra l’altro occhio, che ogni giorno si chiudeva sempre di più, fino a coincidere con lo stigma arrossato della cicatrice. L'eccedenza del reale veniva così espunta insieme al pus, ricomposta nella misura della parte. Il tutto è troppo.

Una semplificazione marziale, spiccia, che anche in questo li rendeva simili a un famoso generale israeliano. Quando compariva stava ritto in un carro cingolato, da cui sporgeva con il busto e le braccia; le muoveva convulse dentro l'aria, strillava ordini in una lingua sconosciuta, i militari intorno attenti a non impallarne la testa nuda e tonda, che riluceva nell'inquadratura. Da lontano ricordava il simbolo del Tao: una pecetta nera nel bianco della faccia, un granello bianco nel nero della storia.

I più intraprendenti tra noi realizzarono lo stesso artificio con elastici e vecchi scampoli, fettuccine di stoffa sottratte alla cesta generosa delle nonne. Ma la Standa e la Rinascente ne erano ugualmente fornite, in quel tempo in cui l'inverno comincia a maturare dei dubbi, si inciampa e si contraddice, in attesa di recuperare la spavalda certezza dell'estate. Ci si calava così, mezzi orbi, nello scurissimo abito del Corsaro Nero: le maniche da cui sgorgano sete, gli sbuffi le trine ed i pizzi. Sul cappellaccio, una lunga penna di corvo.

Conosciuto anche per via dei fratelli minori Enrico ed Amedeo, più noti come Corsaro Verde e Corsaro Rosso, la sua vicenda ricorda certe dinastie cinematografiche prive di fantasia, dove ci si sente inchiodati alla parte fino all'ultimo rampollo. La figlia Jolanda come Jane Fonda, dunque. Come la staffetta generazionale dei Tognazzi e dei Gassman. Malgrado il sole affilato della Tortuga, chissà perché, tutti la immaginavano pallidissima.

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