Mi ricordo che due o tre compagni avevano inghiottito una
pasticca rosa, quindi eravamo partiti alla volta di Venezia. Una meta poco
originale per la gita scolastica al termine delle medie, qualcuno aveva
proposto Mantova, a Verona eravamo già stati l'anno prima. Appena saliti sul
pullman ci si suddivideva in comparti umani facilmente riconoscibili; a
posteriori, mi sembra di poter affermare che si trattasse di una vera e propria
antropologia. Come nel sistema proto castale ariano era composta da tre gruppi,
anzi tre e mezzo: parte anteriore, centrale e coda, con lievi slittamenti
intermedi.
Alla testa del veicolo, subito dopo il conducente, si
sistemavano i secchioni, le secchione ma anche ragazze dalla pagella ordinaria,
che stavano lì solo perché innamorate del supplente di lettere, da loro
incalzato con domande su Bube e la sua paziente noiosa ragazza. Pensavano,
forse, a questo modo, di essere più desiderabili ai suoi occhi azzurri e miopi.
Lui rispondeva a tutte le domande come se fossero realmente domande, orgoglioso
per l’interesse suscitato dalla propria materia.
Al centro trovavano posto studenti accoppiati per genere: maschio\maschio, femmina\femmina. Non si trattava di amici in senso
stretto, a unirli era l’interesse per lo sport – calcio e Formula 1, in
particolare, per i maschi –, mentre le femmine erano taciturne e guardavano
tutto il tempo fuori dal finestrino, in direzione della pianura trapuntata dai
capannoni industriali. E poi i lampioni arancioni che si accendono al
crepuscolo, le prostitute anziane accanto a copertoni fumanti, i distributori
di gpl con un cane nero alla catena.
Nei sedili penultimi, grappoli di ragazze cantavano le canzoni
di Lucio Battisti e della recente edizione del Festival di Sanremo, in una
promiscuità non cercata – erano semplicemente i posti rimasti – con coetanei
ridanciani. Ridevano, ridevano per qualsiasi cosa, anche il bugiardino di un
farmaco contro il mal d’auto (la pasticca rosa) li faceva ridere, specie quando
non produceva l’effetto desiderato e Lamberti ha cominciato a vomitare.
L’ultima fila, a divanetto, era riservata ai bulli.
Quattordicenni che già fumavano Marlboro e ingollavano avide sorsate di Peroni
Nastro Azzurro, attenti solo all'attenzione degli altri, da dirottare sempre
verso di sé. Faceva naturalmente eccezione lo sguardo sormontato dagli occhiali
del supplente di lettere, comunque troppo occupato a rispondere alle domande
delle sue spasimanti per accorgersi dei loro traffici.
Mescolati ai bulli, in uno scarto percepibile solo per via di
una maggiore statura, stavano i ripetenti e soprattutto le ripetenti, a cui i
bulli toccavano furtivamente il seno nello sporgersi verso il vano porta valige
– scusa, mi fai passare, devo prendere un pacchetto di cracker, a cui seguiva
puntuale la toccatina. Certo, si chiamano molestie sessuali. La giusta
punizione ai cuccioli del patriarcato non passava però da un tribunale, e
piuttosto per il rito, ancor più celere, di una sberla a intensità variabile.
La domanda a questo punto diventa: e io, io lettore, proprio io
che ho appena letto la parola letto seguita dalla parola parola, dove stavo
seduto sul pullman?
Lo sapete di sicuro, la gita scolastica delle medie non si
dimentica, sarà sicuramente stata la prima volta di qualcosa; magari la prima
volta in cui ci si accorge che ci sono solo seconde volte, la prima passa come
i jet militari quando solcano il cielo. Il boom sonico arriva dopo. Nel mio
caso occupavo l’ultima fila, e la ripetente al mio fianco assestava sberle dal
tenore pugilistico, per i due giorni successivi ho avuto dolori alla mascella.
Bene, e ora proviamo a immaginare dove stavano seduti i nostri
genitori, ma prima ancora i nostri nonni e via via a risalire il tempo fino
all’invenzione del motore a scoppio e delle gite scolastiche. Secondo me, quasi
mai dove eravamo seduti noi. Mi sono fatto l’idea che una famiglia sia un luogo
di dispersione, per cui non vale il motto tale padre tale figlio.
Escludo che mio padre si sia seduto anche lui nell’ultima fila a
bere birra tiepida e palpeggiare una Gigliola (così si chiamava la ripetente)
dei primi anni Cinquanta; lo vedo piuttosto in posizione intermedia, a parlare
col compagno di posto del grande Torino di Bacigalupo e Mazzola. Quanto a mia
madre, è verosimile che pendesse dalle labbra del supplente di lettere, ma
avrebbe potuto stare anche nel gruppo delle canterine. Di certo non tra le
secchione.
Se assumiamo per vera questa tendenza all’entropia famigliare,
la domanda successiva è sulla ragione: perché siamo così diversi dai nostri
genitori e loro dai propri, per non parlare dei figli che ci appaiono degli
alieni? Potrebbe essere una strategia evolutiva…
Immaginiamo che la famiglia sia il pullman e tutti i sedili
debbano essere occupati. O se si preferisce un alveare, un formicaio: noi
pensiamo di essere unici ma invece stiamo solo giocando una parte, o meglio
ancora ne siamo giocati. Non sineddoche, la parte per il tutto, ma il tutto che
ingloba la parte, la dispone secondo sue proprie occulte strategie di
riempimento, in un gioco di ruolo che non ha mai termine né senso alcuno.
Un gioco dove comunque vadano le cose vince sempre la famiglia,
vince il pullman, l’intero sulle sue determinazioni. L’unica sarebbe stata
puntare una pistola ad acqua alla testa del conducente, e poi dire: “Questo è
un dirottamento. Invece che a Venezia, ci porti al prossimo Autogrill.” Dove
scendere e dileguarsi tra panini Fattoria, cd di Califano e caciotte affumicate
disposte a gran pavese. E poco male se così ci saremmo persi la planata del
piccioni di Piazza San Marco sul palmo della mano cosparso di becchime.






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