venerdì 7 marzo 2025

Mi ricordo 32

Mi ricordo di una festa pomeridiana nella taverna dei fratelli Mazzera. La villetta stava a pochi chilometri da Sondrio, la raggiunsi in College, un motorino in voga nei primi anni Ottanta. L’avevo acquistato di seconda mano dal figlio di un vetraio, che gli aveva fatto sostituire marmitta e carburatore per rendere più gagliarde le prestazioni.

Di loro avevo sentito molto parlare, venivano nominati sempre assieme, i Mazzera, come un duo comico o una famiglia circense. Io non li conoscevo personalmente ma erano in classe con un mio amico, il quale aveva esteso l'invito alla festa. Il maschio, più vecchio di un paio d’anni, era stato bocciato un paio di volte, così da ricongiungersi con la sorella. Erano arrivati da pochi mesi, prima stavano a Roma dove il padre era dirigente di qualche ente pubblico; delle ombre sulla sua gestione dovevano però aver portato al trasferimento in provincia. Qui non mancava di rimarcare uno status superiore, condiviso dai figli.

Lei bionda, tonica, scattante, molto brava nel gioco della pallamano; lui indossava con ogni clima un giubbetto di renna e degli occhiali Ray-Ban a goccia, l'abbigliamento dei fascisti, ma non sono certo che valesse nella circostanza. Più che alla politica sembrava interessato alla sua Zundapp 125, a cui si dedicava con materna sollecitudine.

Entrambi erano desiderabili e desiderati per unanime consenso, come tutte le cose che rinunciano alla complessità, riflettendo l'ambiente che ne ospita le forme tendenti a un piacevole anonimato. Non era difficile farsi delle fantasie sessuali, specie se si immaginava l'uno a cavalcioni della Zundapp (il mio College truccato dal figlio del vetraio, al confronto, era un triciclo) e l'altra con le braghette attillate da pallamano.

Arrivai alla festa intorno alle 15, scoprendo di essermi sbagliato: iniziava un’ora dopo. “Entra, entra pure” mi disse cordiale la variante maschile dei Mazzera; non si era levato i Ray-Ban nemmeno nella semioscurità della taverna, solcata dai lampi delle luci stroboscopiche. Poi si diresse nel garage accanto, dove immaginavo fiammeggiare la sua amata creatura, e mi lasciò con la sorella che stava al centro del locale. Dalle massicce casse dello stereo fuoriuscivano le note sornione con cui inizia Bette Davis Eyes.

Lei non disse nulla, nemmeno un cenno del capo. Quando al sintetizzatore si unisce la grancassa e poi il basso elettrico, cominciò a muovere i fianchi, quindi ad accompagnare il ritmo della canzone con minimi scatti del corpo; più che una danza, ricordavano le finte a pallamano. Solo al refrain si avvicinò e, ricalcando con accento romano la voce roca di Kim Carnes, mi strillò in faccia: “And she'll tease you, she'll unease you, all the better just to please you…” E dopo avere lascito il suo alito di Big Babol sulla mia pelle, si girò per continuare la solitaria partita di pallamano.

Probabilmente, nel tempo che seguì, arrivarono gli ospiti, si stapparono le Ceres, iniziò la festa. Probabilmente. Ma tutto ciò è scivolato nello scolo dell'oblio, è rimasta solamente l’immagine guizzante della Mazzera: una divinità pagana che gioca a pallamano con gli effetti di ciò che proietta (la sfera tiepida che sentivo sgorgare dal mio petto non doveva esserle nuova, poteva farci quel che voleva e ne era consapevole), mentre il fratello carezza il sedile morbido della Zundapp.

Forse il ripresentarsi di questa memoria – tra il sonno e la veglia è il momento in cui si manifesta con maggior frequenza – sta a significare qualcosa, è una metafora, una metonimia inconscia, chissà… O forse è la vita a essere così: una rapida serie di finte per spiazzare la difesa, prima che le palpebre calino sugli enormi occhi azzurri di Bette Davies.

domenica 5 gennaio 2025

Voglio solo amore. Mi compri la borsa Chanel?

Nelle intercettazioni sull’inchiesta che riguarda il generale Buscemi e la presunta circonvenzione, da parte di otto spogliarelliste, dell’anziano militare ora defunto, si leggono le trascrizioni di alcuni messaggi a lui inviati. Non è l’oggetto che colpisce – il tentativo di spillargli denaro, appunto – ma la forma, che possiamo iscrivere nel registro letterario del grottesco. Aldo Nove o Paolo Villaggio, per intenderci.

Ma quale letteratura può ancora scaturire, mi chiedo, da una realtà che già si presenta in forma di oltranza comica, l’esagerazione tipica del genere è già compiuta in un quotidiano che non potrebbe essere più assurdo?

Ciò che risulta buffo alla lettura proviene infatti dal superamento di un limite (il famigerato patto di sospensione dell'incredulità con il lettore), che dunque deve essere presente, un incredibile ordinariamente creduto non è più sfondabile dal grottesco, e si affloscia nei goffi tentativi di comici maldestri. Gli scrittori dovrebbero fare causa alla realtà, gli sta sottraendo lavoro, come i figli di Buscemi stanno facendo causa alle spogliarelliste.

Le quali hanno però un formidabile argomento a loro difesa: noi stavamo lavorando al nuovo canone letterario, per fare comprendere anche al più zuccone tra di voi in quale mondo stiamo vivendo. E in effetti, leggendo le seguenti parole, agli atti della Procura di Roma, toccherebbe dargli ragione. E assolverle per aver compiuto il fatto:

1) “Voglio solo amore. Mi compri la borsa Chanel?”

2) “Voglio essere la tua donna, ma credi di potermi dare per oggi 110 euro?”

3) “Amore oggi facciamo solo una bottiglia. Però domani mi paghi il parrucchiere.”

4) “Voglio essere la donna che ti ha catturato il cuore. Voglio solo amore da te. Generale, sei il mio eroe! Mi dai 2.000 euro?”

sabato 4 gennaio 2025

La guerra è bella anche se fa male


Un filmato sta facendo il giro del web. È stato girato l’anno scorso con la camera nascosta nell’attrezzatura di un soldato ucraino, ma diffuso solamente ora. Si intravede la lotta corpo a corpo che ingaggia con un militare russo, è di etnia probabilmente yakut, dunque con fattezze asiatiche. Le immagini sono confuse, almeno prima di raggiungere una specie di stallo, come quando nelle zuffe infantili qualcuno gridava arimo, versione condensata di arimortis, e ci si fermava per ripigliare fiato. Poi si ricominciava a darsela di santa ragione o, con maggior frequenza, si andava a sciacquarsi a una fontanella, valutando i danni agli indumenti più che alla faccia. Non era raro che si concludesse il tutto con un Cornetto Algida da leccare assieme.

Qui però nessun gelato è previsto, se non nelle temperature esterne durante gli scontri. Il russo è riuscito a sferrare una pugnalata che risulterà all’altro fatale, entrambi lo intuiscono. Il primo a parlare è l’ucraino, di cui non vediamo mai il volto: “Aspetta, lasciami morire in pace. Mi hai completamente squarciato.” E dopo una pausa affannata: “Lasciami respirare. Fa molto male.”

Il siberiano ha un orecchio tagliato, il sangue cola sul suo volto, l'intero ovale ne è ormai ricoperto. Replica con voce non meno ansimante: “Hai combattuto bene.”

Insiste l’ucraino: “Lasciami andare via in pace. Non toccarmi, sono finito. Lasciami morire”. Quindi si accorge di un nuovo movimento della lama: “Uomo, non ci provare! Lasciami morire... Vai via. Lasciami morire da solo, voglio andarmene da solo."

Il russo riesce a liberarsi dalla mano con cui, contraddicendo le parole appena pronunciate, l’altro rimaneva avvinghiato al suo giubbotto antiproiettile. Indietreggia. L’ucraino lo ringrazia: “Grazie. Sei il miglior guerriero del mondo”. Poi prende fiato e ripete: “Sei stato il migliore. Addio”.

