lunedì 10 agosto 2009

Il palloncino del Gattopardo


Al bar Piero, da qualche mese, è arrivato il Gattopardo. Credo che con questo titolo intenda semplicemente sottolineare la provenienza siciliana. Il soprannome se l’è infatti assegnato da solo: “Ciao ragazzi, vi voglio bene. I love you dal Gattopardo”. E’ il suo saluto, prima di andarsene con la testa incassata tra le spalle, lo sguardo perso dentro al cielo.
All’inizio il Gattopardo si sedeva un po’ discosto dal nostro gruppo. Nessuno sapeva chi fosse, da dove sbucasse fuori. Poco meno di quarant'anni, i capelli neri che cominciano a diradarsi, ma un viso liscio da ragazzino. Come ora, indossava sempre una polo colorata un po' abbondante, perlopiù rossa, mai di marca. Quindi ordinava una birra piccola e ci osservava in silenzio. Ma quando gli è forse parso di intravedere una maglia più lenta dentro i discorsi, si è infilato senza preavviso. E nessuno è più riuscito a fermarlo.
I suoi argomenti spaziano dall’agiografia – pare che abbia un’intera collezione di statuette dei santi, nel lungo corridoio della sua abitazione – agli ufo – una stirpe aliena chiamata Anellini, a cui un certo Maurizio Cavalli dà del tu – a curiose interpretazioni storiche e scientifiche. Argomenti che incominciano ad avere un loro pubblico affezionato, per ragioni tutto sommato comuni a questi luoghi: ci fa ridere.
E’ buffo sentire raccontare il Gattopardo dell’origine dell’umanità, che discenderebbe da una particolare specie di scimmia chiamata Cambogia. La quale dispone dei seguenti attributi: è bionda, nuota a dorso e respira sott’acqua. Oppure ascoltarlo mentre discetta di geomorfismo, concludendo che i terremoti sono causati dagli Anellini - ogni tanto scuotono un poco la terra, come passatempo che rivelano poi a Maurizio Cavalli. O ancora, spericolate esegesi storico-teologiche sul tradimento di Gesù. Che non sarebbe avvenuto solo da parte di Giuda Isacariota, ma anche di un suo amico, oltre che socio in un'impresa commerciale. Più precisamente, sarebbero stati titolari di una pizzeria a Gerusalemme. Però qui il Gattopardo fa una pausa, forse intuendo la scarsa verosimiglianza della cosa. Quindi riprende aggiungendo un dettaglio decisivo, e nella sua intenzione persuasivo: “Ragazzi, oh, non una pizzeria normale: una pizzeria d’asporto”.
Con Giuda pizzaiolo in un take away, il Gattopardo si è assicurato i riflettori dello sghignazzo perpetuo. Era inevitabile, l'universo franto ma in fondo omogeneo dei bar sport, è soggetto a un'implacabile legge darwiniana. Dove il più debole, la nota dissonante a una partitura di quieto buonsenso, è destinato a soccombere, a essere triturato dal gruppo. Eppure io non ho mai pensato che fosse semplicemente uno svitato, magari con qualche punta di stralunata e involontaria poesia, ma che in lui ci fosse qualcosa di più. Qualcosa che dice anche di noi, intendo.
Dopo averci spiegato – perché il Gattopardo non racconta, ma spiega, illustra, pontifica, ignorando ogni replica – dell’origine della specie umana dalla scimmia Cambogia, egli infatti aggiunse: "L’ha detto Gerry Scotti." E così per tutte le sue altre teorie para-scientifiche: esiste sempre un appiglio, perlopiù mediatico. Quando non è Gerry Scotti, si tratta allora di una trasmissione chiamata Enigma, oppure Top Secret; che il Gattopardo chiama però “topi segreti”, con spostamento lessicografico involontario degno del miglior Totò. Insomma, se lo dice Gerry Scotti o i topi segreti, non si discute. Si tratta della verità.
Cercando di sintonizzare le frequenze del mio pensiero con la sua logica provvisoria, ma potentemente simbolica, mi è così parso di scorgere il principio di una qualche razionalità. Che per quanto estrema, interpreta, se non addirittura prefigura, un destino comune. Quando ad esempio si appoggia all’autorità intellettuale di Gerry Scotti, è inevitabile il riferimento al suo programma più famoso, Chi vuol essere miliardario. Dove il presentatore, come noto, pone una domanda al concorrente, presentandogli contestualmente quattro possibili risposte, di cui una solamente corrisponde a verità. Ecco, io credo di aver compreso che la reazione del Gattopardo sia allora di questo tipo: non una, ma tutte e quattro le risposte sono “vere”. Perché pronunciate da Gerry Scotti, naturalmente.
