lunedì 8 dicembre 2025

La famiglia è un pullman (mi ricordo 69)

Mi ricordo che due o tre compagni avevano inghiottito una pasticca rosa, quindi eravamo partiti alla volta di Venezia. Una meta poco originale per la gita scolastica al termine delle medie, qualcuno aveva proposto Mantova, a Verona eravamo già stati l'anno prima. Appena saliti sul pullman ci si suddivideva in comparti umani facilmente riconoscibili; a posteriori, mi sembra di poter affermare che si trattasse di una vera e propria antropologia. Come nel sistema proto castale ariano era composta da tre gruppi, anzi tre e mezzo: parte anteriore, centrale e coda, con lievi slittamenti intermedi.

Alla testa del veicolo, subito dopo il conducente, si sistemavano i secchioni, le secchione ma anche ragazze dalla pagella ordinaria, che stavano lì solo perché innamorate del supplente di lettere, da loro incalzato con domande su Bube e la sua paziente noiosa ragazza. Pensavano, forse, a questo modo, di essere più desiderabili ai suoi occhi azzurri e miopi. Lui rispondeva a tutte le domande come se fossero realmente domande, orgoglioso per l’interesse suscitato dalla propria materia.

Al centro trovavano posto studenti accoppiati per genere: maschio\maschio, femmina\femmina. Non si trattava di amici in senso stretto, a unirli era l’interesse per lo sport – calcio e Formula 1, in particolare, per i maschi –, mentre le femmine erano taciturne e guardavano tutto il tempo fuori dal finestrino, in direzione della pianura trapuntata dai capannoni industriali. E poi i lampioni arancioni che si accendono al crepuscolo, le prostitute anziane accanto a copertoni fumanti, i distributori di gpl con un cane nero alla catena.

Nei sedili penultimi, grappoli di ragazze cantavano le canzoni di Lucio Battisti e della recente edizione del Festival di Sanremo, in una promiscuità non cercata – erano semplicemente i posti rimasti – con coetanei ridanciani. Ridevano, ridevano per qualsiasi cosa, anche il bugiardino di un farmaco contro il mal d’auto (la pasticca rosa) li faceva ridere, specie quando non produceva l’effetto desiderato e Lamberti ha cominciato a vomitare.

L’ultima fila, a divanetto, era riservata ai bulli. Quattordicenni che già fumavano Marlboro e ingollavano avide sorsate di Peroni Nastro Azzurro, attenti solo all'attenzione degli altri, da dirottare sempre verso di sé. Faceva naturalmente eccezione lo sguardo sormontato dagli occhiali del supplente di lettere, comunque troppo occupato a rispondere alle domande delle sue spasimanti per accorgersi dei loro traffici.

Mescolati ai bulli, in uno scarto percepibile solo per via di una maggiore statura, stavano i ripetenti e soprattutto le ripetenti, a cui i bulli toccavano furtivamente il seno nello sporgersi verso il vano porta valige – scusa, mi fai passare, devo prendere un pacchetto di cracker, a cui seguiva puntuale la toccatina. Certo, si chiamano molestie sessuali. La giusta punizione ai cuccioli del patriarcato non passava però da un tribunale, e piuttosto per il rito, ancor più celere, di una sberla a intensità variabile.

La domanda a questo punto diventa: e io, io lettore, proprio io che ho appena letto la parola letto seguita dalla parola parola, dove stavo seduto sul pullman?

Lo sapete di sicuro, la gita scolastica delle medie non si dimentica, sarà sicuramente stata la prima volta di qualcosa; magari la prima volta in cui ci si accorge che ci sono solo seconde volte, la prima passa come i jet militari quando solcano il cielo. Il boom sonico arriva dopo. Nel mio caso occupavo l’ultima fila, e la ripetente al mio fianco assestava sberle dal tenore pugilistico, per i due giorni successivi ho avuto dolori alla mascella.

Bene, e ora proviamo a immaginare dove stavano seduti i nostri genitori, ma prima ancora i nostri nonni e via via a risalire il tempo fino all’invenzione del motore a scoppio e delle gite scolastiche. Secondo me, quasi mai dove eravamo seduti noi. Mi sono fatto l’idea che una famiglia sia un luogo di dispersione, per cui non vale il motto tale padre tale figlio.

Escludo che mio padre si sia seduto anche lui nell’ultima fila a bere birra tiepida e palpeggiare una Gigliola (così si chiamava la ripetente) dei primi anni Cinquanta; lo vedo piuttosto in posizione intermedia, a parlare col compagno di posto del grande Torino di Bacigalupo e Mazzola. Quanto a mia madre, è verosimile che pendesse dalle labbra del supplente di lettere, ma avrebbe potuto stare anche nel gruppo delle canterine. Di certo non tra le secchione.

Se assumiamo per vera questa tendenza all’entropia famigliare, la domanda successiva è sulla ragione: perché siamo così diversi dai nostri genitori e loro dai propri, per non parlare dei figli che ci appaiono degli alieni? Potrebbe essere una strategia evolutiva…

Immaginiamo che la famiglia sia il pullman e tutti i sedili debbano essere occupati. O se si preferisce un alveare, un formicaio: noi pensiamo di essere unici ma invece stiamo solo giocando una parte, o meglio ancora ne siamo giocati. Non sineddoche, la parte per il tutto, ma il tutto che ingloba la parte, la dispone secondo sue proprie occulte strategie di riempimento, in un gioco di ruolo che non ha mai termine né senso alcuno.