“Addio” risponde il russo. Si allontana per afferrare il fucile, ma poi ritorna e domanda per l’ultima volta: “Come stai?”

“Bene. Addio.”

Il dialogo finisce qui, presentandosi già composto in forma di letteratura; anche perché ho accompagnato la visione delle immagini solamente nella prima metà, poi non ce l’ho più fatta e ho distolto lo sguardo; le frasi che riporto le ho lette in un commento giornalistico. Ed è la prima volta (e sospetto anche l’ultima) che scorrendo il giornale diretto da Mario Orfeo mi sembrava di udire la voce di Omero, oppure di essere catapultato tra le pagine di Junger. L’emozione ha generato una sorta di cambio di stato, da orrore, sgomento, è diventata bellezza. Quando Francesco De Gregori canta che “la guerra è bella anche se fa male” probabilmente si riferisce a una simile esperienza.

Nelle guerre antiche ce n’erano a migliaia di momenti così, rappresentavano un’iniziazione pratica a valori – pienamente umani – come onore, rispetto, coraggio, lealtà, abnegazione di sé verso un’ideale astratto di virtù, ad esempio la Patria. Detto per inciso, Patria, con la maiuscola, è un concetto che ora ci fa sorridere, ma non il sentire a esso implicito, per il quale il perimetro angusto dell’io non rappresenterebbe il culmine dell’evoluzione. C’è qualcosa di più grande a cui offrire (se proprio richiesto…) anche la vita, qualcosa che ci dischiude a identificazioni allargate.

Un io più esteso ma non inclusivo, ecco. Lasciamo provvisoriamente perdere le questioni di genere o le minoranze da tutelare. Possiamo chiamarlo noi, possiamo chiamarlo altro o ancora meglio non chiamarlo affatto, solo percepirlo. La bellezza della guerra sta in fondo tutta qui: è un’iniziazione percettiva, introduce alla vastità psichica innominata e priva di confini geografici, che la psicologia moderna cerca ingenuamente di marcare. Eppure Eraclito ci aveva avvertito: "per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo logos." 

Ma non è l’unica iniziazione possibile, penso. A maggior ragione non lo sono le guerre moderne, di cui l’episodio riportato rappresenta in fondo un anacronismo, sostituito da missili, droni, gas e altre vigliacche mediazioni tecniche, utili non a risparmiare vite umane ma a distogliere da tale percezione: che oltre l’umano consueto (quello che alle 17.30 in punto stacca il suo turno in ufficio) ci sia lo spazio per uno sfondamento. No, non è l’unica iniziazione, ne sono sempre più convinto. La guerra non è l’unico modo per squarciare l’illusione che coniuga in prima persona singolare.

Ed è allora alle nostre vite senza trauma, o trapuntate da micro traumi sprovvisti della funzione iniziatica, che il filmato dei due combattenti consegna il compito di andare oltre: oltre Caino che si scaglia contro Abele, oltre l’oltre raggiunto nel rito sacrificale, oltre la guerra insomma, scrigno di una bellezza difficilmente reperibile altrove. La loro indicazione è di non replicarli, cercando un’estensione psichica altrettanto capiente ma che non faccia male. Vivere in pace senza un’esperienza iniziatica di natura espansiva – la sola razionalità non ci è mai arrivata –, ora più che mai si dimostra sterile utopia. Le numerose guerre riaccese nel mondo ci ricordano che, per evitarle, si deve prima evitare di sostare troppo davanti allo specchio. Ogni specchio è una menzogna da infrangere, e porta sfiga non farlo.

sabato 28 dicembre 2024

Mi ricordo 31

 

Mi ricordo di averla conosciuta in un bar all’ingresso di Ardenno, di fronte alle scuole elementari dove mio padre era direttore didattico. Proveniva da uno di quei paesini in Brianza nei quali o si gioca basket o si costruiscono mobili o entrambi. In Valtellina era venuta per trascorrere il Ferragosto assieme ai nonni materni, è raro vedere un volto nuovo da queste parti, e tocca riconoscere che aveva un volto davvero grazioso.

Le offrii un Cuba Libre – come faceva a sapere che ne avevo appena ordinato uno anche per me? – e cominciammo a parlare. Ma dai, sei iscritta a Filosofia, pure io sono iscritto a Filosofia… Che coincidenza! E poi il cinema, incredibile, le piaceva John Cassavetes, Gloria era uno dei film preferiti da entrambi. Passammo presto alla letteratura. Hai letto Mentre morivo? Non so chi lo chiese, ma l’altro annuì prontamente. La scena iniziale, Cash che costruisce la bara per la madre ancora viva, batte col martello fuori dalla finestra della camera in cui agonizza, ci commuoveva.

Sul maxischermo scorrevano intanto le immagini concitate di un incontro di wrestling, un bestione tinto di biondo si gettava, dopo essersi issato sulle corde a bordo ring, su un altro bestione che rantolava al suolo. Se ci cascava ogni tanto lo sguardo era per ridacchiare di un intrattenimento tanto sciocco: ma come fa certa gente a divertirsi con queste pagliacciate?

Sulla musica di sottofondo, degli Eurythmics, di nuovo concordavamo: Annie Lennox è un vero portento! Fu così tutta la sera, se lei diceva di preferire Schopenhauer ad Heidegger io annuivo convinto, mentre se affermavo che il PSI ormai faceva rima con pizzette Catarì (l’avevo letto sul settimanale satirico Cuore) le si illuminavano i grandi occhi azzurri, e le nostre teste cominciavano a oscillare in sintonia come i cagnetti di pezza posati sul lunotto posteriore delle station wagon.

Allora dobbiamo rivederci, concludemmo a fine serata. E in effetti la rividi la domenica successiva al lido di Colico.

Camminava in riva al lago assieme a un carrozziere più vecchio di noi di una ventina di anni – sarà un altro parente pensai, uno zio, ecco –, il fisico scolpito da ore e ore e di palestra, e martellate alle lamiere contuse. Somigliava un poco al bestione biondo dell'incontro di wrestling. Il costume da bagno minuscolo rendeva epico il passaggio, gli sguardi della spiaggia erano tutti per lui. Solo il mio continuava a cercare quello di lei, chissà se mi avrà visto...

Fu mentre mi alzavo per andare a salutarla che vidi le loro mani congiungersi, e dirottai il movimento delle gambe verso il bar, dove ordinai un Cuba Libre, il nostro cocktail. Nostro, che bell’aggettivo. Il tarlo non si era ancora dissipato. Scorgevo infatti un’altra coincidenza, un carrozziere… tiene la mano proprio a un carrozziere.

Tre giorni prima un cretino, distratto dai bacetti che la fidanzata gli stava dando sul collo, mi aveva centrato nella fiancata dell'R4 rossa, e ora dovevo portarla in riparazione. Il guaio che la precedenza era sua. Potrei chiederle se mi presenta il carrozziere, magari mi fa uno sconticino.

sabato 21 dicembre 2024

Giudizi e pregiudizi


Però un po' ha ragione Morgan, quando in risposta a Jovanotti – sempre intelligente, ma sempre anche ecumenico: Tony Effe collega di Mozart è una bella battuta espressa durante l'intervista a Belve, ma anche un modo per svicolare dal giudizio – dice che l'arte va invece giudicata, e l'esclusione di Tony Effe dal concerto di Capodanno è sacrosanta. Il giudizio, continua Morgan, non va però esteso alla persona. Ed è davvero questo il punto.

Nell'invitare un artista in un contesto pubblico si sta (implicitamente) esprimendo un giudizio sulla sua opera, in cui a ogni scelta corrisponde un'esclusione. Invitando inizialmente Tony Effe al concerto di Capodanno, ecco la domanda giusta da farsi, l'amministrazione capitolina chi aveva deciso di escludere, qual era il giudizio contenuto in quella scelta?