Certo, questo è un esempio quasi paradossale. E comico, anche, come abbiamo visto. Ma provando a ricondurre la sintassi immaginifica del Gattopardo dentro una struttura riconoscibile, a me pare che avvenga questo. Esiste un problema generico relativo alla verità di un enunciato. Le affermazioni, che possono essere anche fattuali come la discendenza della specie umana, o la vicenda storica di Gesù di Nazaret, per essere verificate vengono allora filtrate da due diverse griglie concettuali, tra loro alternative. Da una parte l’intima evidenza della cosa in sé, o la coerenza logica ed esperibile dei suoi enunciati. Così se diciamo che un sasso va a fondo dentro l’acqua, per validare l’affermazione non c’è come provare a lanciare una pietra in un torrente. Se affonda, la proposizione si dimostra vera.
Diversamente, esiste un altro genere di validazione fondata sul consenso, o indirettamente sull’autorità di chi la esprime – che è lo stesso principio, solo traslato. Ad esempio, se il Pontefice della Chiesa Romana afferma che gli omosessuali sono fuori dal disegno divino della salvezza, esprime un particolare tipo di verità – quindi incontestabile – basata sull’autorevolezza del suo ruolo, e che chiamiamo verità di fede. O meglio, esiste un consenso preliminare intorno alla “verità” di quel ruolo. E tale consenso, per metonimia, viene esteso anche alle preposizioni che dal ruolo traggono legittimazione.
Questa distinzione interna alla categoria filosofica del Vero, era già nota nel pensiero classico. In Grecia, dove esisteva una percezione nominale particolarmente sottile, venivano così usati dei vocaboli differenti. Episteme era un termine con cui veniva indicata quella particolare verità fondata sull’evidenza, sulla coerenza logica ottenuta per via sillogistica, altrimenti detta apodissi. Non esisteva ancora la nozione di scienza come modernamente intesa, e quindi non siamo legittimati a farla coincidere con una verità sperimentabile, e ancor meno replicabile. Eppure l’episteme, che letteralmente significa “ciò che sta sopra”, è ugualmente in grado di affermarsi in luogo della propria forza: per la persuasività del contenuto proposizionale, potremmo dire.
Al contrario il termine doxa, che significa opinione, ha nel grado di adesione del soggetto all’enunciato l'unica possibile legittimazione. In pratica non ha molto senso chiedersi se sia vero o falso ciò che viene affermato per doxa, quanto se sia autentica la compenetrazione emotiva che lega a un enunciato. Un’ opinione è insomma "vera" se la sentiamo con intensità, con partecipazione. Molte opinioni convergenti fanno dunque una cultura. Mentre una cultura fondata sulla doxa e non sull’episteme, è una cultura emozionale, carismatica, o se preferiamo teologica. Ossia un pensiero di carattere simbolico, che assegna ai suoi rappresentanti l’autorità di stabilire il vero e il falso, indipendentemente da qualsiasi altro elemento che "sta sopra”.
Bene, dopo questa divagazione filologica torniamo al nostro amico Gattopardo. Qual è dunque la struttura soggiacente le sue affermazioni sulla scimmia Cambogia, gli Anellini, i take away ante litteram …? A me sembra a questo punto abbastanza evidente. Il Gattopardo delega la propria facoltà critica all’autorevolezza di un giudice esterno, che nel suo caso coincide con Gerry Scotti. Quindi, senza preoccuparsi del contesto in cui il proprio referente si esprime – cioè se sia in fase di interrogazione o di replica - prende tali enunciati e li trasferisce tout court all’interno del proprio argomentare. Poco importa, dunque, se tre delle affermazioni fatte da Gerry Scotti erano sbagliate per definizione, e vera solamente una quarta. L’autorevolezza semantica di Gerry Scotti è tale da azzerare quelle che a lui appaiono come trascurabili sottigliezze: sofismi.
Provando a fare un dolly cinematografico che ci sollevi dai tavolini del bar Piero, a me sembra che accada dunque questo. Esiste un luogo, l’Italia, e un popolo, gli italiani, dove da svariati secoli si è preso a confondere doxa con episteme. Con il termine "gattopardismo" che sta forse a segnalare proprio questa transumanza del consenso; dove stabile rimane solo l'interesse particolare, la ricerca delle briciole sulla tavola del sovrano di turno. Venuta progressivamente meno l’autorità enunciativa di attori linguistici come la Chiesa Cattolica Romana, o il nucleo etnico e parentale, lo stesso popolo ha iniziato a rivolgersi ad altri soggetti produttori di narrazioni, altri sovrani. In particolare, a partire dal secondo dopoguerra, ai mezzi di comunicazione di massa: radio, giornali, cinema. Televisione, soprattutto.