Un gioco dove comunque vadano le cose vince sempre la famiglia, vince il pullman, l’intero sulle sue determinazioni. L’unica sarebbe stata puntare una pistola ad acqua alla testa del conducente, e poi dire: “Questo è un dirottamento. Invece che a Venezia, ci porti al prossimo Autogrill.” Dove scendere e dileguarsi tra panini Fattoria, cd di Califano e caciotte affumicate disposte a gran pavese. E poco male se così ci saremmo persi la planata del piccioni di Piazza San Marco sul palmo della mano cosparso di becchime.

sabato 6 dicembre 2025

Ariani e caimani

Ho appena letto su Facebook un bel post della poetessa Viviana Viviani. Senza dichiararlo esplicitamente si riferiva al rifiuto di Zerocalcare, seguito da altri scrittori, di partecipare all’annuale manifestazione editoriale Più libri più liberi, in cui è presente lo stand di Passaggio al Bosco, una casa editrice di indubbie simpatie filonaziste.

La tesi di Viviani è la seguente: "dobbiamo metterci in testa che bisogna coesistere anche con le idee che non ci piacciono, almeno finché non si traducono in azioni violente, e decidere di volta in volta se ignorare o contestare."

Il pensiero è ben formulato e del tutto ragionevole, anche nella parte del testo che ho omesso. Ma contiene un implicito: convivere equivale a condividere – condividere in senso spaziale, intendo. Come a dire che il mondo è uno e ci deve essere spazio per tutti, almeno fino a quando non vengano commessi reati. E per inciso ricordo che in Italia è tutt'ora vigente la legge 645 del 20 giugno 1952, dove all'articolo 4 viene sanzionata ogni forma di apologia attiva di fascismo. Quindi la nostalgia viene fatta salva dalla condanna del legislatore.

Sarebbe perciò necessario entrare nel merito del catalogo di Passaggio al Bosco, che non conosco, con strumenti giuridici di cui pure difetto. Facciamo allora come se – come se: attenzione! – ciò che pubblicano sia esente da ogni ipotesi di reato, e torniamo all’equivalenza adombrata nel ragionamento di Viviani: convivere equivale davvero a condividere?

Con un esempio sarà forse più chiaro. Al mondo esistono ventitré specie di coccodrilli, per decine di migliaia di esemplari sparsi tra acque salmastre, paludi costiere, estuari, fiumi, laghi, stagni, acquitrini e perfino qualche piscina hollywoodiana, così da fare un po’ di scena nei cocktail party a bordo vasca.

Bene, mi chiedo chi avrebbe voglia di immergersi in una di queste piscine con un coccodrillo... Io no di certo, per quanto non ne contesti la presenza. Certo, mi piacciono di più altri animali, tipo cani, cerbiatti, delfini o pettirossi da combattimento, ma non pretendo che tutti i coccodrilli vengano convertiti in borsette. Sono ben disposto a con-vivere con loro, ma non a con-dividerne gli spazi.

Zerocalcare, ma anche Corrado Augias, Michele Serra, Alessandro Barbero e molti altri devono avere fatto lo stesso ragionamento. Accettano, non è importante quanto volentieri, di convivere con una casa editrice filonazista. A patto però di non dover condividere una fiera letteraria. Scelta che a me pare del tutto legittima: i coccodrilli di là, noi di qua. I nazisti a Più libri più liberi, noi a casa a vederci un vecchio film di Billy Wilder.

mercoledì 3 dicembre 2025

Racconto di Natale (mi ricordo 68)



Mi ricordo della cassiera di un discount dal logo giallo, rosso e blu, come il suo principale concorrente. Si trova a Casacce, una spruzzata di villette e capannoni a una decina di chilometri da Sondrio, dove è presente un punto vendita della stessa catena, che però è sempre affollato. Così ho preso l’abitudine di andare a Casacce. Qui ci sono due casse ma solamente una viene mantenuta aperta, per il flusso di clienti è più che sufficiente. Una cassa per tre cassiere a turni di mezza giornata.

La cassiera del mio ricordo è bionda, alta, l’espressione un po’ triste. Quando l’ho vista la prima volta ho pensato a una versione ossigenata di Anna Karina in Pierrot le Fou. Da giovane sceglievo la cassa nei supermarket in base all’avvenenza delle cassiere, ora cerco di intuirne l’umore – forse avrebbero voluto un lavoro da attrice, fotografa, presentatrice televisiva, non cercare il codice a barre dei sofficini. O invece è la soddisfazione per avercelo, comunque, un lavoro.

Con questa cassiera confesso che è stato difficile. Si spegneva e riaccendeva a ogni nuovo giro di spesa, on off, on off, passando dalla prima sensazione di mestizia a un sorriso e una parola gentile per tutti, in una versione disneyana del cliente ha sempre ragione. Arrivato il mio momento mi ha chiesto a bruciapelo: “Come stai?”

Come sto – ma che cavolo di domanda è? Di solito lo si dice in un clima confidenziale, quantomeno è richiesta la conoscenza dell'interlocutore. E poi è un modo di dire, a nessuno frega niente, serve per attaccare bottone. Ma qui avevamo quasi finito, dovevo acquistare solo due Tetra Pack di latte d'avena, una zuppa toscana e delle friselle calabresi.