Probabilmente la risposta sarebbe stata: "Io, Roberto Gualtieri, sindaco di Roma a nome del popolo romano, escludo tutti gli artisti che hanno meno successo di Tony Effe." Un giudizio quantitativo dunque, il giudizio di chi consegna al mercato la responsabilità personale. E dal momento che Sesso e samba è in testa a ogni classifica, Tony Effe ha pieno diritto di essere offerto quale eucarestia laica: prendete e mangiatene tutti.

Peccato che non sia un giudizio estetico, e piuttosto un pregiudizio. La sua natura superstiziosa può così essere riassunta: ciò che piace a tanti deve essere anche bello, se miliardi di mosche mangiano merda la merda non sarà tanto male... Assaggiamo.

I testi del trapper romano sono del tutto irrilevanti, potranno anche essere sessisti ma la sciagura culturale avviene a monte, e consiste nell'avere accolto il pregiudizio quantitativo come parametro di giudizio, lavandosi pilatescamente le mani. Salvo poi cambiare idea, ma non in virtù di uno sforzo interpretativo e di nuovo a seguito del mugugnare dei benpensanti, tanti, che all'improvviso reclamano l'incarcerazione di Barabba.

Se dovessimo dar credito a tale disposizione doppiamente pregiudiziale (in entrambe le scelte di Gualtieri il merito musicale non viene contemplato) dovremmo chiudere tutti gli spazi pubblici a Paolo Conte, che su Spotify si assesta su posizioni ben distanti dalla vetta. Quindi fare eseguire il concerto di Capodanno a Geolier, il cantante con più streaming in Italia. La terra dei...

(PS - Per cui beccatevi Paolo Conte, si può ascoltare cliccando qui, in una versione live di Diavolo rosso che dirige – sì, dirige, come si fa nelle orchestre sinfoniche – con il solo sguardo. Basta un suo colpo d'occhio sornione per passare il testimone da un musicista all'altro, ogni solo musicale comincia dall’abisso dei suoi occhi azzurri. Uno dei pochi casi per cui l'espressione capolavoro assoluto non suona come un'iperbole.)

giovedì 19 dicembre 2024

Jovanotti c'est moi

Ieri sera ho recuperato su RaiPlay l’intervista integrale a Jovanotti, con cui si chiudeva la fortunata stagione di Belve. Io e Jovanotti abbiamo la stessa età, e credo che molte delle cose dette – e le ha dette bene, tocca riconoscerlo – siano da mettere in relazione alla sua collocazione anagrafica: avere avuto quattordici anni nel 1980 e ventiquattro nel ’90.

Di mezzo ci sta la trasformazione da adolescente festoso, ridanciano, anche un tantino ignorante e smaccatamente superficiale, a giovane uomo curioso e aperto al mondo. Lui la giustifica in termini di marketing: se continuavo a strillare “sei come la mia moto, sei proprio come me”, il mio pubblico, che nel frattempo era cresciuto, non mi seguiva più.

Io non credo sia questo il punto, ma penso che abbia ragione nel collocare la metamorfosi in una sorta di fuori, non nella dimensione interiore che attribuisce agli altri e non a sé, in una disposizione estrema all’umiltà. Jovanotti, ora più che mai, si manifesta come sorta di ibrido tra un monaco zen e una canzone dei Velvet Underground: il vuoto è condizione al riempimento, e solo in seguito può duplicare l'immagine così composta  – “I’ll be your mirror, I reflect what you are…”

In altre parole, Jovanotti è l’emblema dell’artista popolare; non un intellettuale, non uno che negli anni è cresciuto insieme al suo pubblico, maturato e magari divenuto un cantautore, come si dice con un termine bislacco che dovrebbe fare da garanzia di qualità, alla maniera del marchio a fuoco sulle forme di parmigiano. Le differenze tra l’uomo barbuto attuale e il ragazzetto glabro, con i jeans dal cavallo basso e il cappellino da baseball sghembo, sono da attribuire al fiume in cui secondo Eraclito non è possibile bagnarsi due volte. Ma lui è rimasto ciò che era: uno specchio.

Sono piuttosto gli anni Ottanta a essere definitivamente tramontati, ed è una proprietà dei molluschi avvinghiarsi alle rocce; il disc-jockey partito dal Vaticano ha seguito le acque e li ha lasciati andare, nessuna nostalgia. Nella sua concavità priva di giudizio (ecco la sua più grande virtù, umana prima ancora che artistica) ha ospitato altre voci che andavano emergendo, forme, colori. Qualche accusa di qualunquismo ha continuato ad arrivargli, ma era mal posta: tiratele al mondo, se proprio, le orecchie, non a chi ne distilla gli umori in suoni e figure, rende fruibile lo Zeitgeist. Nel suo caso parlerei piuttosto di “chiunquismo”.

Il neologismo lo ricaviamo dall’intervista. “Se Lei potesse richiamare una persona dalla morte per qualche minuto”, chiede Fagnani, “chi sarebbe?” “Chiunque” risponde Jovanotti d’istinto, “per domandargli com’è di là.” Ecco, a Jovanotti, da curioso vero, interessa l’altra parte. Qualsiasi parte utile a ricomporre il Tutto, a cui di suo aggiunge pochissimo.

Non sorprende dunque il riserbo nel rispondere alla domanda su un suo presunto e remoto flirt con Valeria Marini. Quel che accade dentro la sua persona – già che anche lui possiede verosimilmente un dentro – non ci deve infatti riguardare; chiedete a mia moglie dice più volte, come se fosse lei la depositaria del vero Lorenzo Cherubini. Ma l’intervista era a Jovanotti, come a dire tu, tu, tu, e pure tu che stai storcendo il naso… E naturalmente, Jovanotti c’est moi aussi.

sabato 14 dicembre 2024

Mi ricordo 30

Mi ricordo che a comunicarlo fu una suora di nome Tecla: “È morto Aldo Moro.” I banchi dell’Angelo Custode erano diventati troppo piccoli per le nostre ginocchia, premevano da sotto verso un futuro percepito come verticale, e anche le sedie, minuscole, la lavagna tutt'al più una lavagnetta, perfino il soffitto sembrava essersi abbassato, l'aula era una superfetazione moderna di un palazzo del Seicento. Ma in fondo era normale, eravamo entrati la prima volta per prepararci a ricevere il corpo di Cristo a nove anni, mentre ora, in età da motorino con il carburatore sostituito per far fluire più miscela, ci attendeva un leggero schiaffetto, suor Tecla diceva che ci avrebbe immesso nel mondo degli adulti. È morto Aldo Moro, e calò il silenzio. Non fu però un silenzio tragico, al contrario: era nutrito da quella confidenza distratta che ostentano i religiosi con il Tutto – si nasce, si vive e si muore, poco importa se scivolando su una buccia di banana o crivellati dai colpi di una mitraglietta Skorpion –, a cui si aggiungeva una punta teatrale di civetteria, come se avesse voluto serbare la notizia per il termine della lezione, così da realizzare un climax. Ricordava i presentatori televisivi che, solo alla fine e dopo avere mostrato il tabellone a partire dall’ultimo classificato, rivelano la canzone vincitrice del Festival di Sanremo; nel caso dell'ultima edizione, la ventottesima, si era trattato di “… e dirsi ciao” dei Matia Bazar, ma io preferivo di gran lunga “Un’emozione da poco” di Anna Oxa. “Hanno ritrovato il corpo in una R4 rossa in via Caetani”, aggiunse la suora facendosi il segno della croce, una velocità inaudita nell'unire i quattro punti con la mano destra. Forse la performance va attribuita alle braccia di scarsa estensione – unico dettaglio a non stonare con quel microcosmo lillipuziano –, o forse, più semplicemente, per la quantità di volte in cui già aveva eseguito il gesto. “Fermiamoci ancora cinque minuti per rivolgere una preghiera all’Altissimo per quel pover uomo e la sua famiglia.” Fu un Padre nostro o un Eterno risposo o entrambi, dopo di che io e Marco uscimmo di corsa diretti al Centro Sportivo, dove avevamo l’allenamento di pallacanestro. In strada ci arrivavano frammenti di un'unica diffusa conversazione, le persone si aggregavano anche tra sconosciuti per chiedere dettagli, qualcuno aveva gli occhi lucidi e una gran voglia di toccarsi uno con l'altro; più che a un funerale si poteva pensare al rientro di una squadra che ha perduto la finale di coppa, i giocatori con maggiore esperienza consolano gli esordienti. Di fronte al Bar Piero incrociammo una donna con un cuscino compresso sotto a un camicione a disegni geometrici, si carezzava il ventre posticcio sussurrando il mio bambino, il mio passerottino, la chiamavano la Pazza. Altri ricordi di quel giorno, il 9 maggio 1978, non ne ho, nemmeno della cerimonia della confermazione che seguì a fine mese, ma è testimoniata da una fotografia dove indosso un completo di velluto marrone molto brutto, oltre che troppo caldo per la stagione. I maschi vennero posizionati su una breve gradinata in ordine di altezza (dunque io e Marco occupiamo il vertice, fanno capolino solo i nostri volti improntati a una solennità artificiosa; nessuno fa le corna al vicino, e solo un tipo con i capelli crespi e lo sguardo furbo sembra trattenere la ridarella), mentre le femmine si irradiano alla base in abiti chiari e lunghi; ma rispetto alla prima comunione, sono poche ad avere il velo come la Vergine Maria. Riconosco una ragazzina con i capelli rossi e le lentiggini, anni dopo sarebbe diventata la fidanzata di un mio amico, piaceva un poco anche a me ma non ho mai fatto nulla per farglielo capire, scegliere è un verbo che si impara a coniugare tardi. La vita procedeva piuttosto in un accadere casuale, a dottrina ci avevano insegnato a stare alla larga dal peccato, ma non che il termine greco che lo esprime, amartìa, significa un errore nel tiro al bersaglio. Era un tempo in cui si scagliavano le proprie frecce a caso, quindi se ne seguiva la direzione. No, nessuno schiaffo, nessuna mano clericale sudaticcia è rimasta impresa sulla mia guancia, la cresima passò senza colpo ferire. A immettermi nel mondo degli adulti bastò la frase di suor Tecla: è morto Aldo Moro.