E' dunque sufficiente che un'opinione venga stornata dal bar Piero ed espressa da uno di questi strumenti, per guadagnare automaticamente in riconoscimento; la doxa viene obliterata dal mezzo, potremmo dire. Il processo di obliterazione dell'opinione, diviene particolarmente evidente con la diffusione dei talk show. Se Maurizio Costanzo chiede a Margherita Hack un parere astronomico, è considerato normale - ossia vero-simile - che questo parere venga sottoposto al vaglio degli altri ospiti presenti sul palco. E Alba Parietti o Platinette, possono tranquillamente dissentire: affermando che è il sole a girare attorno alla terra, ad esempio. Gli enunciati di Margarita Hack e di Alba Parietti e di Platinette, sono infatti sullo stesso piano. Non saperi, ma opinioni ugualmente legittimate dalla presenza sui divani del Parioli.
Nella logica formale, lo stesso processo viene chiamato tautologia, perché la dimostrazione si risolve in una circolarità tra premesse e conseguenze, dove è la forma del discorso a garantire in merito al proprio contenuto. Un po' come i documenti di autocertificazione che vengono ora rilasciati dall'anagrafe comunale, un po' come chiedere a Totò Reina di giudicare Cosa nostra, o a Rocco Siffredi una diagnosi ginecologica. Troppo coinvolti, voglio dire.
All’interno dei luoghi di pubblica narrazione, si è però negli ultimi anni creato un dissidio interno, come appunto le baruffe al Parioli. Alcuni giornali si sono messi a smentire la verità tautologica del Presidente del consiglio dei ministri, che è contemporaneamente la principale autorità linguistica del medium televisivo. Un doppio sovrano quindi: del fare e del rappresentare. Se vogliamo continuare a considerare queste voci come “verità di fede”, si è insomma creata una sorta di guerra di religione, in cui diverse confessioni si contendono il proscenio di una verità spettacolare. Anche i giornali del gruppo Repubblica ed Espresso, sono infatti soggetti in qualche modo "teologici", con un particolare approccio ai saperi che molto ricorda la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer. Insomma, un pensiero critico ma intriso anche di ideologia modernista, di doxa che si fa influente filtro cognitivo, cultura popolare, per quanto all'origine borghese. Mentre dall’altra parte, la doxa non ha nemmeno più una parvenza epistemica: è pura opinione fondata sul potere seduttivo di un corpo, di un racconto mitico che veicola storie non molto lontane a quelle degli Anellini, della scimmia Cambogia e di Giuda Iscariota con la sua pizzeria - ma bada bene: d’asporto.
Curioso che i giornali stranieri si stupiscano per la tiepide reazioni degli italiani alle stoccate di questo conflitto, che molto ricorda il duello con lame di luce azzurrina e intangibile, nella celebre sequenza di Guerre stellari. Io credo invece che gli italiani non siano coinvolti perché lo vivono come gioco d'opinione, cioè come contrapposizione dentro il regime linguistico della doxa, unico domicilio contemporaneo del Vero. Le rivelazioni di Repubblica ed Espresso, che molto invece hanno di reale, di concretamente verificabile (e verificato), sono quindi compromesse dallo sfondo teologico attraverso cui vengono accolte e filtrate. Si confonde, insomma, ancora una volta tra le buste. E come fa il Gattopardo, non è più tanto importante in quale delle quattro sia contenuta la risposta esatta. Piuttosto chi enunci la propria verità di fede con maggiore forza liturgica, a cui aderire visceralmente.
Il Gattopardo ora si alza e dice che deve andare a casa. “Ciao ragazzi, appena torno in Sicilia vi prendo i cannoli e le meline rosse di marzapane, ok? Vi voglio bene, I love you dal Gattopardo: ciao ragazzi, ciao ciao ciao...” Osservandolo di spalle mentre si allontana come un pinocchietto malinconico, mi viene in mente la battuta di uno tra i più beffardi tra noi. Che notando il suo sguardo sempre rivolto al cielo, il collo conficcato tra le scapole, gli disse un giorno: “Hai perso il palloncino?”
Sì, siamo un popolo che ha definitivamente perso il palloncino, e che si appende alla cordicella di un’opinione sorridente, seduttiva. Ma senza nemmeno più quel velo di tristezza che leggo negli occhi nocciola del Gattopardo, allarmati come quelli di un cerbiatto smarrito. Forse per questo è sempre rivolto al firmamento, quel che “sta sopra” ma ostinatamente si cela, il Grande carro della vita, nella vana speranza di ritrovare un sentiero nel bosco. O magari solo il suo palloncino.

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