E in ogni caso stavo male, molto male. Davanti a ogni specchio rimiravo la mia bella corona di spine. Che faccio, glielo dico… Oppure me la cavo con una frase di circostanza. Alla fine ho optato per la figura della litote: “Non bene” ho detto senza guardarla in faccia, e ho cominciato a infilare le friselle nel sacchetto che avevo portato da casa.

“Cos’hai?” ha insistito lei. “Se ti va di dirmelo, naturalmente. A volte sono un po' impicciona. Scusami.”

“Ma no, figurati. E comunque tante cose non vanno. Problemi alla vista, se devo dirtela tutta. Tre mesi fa ho avuto un distacco della retina, e ora da un occhio quasi non ci vedo.”

Subito dopo avere concluso la frase mi sono pentito. Da quando tutta questa confidenza con gli sconosciuti, non potevo rispondere mi sento un leone, o una cazzo di tigre come fanno gli ospiti di Francesca Fagnani, dopo che con il suo sorrisetto da serial killer chiede che belva si sente?

“Anche io, da un occhio, non vedo.”

Le sue parole hanno interrotto il flusso rabbioso dei miei pensieri. Ho alzato la testa per guardarla. Sì, assomiglia proprio ad Anna Karina. Poi non sono riuscito a borbottare niente di meglio che Davvero?"

“Credi che ti prenda in giro?"

“No, intendo dire..."

Ma prima di riuscire ad aggiungere qualche altra banalità mi ha interrotto“Da quale occhio? Quello che non va, intendo.”

“Il destro.”

“Io il sinistro.”

“…

“Allora,” ha concluso, “in due facciamo una persona normale.”

Nei giorni successivi ho pensato spesso alla sua battuta. Una persona normale. Avevo voglia di trasformare quella normalità in un gesto: non di seduzione, è troppo giovane per me. O, meglio, io sono troppo vecchio per lei.

Un gesto, ecco, che restituisse la figura di integrità intravista per un attimo, mentre il cliente successivo premeva con una bottiglia di Baileys sottomarca.

Sono tornato altre volte nel discount di Casacce. Il primo sguardo era alla cassa, e se non vedevo la frangetta bionda, confesso, un po’ mi dispiaceva. Ma quando la ritrovavo il discorso proseguiva a singhiozzo, come se l'ultimo scambio fosse avvenuto pochi secondi prima. 

Dall'oculistica si è passati alla musica – curioso che una ragazza di nemmeno trent’anni ascolti i Beatles –, poi alle serie TV. Mad Men è piaciuta molto a entrambi, peccato che non siamo riusciti a sviscerare le ragioni per cui Don Draper ha allontanato il fratello, ma c’era il cliente successivo. Se ne riparla al prossimo singhiozzo.

Mediamente, si trattava di conversazioni di un minuto. È possibile dare forma umana a rapporti di un minuto? Rapporti che col sesso, o altre scorciatoie per entrare dalla finestra quando la porta è sbarrata, non c’entrano nulla. Non so, ma alla fine mi è venuto in mente il gesto.

La volta successiva, arrivato il mio turno, ho estratto dal giaccone militare una confezione di Lego; conteneva dei girasoli da montare, non l'avevo presa dagli scaffali del discount ma acquistata su Internet. In fondo eravamo a dicembre inoltrato, una coppia balcanica aveva infilato un enorme Babbo Natale nel carrello. “Sono per te” le ho detto. "E sono due, come i nostri occhi sani o quelli scassati, a tua scelta. Non battermeli con la spesa però”, ho aggiunto per stemperare l’imbarazzo.

Lei è rimasta un attimo interdetta. Ah, grazie grazie… che pensiero carino. Ora non ricordo le parole esatte, ma deve avere balbettato qualcosa del genere. Intanto, la coppia balcanica aveva già posato il pupazzone rosso con la barba bianca sul nastro. “Beh, ciao” le ho detto, “alla prossima e buon Natale.”

Ma prima di uscire dalla porta scorrevole ho sentito gridare alle mie spalle. “Ehi, tu, occhio scassato!" Mi sono girato con sguardo severo, facendo valere la differenza di età. Ora somigliavo a un preside col panciotto su cui incrociare le braccia.

Scusa: uomo dei girasoli volevo dire.” D'altronde non ci eravamo ancora presentati, e poi non reggo la parte del preside per più di dieci secondi. Sono tornato indietro.

“Posso chiederti una cosa un po' strana..." mi ha detto con tono esitante e abbassando la voce. Più che dai clienti, è come se non volesse farsi sentire dalla giubba gialla e blu che indossava, con la sigla del discount in risalto. 

“Dimmi.”

Posso davvero...

“Uffa, spara.”

La donna della coppia balcanica ha iniziato a tamburellare le dita sul capoccione del pupazzo e, più dietro, il carrello di un uomo tarchiato con i capelli color carota era pieno di sacchi di carbonella. C’era da scommettere che dovesse organizzare una grigliata per il cenone degli alpini.

“Vorreiabbracciartiadesso” ha pronunciato in un unico rapidissimo suono.

Poi è uscita dal vano della cassa e lo ha fatto, mi ha abbracciato davanti a tutti senza lasciarmi il tempo per rispondere, né di chiederle quel nome che mi è tutt'ora ignoto. Con i nostri occhi scassati che vagavano, fuori fuoco, tra friggitrici ad aria che si rompono dopo due settimane, merendine piene di grassi saturi, mozzarelle di bufala in scadenza. Mentre i nostri occhi buoni si aggrappavano al buono che c'è.