venerdì 13 dicembre 2024

Caffo

Da quando è scoppiato l'affaire Caffo, il filosofo anarchico e antispecista che picchiava la fidanzata, non faccio che pensare a un mio compagno delle medie. Era affetto da sigmatismo, nel suo caso aveva problemi con la zeta. Si sforzava anche, partiva bene con le altre lettere, ma arrivato alla zeta capitolava sempre, non c'era verso di pronunciarla correttamente. Da carognette quali eravamo cercavamo di fargli dire parole che la includessero: "Scusa Gerardo", si chiamava così ma stranamente nessuno lo chiamava Gerry, "tu che sai tutto, puoi dirmi qual è il capoluogo della Calabria? Non vorrei che la prof di Geografia mi prendesse in castagna." Oppure, se si parlava di televisione, dirottavamo il discorso su un telefilm che vede quale protagonista un eroe mascherato. Si veste tutto di nero  mantellina compresa  e ha un servo muto di nome Bernardo, lo aiuta a difendere i peones nella California spagnola del XIX secolo. "Come si chiama già, ce l'ho sulla punta della lingua... Aiutami Gerardo!" Ma a un certo punto si accorse che ci stavamo burlando di lui, e ogni volta che gli rivolgevamo la parola, magari in quel caso non si trattava nemmeno di uno scherzo, comunque rispondeva piccato: "Caffo vuoi?"

lunedì 9 dicembre 2024

Eugenetica, o sulla psichiatria come specchio di una civiltà rincagnita

 


Uno psichiatra disse un giorno a uno psicoanalista: “Guardi, dia retta a me, quello lo lasci perdere”, come a dire per lui non c’è speranza, si concentri su pazienti ad alto margine di successo, pazienti premium. Il giorno era l’altro ieri e stavano parlando di me, quello ero io anche se in forma surrogata, ovviamente non ero lì.

Quando in seguito l'ho saputo mi è venuta in mente una parola: eugenetica! Sì, l’eugenetica, teoria bislacca per cui le persone sono simili a cani, vengono disposte su una scala graduata di cui il pedigree certifica lo sforzo selettivo degli allevatori, non stupisce che Hitler ne fosse entusiasta. Uomini e donne come bracchi di Weimar, altrimenti detti Weimaraner. È l'animale prediletto dai ricchi, corpo snello ma con muscoli possenti, pelo raso color cenere e occhi di un azzurro chiarissimo, da atollo tropicale; possedevano un Weimaraner Grace di Monaco e Franco Zeffirelli, si dice che lo portasse sul set di Gesù di Nazareth mentre le comparse gridavano libero Barabba!

Non molto diversa è la clinica psichiatrica nel presente, al posto di pedigree lo chiamano DSM-5, ma tutte le razze di storture psichiche vi sono comprese, se non è zuppa è pan bagnato. Anche la sofferenza, l'inciampo, la sventura hanno subito una torsione nominale, ora si chiamano vissuti disfunzionali, e ancora più grave quando i pazienti non sono resilienti. Ma di quali pazienti stiamo parlando?

Il mondo si sta divaricando tra pazienti da concorso cinofilo e meticci, bastardini insomma. I primi, con pedigree di alto grado, porgono la zampetta e dicono grazie mille, ringraziano per qualsiasi cosa. Ma grazie a Lei risponde il terapeuta nel ritirare il denaro e consegnare la fattura, salvo applicare uno sconticino e siamo contenti tutti, niente fattura. Ci vediamo giovedì alla stessa ora.

Inoltre, i pazienti Weimaraner hanno problemi insostenibili, usano proprio questa espressione: "Ho un problema insostenibile. Dottore, la prego, mi aiuti!" Del tipo, devo iscrivermi a un corso di scrittura creativa oppure dedicarmi al tantrismo come Sting... lasciare mia moglie e mettermi con la segretaria o prendere un segretario (molto) particolare e fare outing... Scoprire la propria vocazione è la catena di chi non ha più catene al collo.

In alternativa, sono gravati da patimenti light, come il figlio somaro che si fa le canne e viene bocciato al Berchet, dove a suo tempo erano stati non meno somari. Ma dopo 160 sedute, due anni e mezzo, 12.800 euro, hanno finalmente un'agnizione: lo zio, era lo zio, non il papà, quel signore con i baffi a letto con la mamma mentre si baloccavano nel girello, e gli passa tutto. Queste sono le persone da prendere in terapia, gonfiano, al contempo, il portafogli e l'autostima.

Quanto alla seconda tipologia, i meticci, i bastardini, ricordano la musica lagnosa emessa nei terminal degli aeroporti; basta pensare ad altro mentre parlano e parlano e parlano, e poi versargli qualche goccina di Citalopram nelle crocchette. Continueranno ad avere una vita querimoniosa, ma con il lifting di un bel sorriso chimico sulle labbra.

Infine ci stanno i malati veri, e cioè quelli che ospitano il male nella carne, c'hanno la rogna oppure sono poveri, che per un professionista della cura è la rogna più rognosa; meglio dunque lasciarli perdere, lasciarli perdersi. E se proprio non vogliono scendere dall'auto per dirigersi verso l'autostrada, gli si lanci una pallina da tennis, dai, corri a prenderla, e mentre si avviano scodinzolanti ingrani la marcia e via, sgommando verso un Ferragosto senza rotture di coglioni.

Dia retta a me caro collega, il tono paternalistico dello psichiatra fa pensare a chi impugna il guinzaglio, anche se il volto camuso lo iscrive nel morfotipo dei molossoidi, una via di mezzo tra un Boxer e un Carlino, dia retta a me lo lasci perdere, dalle rape rosse non si cava sangue. Eppure quando mi è stato riportato lo scambio ho sussurrato tombola! Perché prima gli psichiatri mi stavano sul cazzo senza una ragione apparente; potevano essere le troppe consonanti occlusive, fricative, vibranti alveolari. Mentre, adesso, una ragione ce l'ho.

Mi ricordo 29

 


Mi ricordo che quando ne trovavo uno gridavo chicchirichì. Era la parola in codice convenuta, segnalava che, camminando a carponi sul manto soffice del fienile, mi ero imbattuto in un avvallamento, una conca più profonda di quelle dove i gatti andavano a dormire la notte, e se le cose erano andate per il verso giusto all’interno ci stava un uovo; più la merda sulla superficie era viscida e maleodorante, più era fresco. Ridiscendevo allora i pioli della scaletta e lo mostravo alla nonna che mi aspettava di sotto con le mani sui fianchi. Solo alla consegna mi diceva brau redes e, dopo averlo ripulito nel grembiule da lavoro, lo riponeva in una cesta di vimini con dei fogli di giornale sul fondo. Gli altri contadini le uova andavano a prenderle nel pollaio, tutto molto più semplice e spiccio, ma la nonna sosteneva che le galline devono essere lasciate libere di razzolare nell’aia; così la frittata diventa più buona, e anche il brodo. All’inizio ci ho messo un po’ a comprendere il nesso tra brodo e gallina, fino al giorno in cui ho visto correre una bella pollastra fulva di nome Sonia – avevo questa abitudine biblica di dare i nomi a cose e animali, il maiale l’avevo chiamato Omar e una coniglietta bianca Raffaellacarrà, scritto tutto attaccato. Sonia correva sbattendo le ali senza una direzione precisa, forse perché le mancava la testa. Intanto, il sangue schizzava da un foro tra le scapole come l’acqua dagli idranti rotti nei film con Stanlio e Ollio, mentre la nonna la guardava con l'arma del delitto ancora in pugno (una roncola dal manico in legno di sapelli e lo stemma della Svizzera impresso sulla lama ricurva) pensando prima o poi il sangue finirà… Era semplicemente abituata, non cattiva. Io invece no, e mi era venuto da vomitare, poi da piangere, insomma ero stato male. Invece quando trovavo un uovo stavo bene, era una specie di caccia al tesoro. La difficoltà proporzionale al piacere. Quelle delle galline americane valevano dunque meno, e, benché di dimensioni più contenute, il biancore del guscio spicca e sono più facili da individuare, mentre nel caso delle New Hampshire si tinge di marroncino tendente al rosa, mimetizzandosi nel fieno. Dicono che le galline non sono intelligenti, ma forse non sono nemmeno sceme: avevano capito che più il luogo è impervio maggiori sono le probabilità che l’uovo si trasformi in pulcino, impossibile per la volpe e la faina scovarlo fin lassù. Ma non per me che ero la miniatura di un primate superiore, il pollice opponibile e le gambe snelle mi consentivano di raggiungere quasi ogni luogo, tranne il comignolo riservato al corvo. Il nonno invece era zoppo e non si arrampicava mai sul fienile, andava nella stalla a mungere Gigliola e Carmela; Wanda era un po’ che non si vedeva in giro, e iniziai a sospettare che, anche in questo caso, ci fosse un nesso con il bollito misto, non si mangiava altro da una settimana. Ci sarebbero tante altre cose da raccontare, ma in quell’uovo tiepido da porgere orgoglioso già tutto in fondo è compreso.

domenica 8 dicembre 2024

Mi ricordo 28

 


Mi ricordo quella parola: solo. Così mi sentivo a sedici anni, il traghetto mi aveva accompagnato con un lieve ondeggiare fino al molo di Portoferraio, poi sussurrato arrangiati. Malgrado fossi a piedi non ero sbarcato dalla scaletta, ma dal portellone insieme ad automobili, motociclette, camper, roulotte, furgoncini con le mozzarelle, in una baldoria chiassosa che mi faceva sentire meno solo.

Solo. Suona facile e liscio non meno dell'equivalente anglosassone. Forse per questo, dopo mamma, pizza e vaffanculo, è uno dei primi termini a essere imparati dagli stranieri. In seguito ripetono le parole apprese ogni volta che incontrano un italiano, cercando di mostrare amichevolezza o, meglio, quella complicità un po' ebbra da tavolata dell'Oktoberfest, anche quando si tratta dell'insulto. Un concetto apparentemente preciso – o sei con qualcuno o non lo sei – ma a ben vedere sfuggente, pieno di sfumature e slittamenti. Nel mio caso il significato era letterale: senza famiglia, amici, neppure conoscenti. Solo, alone, do you understand?

Pochi mesi prima avevo abbandonato la scuola, era stato un inverno burrascoso culminato con la fuga da casa. Soliti turbamenti da adolescenza in provincia e, in fondo, faceva premio con le ragazze atteggiarmi a James Dean; alla domanda dove abiti rispondevo dopo aver ravvivato il ciuffo: "Everywhere."

E in effetti così era stato, almeno per un paio di settimane in cui avevo mendicato asilo nelle soffitte di ragazzi a malapena conosciuti, a loro volta gratificati dall'ebbrezza malavitosa di ospitare un fuggitivo. Poi ero tornato a casa con la coda tra le gambe, e una ferita che non rimarginava sul palmo della mano sinistra. Me l'ero fatta cercando di aprire una Ceres alla maniera dei pirati.

Alla fine tutto si era sistemato. Quasi tutto. Grazie a un lontano parente che lì possedeva un campeggio, ero riuscito a trovare lavoro come aiuto bagnino a Lacona, dove si tramanda che Napoleone amasse fermarsi per un pisolino, stendendosi all'ombra di un enorme pino marittimo al limitare della spiaggia. Ancora adesso lo si può ammirare, è dietro i bagni dell’albergo Lacona, il luogo in cui lavoravo io. Svetta tra le Mercedes e le Toyota nel parcheggio, ma tace i sogni del piccolo corso rimasti impigliati ai suoi aghi.

Ero arrivato ai primi di giugno, e una sera dello stesso mese decisi di avventurarmi a Marina di Campo in autostop; avevo sentito di una discoteca da quelle parti, il suo nome era Tamarea. Trovare un passaggio per Marina di Campo non fu difficile, ma la discoteca non stava proprio lì, e piuttosto sul promontorio roccioso di Capo di Fonza, tra fichi d'india e rosmarino selvatico. A piedi dal paese, un'ora circa.

Mi avviai con l'intento di riprendere a fare autostop, ma il traffico nella stradina che avevo imboccato era ridotto ai minimi termini. Dopo un quarto d'ora in cui camminavo al buio, quelle quattro lettere che si ripresentavano a ogni passo, solo, solo, solo, si udì finalmente il rumore di un’auto. No, era una moto, me lo confermava l'unica luce proiettata dal fanale anteriore. Luce, un'altra bella parola da insegnare a uno straniero.

Allungai il braccio e quindi il pollice, replicando l'ago di una bussola che punta sempre al nord della folla, il polo magnetico del branco, dove cercare i miei coetanei che certamente stavano già ballando al Tamarea, dimenando i Roy Roger's che avevano preso il posto dei jeans Carrera. I nostri padri ancora non si erano fatti una ragione che bisognava spendere il doppio per avere lo stesso, e continuavano a indossare abiti che avevano una marca (Lebole, Facis, Marzotto, nomi che solo a pronunciarli ci facevano ridere) e non un marchio. Come se bastasse battezzare un vitello e non imprimergli il destino con il ferro rovente.

Distinguere un giovane da un vecchio, anche di spalle, era dunque semplice: bastava leggere l'etichetta sui pantaloni. Per il resto, la serena fiducia che il peggio fosse passato e il meglio sul punto di dischiudersi, fiorire in una nuova primavera, era la stessa, le generazioni si rinsaldavano attraverso una cornucopia che eruttava Girelle Motta, villette geometrili e nuovi canali sul televisore al centro del soggiorno; la mamma ne aveva uno più piccolo in cucina, da cui fuoriusciva musica sempre più leggera e venditori di materassi a molle.