A lezione di scrittura creativa da Francesca Albanese

Le recenti polemiche sull’infelice uscita di Francesca Albanese mi toccano il giusto, e cioè pochissimo. Le trovo però un formidabile esempio della natura del linguaggio; dunque, volendo, anche un’involontaria lezione di scrittura creativa. Provo a spiegarmi.

Nel condannare l’irruzione violenta nella sede torinese del quotidiano La Stampa – violenta verso luoghi e oggetti, va precisato, non verso le persone che erano assenti a causa di uno sciopero – nel condannare come tutti quel brutto episodio, ad Albanese è sfuggito il termine monito.

È una cazzata, sia chiaro, e credo che lei stessa se ne sia accorta a stretto giro – monito è la foma contratta di ammonimento: quello che fanno gli arbitri di calcio ai giocatori fallosi, ma anche i mafiosi a chi non paga il pizzo.

Nessun ammonimento dunque, che i giornalisti della Stampa continuino a scrivere quel che gli pare, senza cartellini rossi o frasi minacciose pronunciate a mezza bocca.

Il fatto è che il termine improprio faceva capolino all’interno di parole di condivisibile buon senso; se volessimo quantificare, sarebbe l’uno per cento del dettato linguistico.

Eppure, quell’uno per cento è quel che si è fissato nell’attenzione dei più, compreso di chi (come me) non ha pregiudizi ostili verso Francesca Albanese. Perché?

La risposta non la troviamo nella teoria politica, ma in quella, appunto, narratologica. Nella sua ultima newsletter, lo scrittore Ivano Porpora parla di “come un dettaglio minimo può aprire la porta alla profondità."

“Molte storie si inceppano perché restano in superficie: la scena c’è, ma non scava. Sembra giusta, sembra messa lì bene, eppure non cambia niente del personaggio, non apre niente, non lascia filtrare nessuna crepa.”

Fin qui la cornice astratta, ma nel testo vengono aggiunti anche alcuni esempi. Il primo riguarda un racconto di Tommaso Landolfi dal titolo La pietra lunare.

“All’inizio" prosegue nel suo ragionamento Porpora, "sembra tutto lineare: un ragazzo si innamora. Ambientazione quasi da realtà domestica. Purezza. Poi Landolfi mette un dettaglio: gli zoccoli caprini della ragazza.”

Ecco, il termine monito, pronunciato da Francesca Albanese quasi distrattamente, corrisponde agli zoccoli caprini nel racconto di Landolfi: in entrambi i casi è il dettaglio che indirizza l’interpretazione del lettore.

Si produce infatti un’incrinatura discorsiva nel leggere di zoccoli caprini, specie quando a indossarli è una ragazza in tutto il resto normale; si produce una speculare incrinatura quando si utilizza il termine monito associandolo al vandalico assalto della redazione di un giornale.

Seguono le precisazioni di chi ha commesso la gaffe; e le ragioni, specie quando sono ragionevoli, sono sempre bene accolte. E poi chi siamo noi per assegnare patenti di virtù, come fece la stessa Albanese quando si rivolse al sindaco di Reggio Emilia: “La perdono, Sindaco.”

No, noi non perdoniamo proprio nessuno, perché nessuno abbiamo accusato. Ma da lettori quel monito è difficile da dimenticare... Per dirla con Roland Barthes: è il punctum della narrazione.

domenica 30 novembre 2025

Cavoli a merenda

 


Secondo me, la vera notizia nella pseudo notizia – pseudo perché priva di esemplarità, non perché falsa – sulla lista delle ragazze da stuprare scritta nei bagni del liceo romano Giulio Cesare, consiste proprio nel trarre una qualche indicazione di carattere generale dalla scritta in un cesso.

Ovviamente quella scritta è odiosa, ma se tutto ciò che viene scritto sulle piastrelle di un bagno dovesse possedere rilievo sociale e carattere di verità, dovremmo ricavare che anche ciò che viene dichiarato da anonimi avventori negli orinatoi degli Autogrill corrisponda a una tendenza diffusa nel Paese, affetto da macropenia. Farebbe insomma statistica lo scarabocchio di "Arturo, 27 cm di ardore, telefonami e non te ne pentirai". E invece, lo sappiamo bene, sono solamente i vaneggiamenti di qualche sciroccato, che non trova altro modo per dare forma alle proprie fantasie.

Certo, fantasticare di essere superdotati è ben diverso da una fantasia collettiva di stupro, ma l’eco giornalistica che viene data alla vanvera di uno o comunque di pochissimi – in un bagno scolastico non si entra in più di tre o quattro – in qualche modo l’alimenta. Bastava comunicare il fatto alle forze dell'ordine e chiuderla lì.

Quando un anonimo scemo viene premiato da notorietà, è invece probabile che lo rifaccia: non lo stupro, ma la sua dichiarazione d’intenti. Che con una presunta natura patriarcale della società italiana (è quanto ha affermato la dirigente dell’istituto, Paola Senesi) c’entra come i cavoli a merenda.

Cosa mi sono perso?