Tutte considerazioni postume in quel momento, in cui l'unica urgenza era sbarazzarmi del termine che mi assillava, insegnarlo a un olandese, passarlo a un crucco come si faceva ogni volta che si incrociava una suora: solo, tuo!

Intanto il rombo del motore si avvicinava. Di più, mi aveva superato. Si trattava di un uomo. A guardare meglio compresi che era un ragazzo come me, i suoi indumenti erano pieni di etichette alla moda, non poteva essere un adulto. Che gran bastardo! Nemmeno mi aveva degnato di uno sguardo, era sfrecciato davanti al mio pollice sulla sua moto da cross. È allora che sfoderai la terza delle parole italiane che imparano gli stranieri appena mettono piede in Italia, la cacciai dalla gola dopo aver richiamato dai polmoni tutto il fiato che avevo. Mi piacerebbe restituirgli un’eco, ma fu solo uno schiocco isolato nella notte, come una scoreggia sfuggita nella sala d’attesa di un proctologo.

Si accese a quel punto la lucina rossa del freno, la moto si fermò, invertì la direzione di marcia e in un attimo fu davanti a me, con il faro che mi sparava dritto negli occhi. "Sei tu che mi hai gridato vaffanculo?"

"Vedi molte altre persone in giro?"

L'incipit del dialogo è da film di Sergio Leone, ma soprattutto il silenzio che seguì. Io sono alto un metro e ottantatre, allora ero robusto, sportivo, a braccio di ferro il secondo più forte del bar paninoteca Number One; venivo dopo uno che giocava nella nazionale juniores di rugby, un Marcantonio che metteva paura solo a vederlo. Pensieri che mi ronzavano in testa, se fosse un fumetto starebbero nella nuvoletta. Stavo cercando di caricarmi.

E però, accidenti, anche lui non sembrava messo male… Sotto la t-shirt a bande orizzontali bianche e blu, da marinaio, ma con l'aquilotto di Armani ben in vista, si intuivano spalle forti e braccia che già immaginavo intente alla lotta. Un bookmaker inglese ci avrebbe dato cinquanta e cinquanta. Una stima a cui doveva essere arrivato anche il mio avversario, che dopo avermi fissato a lungo – io ovviamente non avevo abbassato lo sguardo – mi dice: "Che facciamo?"

Mi guardai in giro. A destra c'era un fosso a cui seguiva un canneto. A sinistra un prato arso, con un olivo solitario al centro. Sopra, stelle a profusione e una luna quasi piena, a rischiarare il tutto. Con in sottofondo la risacca del mare e, più lontano e attutito, il tum tum delle basi elettroniche, mescolate al vociare che proveniva dal Tamarea.

Non male come ambientazione per una pubblicità del cornetto Algida. Mancavano solo le ragazzine con gli zainetti Naj Oleari, di fronte a cui far bella figura, tenere la parte, mostrarsi il maschio alfa. Ma senza nessuno a guardare mentre ci prendevamo a pugni, anche se avessi vinto cosa potevo guadagnarci? E poi è quasi sicuro che avrei rovinato il mio giubbino Stone Island, mi era costato una settimana di lavoro, dieci ore al giorno di pedalò da trascinare sulla risacca per fünftausend lire, fünftausend eine stunde. Il mio tedesco si fermava lì, l'equivalente di mamma pizza vaffanculo.

"Non so..." dico allora con un tono più conciliante. E lui: "Vabbè, dai, salta su! Ti porto al Tamarea."

Ciò che seguì è pura archeologia dagli anni Ottanta: raffiche di Gin Fizz, luci stroboscopiche, capelli con la sfumatura alta e la Gommina e, finalmente, a tutto volume, le note di Enola Gay e Fade to Grey e Bette Davis Eyes; con Ebony and Ivory di Paul McCartney e Stevie Wonder partiva lo strusciarsi dei corpi abbronzati nei lenti, ma a metà canzone la musica accelerava lasciando un po' così... E adesso che si fa?

Nella cornice di quella Polaroid dai colori già un poco stinti, a restituire, per paradosso, una sensazione ancora più realistica e quasi commossa, da lapide funeraria, io e il mio nuovo amico (amico, friend, prietene, amigo, quale meravigliosa parola, comunque tu la traduca!), io e il mio ex nemico che ridiamo e diciamo sciocchezze a ragazze sfiorate a bordo pista; a volte ricambiavano, più spesso no. Curiosamente, chi accoglieva l'abboccamento non capiva la nostra lingua, solo il movimento delle labbra. Somigliava al bacio di un pesce rosso nell'acquario dei ricordi.

Se dovessi spiegare a una di quelle ragazze ormai divenute donne, qualcuna già anche nonna, il termine italiano giovinezza, gli racconterei allora questa storia. In una delle infinite lingue del mondo, o probabilmente nell’unica che io davvero conosca. La nostalgia.

venerdì 6 dicembre 2024

Ricchi e poveri

In uno degli ultimi incontri avvenuti tra Gaber e Jannacci, è quest’ultimo ad avere raccontato l’aneddoto, Gaber disse al figlio di Jannacci: “Guarda che tuo padre quando era giovane era pazzo.” “Io guardai mio figlio Paolo” continua Jannacci”, “e dissi a Giorgio: Io non ero pazzo, ero povero.”

Da alcuni giorni ripenso spesso all'episodio. Si adatta, quale metafora, a molte situazioni. Ad esempio le sorti politiche del mondo, sempre più sbilanciate a destra. Sono i poveri, non i ricchi, a votare per i partiti di destra, che perseguono progetti a loro evidente svantaggio. I poveri sono pazzi, verrebbe da concludere. No, i poveri sono poveri.

È presente una componente vitale di pensiero magico nella povertà contemporanea: i poveri sono ricchi potenziali, il loro diritto di voto viene esercitato per identificazione proiettiva, come avveniva nell’adesione simbolica a imperatori, papi e faraoni. Ma anche i ricchi ci appaiono pazzi, infatti – andiamo sempre un po’ a spanne – è proprio nelle zone a più alto reddito che prevale il consenso per i partiti di sinistra. I ricchi votano come se fossero poveri e i poveri come se fossero ricchi.

Se ne ricava che è il mondo a essere diventato pazzo, e ricchi e poveri agiscono in piena coerenza con tale diffusa forma di pazzia – ma se è diffusa, ha ragione Jannacci, non è più pazzia, manca l’elemento di infrazione alla norma che caratterizza la vera pazzia.

Più che una mancanza di logica in senso stretto, a caratterizzare i nuovi tempi è l’implosione del principio di realtà, già che da un punto di vista ana-logico i conti potrebbero anche tornare: i ricchi ottengono in tal modo ciò che il denaro non può acquistare, ossia la percezione di essere nella virtù, e i poveri, come abbiamo visto, abitano un fantasma di ricchezza postdatata, secondo il refrain di Gianni Morandi uno su mille ce la fa. E perché non potrei essere io, si dicono, quell’uno su mille?

Eppure, io continuo rimpiangere un mondo dove i poveri pensano da poveri, votano da poveri, per diventare magari un poco più ricchi – benessere è il termine giusto, un concetto diverso dal desiderare di diventare dei Paperon de' Paperoni. Mentre i ricchi fanno banalmente i ricchi, non impartiscono lezioni di morale ai poveri; se proprio si sentono inclini al bene condividono il loro privilegio, come fece Engels con Marx. Ofelè fa el to mestè, recita un antico proverbio milanese. E cioè ragazzo di pasticceria occupati di torte e pasticcini, non allargarti. Ma più in generale: che ognuno faccia la sua parte.

Da questo punto di vista, preferisco di gran lunga Briatore, un ricco che fa il ricco, a Oscar Farinetti e ai suoi proclami egualitari, smentiti dalle eccellenze enogastronomiche in vendita da Eataly, a un prezzo più che triplo rispetto alla merce sugli scaffali del Lidl; ciò è naturalmente più che legittimo in un regime di libero mercato, ma si imprime quale segno di incoerenza ripulsiva.