 


Cosa mi sono perso? si chiedeva Giorgio Gaber in un omonimo brano tratto dal Signor G., era il 1985. Per concludere che perdersi qualcosa – si riferiva a spettacoli, libri, film – non sempre è un’esperienza subita e negativa, può tradursi in una scelta: questa sera, ecco, scelgo di perdermi il concerto di Achille Lauro, oppure l’ultimo film di Paola Cortellesi.

Niente contro Achille Lauro e Paola Cortellesi, intendiamoci. Ma scelgo comunque di perdermeli per fare spazio ad altro. A ogni pieno corrisponde infatti un vuoto, una possibilità mancata, un’omissione. Ci pensavo nel continuo imbattermi in discorsi sulla famiglia nel bosco. Una colata di parole che al solito parte dai media, per saturare le pendici arroventate dei social.

Non mi interessa dire la mia al riguardo, ma mi pongo la stessa domanda di Gaber: cosa ci stiamo perdendo nel parlare della famiglia nel bosco?

Il sospetto è che sia un modo non necessariamente intenzionale (o forse sì…) per non parlare di tutte le altre famiglie che vivono nel sottobosco del precariato, della disoccupazione, la malasanità, lo sfruttamento, diciamo pure senza formule edulcorate: per non parlare delle famiglie povere.

È un fatto che la nostra attenzione somiglia alle poltroncine di velluto di una sala cinematografica, e non si può vedere due film allo stesso tempo. A un film, mettiamo, di Ken Loach sul sottoproletariato britannico, noi abbiamo preferito la commedia ecologica sulla famiglia nel bosco. All’uscita dalla sala ne discutiamo con fervore critico sul marciapiedi, dicendo cose – ammetto – anche sensate. Siamo diventati dei Mereghetti del buon senso.

Una sensatezza che difetterebbe nel commentare il film sulla povertà, forse perché, come voleva Tolstoj, le famiglie ricche (la richezza della famiglia nel bosco consiste nel poter scegliere il proprio destino alla Robinson Crusoe) si somigliano un po' tutte, mentre quelle povere riescono a trovare vie individuali e schive al proprio patire. Una varietà che rende più difficoltosa la ricerca di una soluzione.

La migliore che ho trovato è la condivisione delle ricchezze, ma se ciò non è ancora avvenuto significa che ai ricchi i soldi non escono spontaneamente dalle tasche, e i poveri preferiscono invidiarli che votare per partiti che promuovano politiche redistributive. Sarà questo o magari altro che continua a sfuggirmi, e così si parla della famiglia nel bosco. Perdendoci le centinaia di migliaia di famiglie nel sottobosco.

martedì 25 novembre 2025

Blondi (mi ricordo 67)

Mi ricordo di avere letto in un libro la storia di Blondi. Era una femmina di pastore tedesco, Martin Bormann la regalò a Hitler nel luglio del 1941, poche settimane prima i panzer tedeschi avevano oltrepassato il confine sovietico nell'operazione Barbarossa. Il regalo deve essere stato molto gradito, Hitler non si separava da Blondi nemmeno per dormire. Nell'aprile di quattro anni dopo, in pieno assedio al Führerbunker di Berlino, diede alla luce cinque cuccioli concepiti con Harass, il cane dell'architetto Gerdy Troost. Provo a immaginare il corteggiamento di Harass sotto le bombe della Royal Air Force.

Per vedere la scena, mi accorgo che devo però costruire una cornice. È composta da generali e colonnelli, vanno e vengono trafelati, non si capisce come riescano a essere sempre inappuntabili nelle loro divise grigioverdi – immagino anche chi le lava e le stira, bisogna stare attenti a non bruciare le mostrine. Portano i dispacci dal fronte che si riduce sempre più, ma la rovina viene addolcita al Führer in un birignao tecnico e procedurale. Ricorda la ricostruzione della scena del crimine nei programmi televisivi di Bruno Vespa: al posto della vita, una riproduzione della vita in scala 1\100.

Dalle cucine proviene odore di disinfettante e verdure bollite; eppure non mancano sulla tavola tenerissime fragole rosse, primizie di una primavera non diversa da tutte le altre, a cui seguirà l’estate e poi l’autunno e poi l'inverno, fino a una nuova primavera. Sono glabri i volti dei combattenti della Hitlerjugend, vengono premiati con una carezza dall’uomo con piccoli baffi. Nella distorsione di uno specchio del luna park, quello sulla Friedrichstraße era stato convertito nel 1943 per l'assemblaggio e manutenzione di armi, ne ritorna lo stesso sguardo accesso di Telemaco al sospirato ritorno di Ulisse.

Intanto, in un tiepido cantuccio, i due animali procedono nel loro rituale di accoppiamento: lei prima si nega, morde, fa la vezzosa; quindi alza piano la lunga coda sfrangiata. Quando i militari dell’Armata Rossa riuscirono a fare breccia, insieme ai resti umani (i cineoperatori sovietici vollero disporre i cadaveri dei sei figli di Magda Goebbels in ordine di altezza, forse un modo per restituire equilibrio geometrico alla follia, o magari per un'estrema e macabra burla) furono ritrovati anche i corpi di Blondi e di uno dei suoi cuccioli.

Si trattava quasi certamente del piccolo Wolfe, il preferito da Hitler che così l'aveva chiamato in un anagramma imperfetto del proprio nome, in cui si compiaceva di scorgere la sagoma fiera di un lupo. Le pillole di cianuro appartenevano a Himmler, ma gli vennero somministrate dal Dr. Stumpfegger: se funziona con gli animali – il probabile sotto testo – andrà bene anche per le persone. E poi, di Himmler, si sa, c'è poco da fidarsi... Gli assaggiatori servono a evitare che i sovrani vengano avvelenati, in questo caso Blondi e il figlio avevano la funzione opposta. Il rischio è che Hitler potesse sopravvivere al crollo del Reich.

Una diversa versione vuole l’uccisione di Wolfe successiva di un giorno, se ne sarebbe occupato il sergente Fritz Tornow, addestratore e custode dei cani. È un ordine, si sarà detto al modo impersonale di Eichmann, solamente un ordine, e gli ordini vanno eseguiti. Ma mi chiedo perché farlo quando Hitler era già morto... Sopravvive il potere perfino alla morte?

Non è nota la sorte degli altri tre cuccioli, ma sappiamo per certo che il rimanente fu ceduto alla sorella minore di Eva Braun, Margarete Berta detta Gretl, come la protagonista della celebre favola tedesca. La segretaria privata di Hitler, Traudl Junge, ricorda in un'intervista di quanto Eva detestasse Blondi, che in più di un'occasione aveva visto prendere a calci. Di quel libro che parlava di uomini, battaglie, onore e gloria non ricordo altro.

lunedì 17 novembre 2025

Ben (mi ricordo 66)

 

Mi ricordo che quando entrava dalla porta già spalancata del bar del campeggio si diffondeva un inconfondibile odore di pesce, andandosi a mescolare a quello delle creme solari ad alto filtraggio – talune avevano sentore di noce di cocco – ampiamente spalmate dai tedeschi in vacanza sul lago di Como, mentre la pallina da ping pong rimbalzava sul tavolo di truciolato e dal juke-box, a turno, provenivano le note di Ancora tu di Lucio Battisti, Margherita di Riccardo Cocciante e Ramaya di Afric Simone, che si disputavano il vertice dell'hit parade nell'estate del 1976. Dopo avere mostrato il contenuto del paniere, Ben tornava alla sua roulotte a riporre la canna e pulire barbi, carpe, triotti, cavedani, agoni, alborelle e persici reali. Non tutti pescati in una sola volta, come le canzoni del juke-box. Ma era comunque un pescatore esperto.

A me pescare non è mai piaciuto e ci siamo sempre e solo sfiorati, non posso dire che fossimo davvero amici; eppure avverto una familiarità affettuosa nei suoi confronti. Per qualche misteriosa ragione Ben riusciva a perforare gli invisibili recinti sociali, univa persone che non avrebbero potuto essere più diverse, in una piccola città come Sondrio lo conoscevano tutti, e tutti provavano simpatia per lui. In insiemistica l’avremmo detto un insieme intersecante, dove alla minima porzione sovrapposta si aggiungono spazi vuoti e intangibili, colmati dalla fantasia.

Nel suo caso si trattava di una narrazione diffusa, possedeva tratti quasi leggendari, di certo eccessivi. Pochi anni dopo, ad esempio, si sparse la voce che Ben era andato al cinema teatro Pedretti, i pop corn non si usavano ancora altrimenti ne avrebbe preso un contenitore bello pieno, per accompagnare la visione dei Guerrieri della notte. E fin qui non ci sarebbe nulla di strano, se non ci fosse tornato anche il giorno successivo e il giorno dopo ancora, sempre pagando regolare biglietto, per cinque volte consecutive. Secondo altri le volte furono otto e, per altri ancora, addirittura dodici – in pratica tutte le due settimane di programmazione, con esclusione del lunedì di chiusura – più una tredicesima a Lecco, dove il film era ancora in cartellone.

Era lo stesso Ben ad alimentare il gusto per la sciarada e l'iperbole discorsiva, c’era un tratto debordante a partire dalla sua fisicità, il sorriso degli entusiasti perennemente stampato sulle labbra – bastava davvero un pescetto appeso all’amo per farlo contento –, e le labbra ad allargarsi sul faccione tondo.

Lo intuì un dj di nome Norberto, che lo volle accanto in una trasmissione musicale su Tele Sondrio. Norberto parlava parlava non smetteva mai, se non gli veniva una parola utilizzava l’espressione a ogni buon conto, e poi ripartiva. Pare che i disc jockey debbano saturare ogni spazio sonoro con la malta di una loquela decerebrata, attività che a Norberto non poteva venire meglio. Ben gli sedeva accanto in abiti tirolesi, muto come uno di quei pesci che era tanto abile a pescare: era sufficiente il sorriso rivolto in camera, forse avevano pensato al precedente di Andy Luotto in L'altra domenica. Uno alto, snello, capellone e ciarliero; l’altro silenzioso, buffamente rivestito e sovrappeso. Un gioco delle parti che avrebbe voluto essere divertente, ma a me metteva solamente tristezza.

Un po’ era lo stesso Ben a cercarsi questo ruolo, va detto. Nelle pellicole cinematografiche personaggi come lui hanno funzione di contorno, servono a stemperare la tensione, creare siparietti comici; poi l'eroe rientra in scena. Ma a volte sono proprio i personaggi secondari a prendere la parola e raccontare una storia, serve a illuminare la vicenda principale di una luce diversa, spesso ambigua – cosa ci avrà voluto comunicare il regista?