Per concludere nella semplificazione infantile che caratterizza l'intera riflessione, la primaria occupazione di un ricco (oltre a guadagnare sempre più denaro) dovrebbe essere quella di prestare attenzione al proprio collo, sapendo che un povero potrebbe decidere un giorno di posarlo sotto alla lama sghemba di una ghigliottina.

martedì 3 dicembre 2024

Mi ricordo 27

 


Mi ricordo bene del Sanatorio Popolare Umberto I. Oltre al più celebre e imponente sanatorio di Sondalo, in Valtellina erano presenti tre altri centri di cura per la tubercolosi; il primo in ordine cronologico fu l'Umberto I, anche per quanto riguarda l'intero suolo nazionale. Inaugurato nel 1908 ma iniziato a costruire nel 1902, l'anno in cui Sir Arthur Conan Doyle venne nominato Baronetto, si trova a Prasomaso, una località sopra Tresivio che risponde a tutti i requisiti: buona insolazione durante l’intero ciclo delle stagioni, diffusa presenza di conifere a ossigenare l’aria da respirare sui terrazzoni (il corpo inerme con un plaid posato sulle ginocchia), accessibilità stradale e altitudine intermedia. Alla sua definitiva chiusura settant’anni dopo – ormai la penicillina aveva quasi completamente debellato la TBC –, non venne riconvertito, abbattuto, ristrutturato. Rimase semplicemente lì, a sufficiente distanza dallo sguardo per non doversi ricordare di un tempo in cui, a ogni colpetto di tosse, si guardava dentro al fazzoletto per vedere se erano presenti tracce di sangue.

I massici edifici in pietra e mattoni sono disposti in sequenza lineare, senza soluzione di continuità, lo stile liberty discreto anticipa le evoluzioni moderniste. Il tutto è oggi decrepito, vetri rotti, mobilia scassata, serramenti divelti e assi precipitate dai soffitti. Sulle pareti interne si possono leggere scritte inneggianti a Mussolini, o a una porzione circoscritta e in genere celata del corpo femminile. Abbassando di prospettiva, qualche siringa di plastica sulla maiolica scrostata dei pavimenti (dunque non appartengono al periodo né alle prassi terapeutiche) e giornaletti porno in pagine sparse; c’è anche una cacca, il cui aspetto sembra recente e di origine umana. Recente, almeno, nel tempo della narrazione, collocato una trentina di anni fa, quando attraverso un foro nella recinzione venni a visitare il Sanatorio Popolare Umberto I. Ciò che più mi colpì fu la presenza delle cartelle sanitarie dei pazienti. Dimenticate dai medici nella smania di voltare le pagine della storia, finendo così per somigliare alla fuga delle truppe americane di stanza a Saigon, in quel casino erano rimaste stranamente ordinate negli schedari. Ne estrassi una a caso e cominciai a leggere:

Dati anagrafici: Luisa X, nata a Lanzada il 7/02/1913

Data di ammissione: 15 marzo1932

Diagnosi: Tubercolosi polmonare.

Sintomi principali:

• Tosse persistente con espettorato sanguinolento

• Febbre alta e sudorazioni notturne

• Perdita di peso significativa

• Affaticamento e debolezza generale

Esame fisico:

• Crepitii polmonari bilaterali

• Diminuzione dei suoni respiratori nei lobi superiori

• Pallore e cianosi delle labbra

Esami di laboratorio:

• Test della tubercolina: positivo

• Radiografia del torace: infiltrati nei lobi superiori

• Analisi dell’espettorato: presenza di bacilli di Koch

Trattamento:

• Riposo assoluto in sanatorio

• Dieta ipercalorica e ricca di proteine

• Somministrazione di ioduro di potassio e calcio

• Terapia del pneumotorace artificiale

Note aggiuntive:

• La paziente mostra segni di...

Niente, a questo punto smisi di leggere e riposi la cartella clinica nello schedario, come se potesse ancora essere utile a qualcuno. Ma rimaneva una sensazione fisica strana, localizzata soprattutto nella pancia. Nel fare il tragitto in senso inverso – attenzione a non pestare la merda e le siringhe, i vetri rotti erano ovunque e le suole delle scarpe restituivano un suono sinistro a ogni passo, foro nella recinzione da traversare incurvando la schiena – mi è tornata alla mente la sequenza finale di un film uscito in quei giorni. Alla morte della madre, interpretata con commossa misura da Meryl Streep, i due figli ritrovano una scatola con il diario della donna, e una lettera a loro destinata. Apprendono così che ha avuto una relazione con un uomo diverso dal legittimo marito, si tratta di un fotografo giunto nella contea di Madison per fotografare i tipici ponti coperti del luogo. Da qui il titolo della pellicola di Clint Eastwood: I ponti di Madison County. I figli, all'inizio imbarazzati, in particolare il maschio, comprendono infine che legge e amore hanno natura diversa. Rimettono allora la lettera nella scatola, dopo aver scoperto un tratto sconosciuto della madre che ne accresce l'unicità. E ciò che è singolare diventa tanto più prezioso.

Il bene è forse fatto allo stesso modo, soffia senza apparente ragione come il male, la sventura, la malattia. Spariglia, più che uniformare i cuori alla maniera delle pubblicità natalizie. Ma si può volere bene anche a una persona mai vista, Luisa ad esempio? Di certo possiamo immaginare il suo pallore e le labbra cianotiche – le parole sono al servizio delle immagini –, i crepitii polmonari bilaterali simili alla cadenza dei miei passi nello sfacelo, le lenzuola zuppe di sudore durante notti in cui il giorno sembra non arrivare mai; speriamo almeno che la dieta ipercalorica e lo iodouro di potassio abbiano sortito qualche effetto…

Sì concludo, si può voler bene anche a una diciannovenne nata nel 1913, quando qualche elemento irrompa a distinguerla da tutte le altre diciannovenni. Come aveva intuito Tolstoj, le famiglie felici sono tutte uguali, mentre diverse sono quelle infelici. Se ne ricava che il dolore è un formidabile differenziatore, e non è solo il naso a rendere unica Cleopatra, ma anche il morso dell'aspide. Forse per questo, senza conoscere il naso di Luisa, la lettura della sua sofferenza fisica ha creato in me una familiarità da famiglia infelice, la scatola da cui ne è emerso il fantasma rende tangibile e dolente la rappresentazione. Mentre i documentari diretti da Leni Riefenstahl nello stesso periodo, con quei pezzi di fica ariana che scoppiano di salute, fanno esercizi ginnici nella spensierata incoscienza della gioventù, mi lasciano indifferente. Sono l'infinito calco delle famiglie felici. Eppure ho avvertito il desiderio di richiudere subito la scatola, seguendo l'impulso al presente dei figli di Meryl Steep. E lasciar riposare i morti.

lunedì 2 dicembre 2024

I passi di Claudia

Non conoscevo personalmente Claudia Tarolo, anche se, una quindicina di anni fa, ci scambiammo alcuni messaggi privati che avevano quale oggetto la città in cui abbiamo vissuto entrambi, e dove io sono rimasto incastrato. Lei abitava con la famiglia di origine sulla salita di via Alpini, porta a Montagna in Valtellina ma è ancora in comune di Sondrio, negli anni Venti veniva percorsa tutti i giorni da mia nonna diretta al mercato, dove sperava di vendere il latte appena munto dal padre. Oltre mezzo secolo dopo, all'inizio degli anni Ottanta, Claudia arrancava sullo stesso ripido tratto di strada in senso inverso, un passo dopo l'altro calzando scarpe che immagino da pallacanestro; con il borsone in spalla, nel tornare dal Liceo Scientifico Carlo Donegani, si doveva sbuffare non meno che con la brenta di alluminio. Se non altro le cuffiette del walkman potevano restituirti un brano dei Police, Message in a bottle ad esempio, sono molti i mari che la bottiglia deve attraversare prima approdare nelle mani giuste, come le pagine di un libro. Le ragazze che scendevano a vendere il latte alleviavano la fatica cantando, ma sono certo che mia nonna non si univa al coro, neppure in chiesa intonava le canzoni della liturgia. Questa sovrapposizione di passi mi rende ancora più concreta e dolorosa la scomparsa della brava editor di Marcos y Marcos, a un'età che non mi è nota e dunque associo a quei rientri da scuola. La casa editrice, in qualche modo, andrà avanti anche senza il suo prezioso contributo. Ma i passi di mia nonna e Claudia saranno definitivamente sostituiti da altri passi, in un ricambio naturale di suole di cui continuo a non farmene ragione.