Nel mio caso è avvenuto una decina di anni fa, insieme ad Alberto e al mio cane Peppa ero andato a pranzo in una trattoria a Ligari, una minuscola frazione di Sondrio. Lì troviamo Ben. È da solo. Da lontano non l'avevamo riconosciuto, neppure sorride come suo solito se non al momento in cui ci vede e saluta, e così lo invitiamo a unirsi a noi per il pranzo. Dopo i soliti convenevoli ci racconta che è in partenza per il Brasile. Nei mesi precedenti aveva conosciuto una donna brasiliana, era arrivata in Italia con l'intento di fare chiarezza sulle sue radici. Dell'incerta origine conosceva solo il fatto che gli antenati provenivano dalla Lombardia, quasi al confine con la Svizzera, e il cognome della linea paterna, ovvero il proprio, era Benini. Ma anche Ben si chiama Benini e vive a mezz’ora dalla dogana di Campocologno, la faccenda comincia a farsi interessante…

La donna aveva preso una guida del telefono e si era messa a telefonare a tutti i Benini a nord di Milano, e quando aveva contattato Ben si erano parlati, poi incontrati per abbozzare un albero genealogico, quindi innamorati. Benini ama Benini, sarebbe bello da scrivere con una bomboletta spray sopra a un cavalcavia. Altro che I guerrieri della notte, qui siamo in un film di Frank Capra. Ma, dopo un fremito da spettatori appagati dalle sequenze iniziali, Alberto si fa serio, e gli chiede a bruciapelo:

– Ben, cosa vai a fare in Brasile? Come campi, intendo. Sei sicuro?

– Ho più di cinquant’anni – risponde Ben con altrettanta serietà. – È la donna che avrei voluto da sempre, ho finalmente trovato la mia donna. Qualcosa farò…

Da quel giorno non ho più avuto sue notizie, cosa in fondo normale. Ieri mi è però arrivato un messaggio WhatsApp, in cui un amico mi comunica che Ben è morto, all'improvviso, in Brasile. È in quel momento che ho realizzato che non esistono personaggi minori: anche se in abiti tirolesi e privati della parola, anche se l'odore di pesce si diffonde quando entri dalla porta, anche se seduti su una poltroncina di velluto a guardare e riguardare la vita degli altri sullo schermo. Dietro c'è sempre una storia. E le storie sono storie d'amore o di morte o di ricerca o di un doppio. Ben, non se ne è fatta mancare nessuna.

domenica 2 novembre 2025

Dio è una persona difficile (mi ricordo 65)

 


Mi ricordo dei giorni del lockdown pensando a Michele; mi ricordo di Michele pensando che magari oggi mi ha chiamato e io non ho sentito, non ho potuto sentirlo, perché l’ho bannato.

Michele è un po' tocco, diciamolo subito senza tanti giri di parole. Ma Michele è mio amico. Non mi era mai capitato di bannare il numero di telefono di un amico, ho però dovuto farlo con Michele. Il fatto è che chiamava nel cuore della notte. Mi sento sooolo diceva con accento siciliano, la penultima vocale strascicata. E io l'ho bannato.

Continua comunque a essere mio amico, ci siamo conosciuti una decina di anni fa al Bar Piero. Nei giorni del lockdown il Bar Piero era chiuso, e così ogni tanto ero io a chiamarlo. Non in piena notte come fa lui, ma verso le sette di sera quando ha finito di cenare all'ora in cui cenano i vecchi e gli svizzeri; intanto, guarda il quiz di Amadeus:

– Conosci le risposte? – mi chiedeva.

– Alcune sì e alcune no, Michele.

– Io nessuna, conosco solo i santi.

Ed è vero: non gliene sfugge uno. Se invece di Amadeus ci fosse ancora Mike Bongiorno con le sue domande a tema, sono certo che potrebbe sbancare Rischiatutto. Argomento a scelta vita dei santi, ovviamente.

La conversazione telefonica procedeva con l’enumerazione di ciò che ha appena mangiato. Carne Simmenthal, pomodori, pane, olio, sale, salame piccante, sottilette Kraft, tre uova, acqua frizzante, una mela, due noci e un dattero. A Michele piace fare lunghi elenchi. Ma gli piace soprattutto mangiare, ha sempre fame, una fame come si dice atavica, simile a quella di Totò in Miseria e nobiltà.

L'unica cosa che non può mangiare sono i dolci. Sono morti di diabete la madre, il padre e soffrono della stessa malattia tre degli otto fratelli, tutti rimasti in Sicilia. Non si capisce bene perché lui invece stia qui, a Sondrio. Se glielo chiedi ti risponde io sono nordiiista, termine con cui qualifica le persone del nord Italia.

Un'altra cosa che piace fare a Michele è andare in chiesa. È capace di seguire anche due messe al giorno, oltre a numerosi rosari. Non che comprenda tutto ciò che viene detto, specie nell'omelia. Dio è una persona difficile mi ha confidato una volta. Però intanto prega: per avere una casa, o più precisamente una fattoria con vitelli, conigli, capretti, galline, maiali; poi una Harley-Davidson, un Maggiolone Volkswagen, una fidanzata nordista e così via, anche qui parte l'elenco.

Ma non prega solo per sé e la realizzazione dei suoi desideri; sui quali, va detto, ogni tanto comincia a dubitare. E non fa nieeente... dice, in cui il soggetto implicito è con tutta evidenza Dio. Ho pregato per te e Fata Morgaaana, dice ancora. Fata Morgana sarebbe mia madre. Io invece sono Volpe, si diverte a dare soprannomi. Ivan, un altro amico comune, è il Generale, mentre il terzo della combriccola è semplicemente zio Luigi.