Bilancio di fine d'anno

Scocca gelido, almeno qui al confine con la Svizzera, dicembre, tempo di bilanci annuali. Ciò vale anche per la presenza sui social, una parte residuale – ma in fondo nemmeno troppo residuale – della mia vita.

Per una curiosa coincidenza, questo mese ho pubblicato il post con cui ho ottenuto il maggior numero di consensi dell’intero anno (122 tra like, cuoricini ed emoticon vari) e quello con il numero minore (10; comunque dieci persone che si sono prese qualche minuto da dedicarmi, cosa non così scontata e per cui li ringrazio).

Ciò che mi fa riflettere è la diversa natura dei due post. Nel vincitore, chiamiamolo così, è presente una sorta di nemico, anzi due nemici: Chiara Ferragni e Giovanni Tronchetti Provera, neo fidanzati su cui faccio un po’ di ironia, scivolando a tratti nel sarcasmo. La cornice sociologica, il riferimento a Kafka e Pasolini, il tono burlesco in cui inquadro il tutto non bastano a cancellare questa punta di livore. Diciamo che non sono particolarmente orgoglioso di quel testo.

Nell’altro post l'atteggiamento è ribaltato: non l'antipatia verso due vincenti, ma la simpatia verso un perdente assoluto, di cui assumo indirettamente la prospettiva; con le debite sproporzioni, è quanto fa Nick Carraway con Jay Gastby. A differenza del capolavoro di Fitzgerald, non si tratta però della perdita dell’amata, ma è la radicale sconfitta nel perdere la dignità. Ciò avviene attraverso il più sciagurato evento simbolico: cagarsi addosso in pubblico. È quanto capita a Giovanni, un mio compagno di classe in seconda elementare.

Ma proviamo a individuare altre differenze, la lunghezza è più o meno simile e ridotta, non si tratta dunque di quello ad aver sperequato il consenso. Giovanni è piccolo, inerme, taciturno e con gli occhiali da vista; tutti ridono di lui, compreso il me di allora. Ferragni e Tronchetti Provera non sono invece piccoli e piuttosto giovani, più giovani della maggior parte delle persone che hanno lasciato un like, oltre che più belli, ricchi, famosi. Gettargli addosso un po’ della merda di Giovanni potrebbe essere un gesto di compensazione, alla maniera della pernacchia di Eduardo in ‘L'Oro di Napoli’. E sono pure più paraculetti, per usare il nuovo aggettivo salito alle cronache; ma così riacciuffo il registro del rancore da cui sto provando a staccarmi.

Stiamo allora ai numeri. Lo scherno è più remunerativo della compassione nella misura del 1200%, almeno sui social; ricordiamoci sempre del contesto di lettura. Un dato che dovrebbe portare a meditare, o perlomeno io ci sto provando. E la prima domanda che mi faccio è: per chi scrivo quando scrivo? Non una pagina di diario, intendo, ma un testo destinato a un pubblico, a dei lettori. Se la destinazione agisse retrospettivamente, come in fondo è normale nella maggior parte delle attività – il panettiere che non vende prova a mutare i tempi di cottura, il lievito, le farine; o quale estrema disperata mossa, assume una commessa più procace –, dovrei guardare al post vincente come modello, e cercare di ripetermi per accrescere le manifestazioni di gradimento, da cui l'algoritmo di Facebook pesca per determinare la diffusione dei contenuti. È il cosiddetto effetto valanga, a trasformare le persone in influencer. Ora che ho capito il meccanismo mi si spalancano i cancelli della notorietà…

Però non è ciò che ho fatto, e potrei allora concludere dicendo che scrivo per me. Ma non è nemmeno questo, già che il passo conseguente – non compiuto – avrebbe dovuto essere cancellarmi l'istante dopo dai social. In via provvisoria mi sembra così di poter collocare la mia risposta in un punto intermedio; non so bene dove indentificarlo, ma mi è chiara almeno una cosa: mi piace quando gli altri mi dicono bravo, sono rallegrato nel ricevere il loro plauso, tanti like tanto amore. Ma il godimento da consenso non può mai dissociarsi dall’identificazione che ho con il testo, e deve riflettere una parte significativa di me, un mio modo di essere e sentire.

Il sarcasmo con cui ho scritto di Chiara Ferragni e Tronchetti Provera mi riflette pochissimo, mentre c’è molto di me nello sguardo affettuoso verso Giovanni e la sua sconfitta. Quindi sono molto più orgoglioso di quei 10 like che degli altri 122. Di cui comunque, anche in questo caso, ringrazio. Non si sputa nel piatto dove si mangia pappa di sogno.

(Per chi non li avesse letti e volesse farlo ora, copio di seguito i due testi.)

Post perdente:

Mi ricordo del busto esile e ritto di Giovanni, spunta appena dallo schienale della sedia, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano il loro posto e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni o della gonna e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto che ricorda i giudizi scolastici, un voto in pagella tra gli altri. Promosso! La maestra Maccarone, alito di caffè, ha sempre avuto uno spiccato senso del teatro, eredità forse della sua regione di provenienza.

Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il proscenio, e da ciò intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi nell'aula, sempre più intenso e penetrante. Farsi la cacca addosso è una brutta grana, anche se frequenti la seconda elementare.

Dall’altro versante della rappresentazione, la gioia feroce nell'essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli, le braccia alzate del pugile proclamato vincitore. Rido insieme agli altri, puzzone, puzzone smerdolone diciamo rivolti al colpevole, finalmente smascherato. La legge del branco non è meno implacabile per i cuccioli. Intanto, gli occhietti azzurri di Giovanni cominciano a inumidirsi, la massiccia montatura in celluloide degli occhiali è l’unico argine a sua difesa. E così continua a rimanere immobile, più simile alla fotografia che non al teatro o al cinematografo, in effetti. È un totem.

Una lava marroncina intacca la fissità dello scatto, la vediamo tutti e le risate si fanno ancora più forti, cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia, si diffonde sulle piastrelle sintetiche del pavimento. E insieme a quella cominciano a sgorgare dalle palpebre i primi goccioloni.

Ora il totem si è trasformato in vulcano, ma senza sonoro. Questo è Giovanni. Il suo talento è il disegno, è l'unico della classe che sa già disegnare un cavallo, all'intervallo mangia il panino col salame preparato dalla mamma, parla poco, sorride molto. Un vulcano da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.

Post vincente:

La neo coppia composta da Chiara Ferragni e Giovanni Tronchetti Provera rappresenta una sintesi mirabile di ciò che Pasolini chiamava mutazione antropologica. Il problema non sono dunque loro, ma il fatto che simili facce da cui trasuda il fatturato (vero o presunto) le si incontrino ovunque, basta farsi un giro in un centro commerciale il sabato pomeriggio: quei nasini, quei sorrisini, quegli occhiettini azzurrini e vacui sono diventati la norma, non più l'eccezione. E anche quell'indicibile desiderio di prenderli a calci in culo. È però una tentazione a cui bisogna resistere, non solo per le conseguenze a cui andremmo incontro – lasciamo provvisoriamente tra parentesi la morale, anche avere una faccia del genere è infatti immorale –, ma perché non possiamo escludere di svegliarci una mattina e vedere le medesime insulse fattezze riflesse nello specchio del bagno. Se Kafka riscrivesse oggi il suo racconto, non in scarafaggio, ma in Tronchetti Provera Junior trasformerebbe Gregor Samsa.