– E tu come ti chiami – gli ho chiesto un giorno , qual è il tuo soprannome?

Si è grattato il grosso capoccione per qualche secondo, poi, d'impulso, ha risposto: – Io sono il Bambino.

Il venerdì andavamo a mangiare tutti assieme in pizzeria. Il Generale, zio Luigi e io ordinavamo una pizza, mentre il Bambino due cotolette alla milanese e un uovo al burro. Lui ormai si sente nordista anche a tavola, la pasta alle sarde è memoria sbiadita e non rimpianta, roba da sudisti. Ha anche acquistato un cappellino da baseball con sopra scritto I ❤️ Milano. Se lo toglie solo quando va in chiesa.

Oltre ad andare in chiesa e mangiare come un porco, Michele passa il suo tempo in piazza, seduto su una panchina che sta tra la chiesa e il Bar Piero. Lì fuma e conversa un po' con tutti. È gentile e benvoluto, somiglia a un enorme cucciolo di koala. Un orsacchiotto che parla, parla, non smette mai; anche di fumare. Forse perché si sente solo, come mi ripeteva nelle telefonate notturne prima che lo bannassi. Ogni tanto ho i sensi di colpa e lo sbanno, ma giro una settimana e riecco comparire il suo nome sul display: 

– Pronto, cosa c'è? 

– Mi sento sooolo.

– Ok Michele, ma sono le tre e mezza di notte...

Lui continua imperterrito come se fosse un trascurabile dettaglio: – Ieri, al Centro, una mi ha fatto una sega. 

– Una sega! Ma il direttore non aveva detto che se ti scopre ancora a farti fare le seghe dalle pazienti sono guai?

– Sì, ma mi so fatto fuuurbo.

– Furbo?

– In ascensore. Abbiamo preso l'ascensooore. Poi ho schiacciato il tasto, quello rosso, l'ascensore si è bloccaaata. E me l'ha fatta lì.

– Mmm...

– ...

– Quante gliene hai date?

– Le ho daaato un pacco di Camel.

– Michele, quante volte te lo devo dire che un pacchetto è troppo! La prossima volta dalle solo cinque sigarette: per una sega è fino a mai.

Conversazioni così, mentre i panettieri discutono dell'impasto e tutti gli altri dormono. D'altronde il Centro sarebbe il Centro diurno di sostegno psicologico e sociale, altrimenti detto CPS. Prima lo chiamavano manicomio, il manicomio di Sondrio, conficcato tra le vigne dove fanno un ottimo Valtellina superiore. Tra i matti ho scoperto che vige ancora il baratto, e le merci di scambio più pregiate non sono oro, incenso e mirra, ma sesso e sigarette.

Nei giorni del lockdown però era chiuso anche il Centro diurno. Niente seghe, niente Bar Piero, niente messe. A Michele rimanevano solo le domande di Amadeus – di cui però non conosce le risposte –, oltre alle sigarette e alle Simmenthal, con cui non riesce a colmare il suo disperato bisogno di compagnia. Di affetto, meglio. Che è forse amore a misura di bambino. Un sentimento semplice, tattile, non si è ancora complicato e divenuto enigmistico. 

“Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone (…) a cercare fratelli che non sono più”, lo scriveva Pasolini in una poesia del 1964. Allo stesso modo, nel marzo e nell'aprile del 2020, Michele girava come il pazzo che è tra i piccioni posati sul sagrato della chiesa e la saracinesca sbarrata del Bar Piero, prima di sedersi sulla sua solita panchina. Da solo. Anzi, sooolo.

Quando Dean Martin attacca la prima strofa di Volare, la suoneria che ho impostato sullo smartphone, dopo le dieci di sera penso sempre sia Michele, anche se magari è una badante ucraina che ha sbagliato numero: Ciao Olga carissima, sono Myroslava. Non sono Olga. Poi mi ricordo che il suo numero è fuori gioco, e tiro un sospiro. Non ho ancora capito se sia di sollievo o di rimpianto.

Durante il lockdown ci si telefonava più spesso, non c'erano molte alternative. Per paradosso, è stata un'occasione per rinsaldare rapporti che si stavano sfilacciando. Ad esempio con un mio conoscente che non sentivo da anni, non che avessimo chissà cosa da dirci, alla fine lo scambio si è limitato alla cronaca rarefatta di quel giorno. Era appena passato in piazza Campello per andare in farmacia, uno dei pochi spostamenti concessi. 

– Oh, non puoi crederci – mi ha detto col tono di chi è appena uscito dalla grotta della paura –, mai vista la città così deserta. Alle sei di pomeriggio non c'era anima viva.

– Eh già, non si può andare in giro  ho ribattuto tanto per dire qualcosa.

–  L'unico era un tipo grasso. Stava seduto su una panchina, tutto da una parte, come se aspettasse qualcuno. Intanto si accendeva una sigaretta con il mozzicone della precedente.

– Per caso indossava un cappellino da baseball?

– Sì, un cappellino blu con la scritta I ❤️ Milano. Come fai a saperlo?

– È il Bambino.

– Chi?

– Non importa.

Al termine della telefonata ho pensato che il Covid non è stato solo grafici, plateau del contagio, pallottoliere dei morti, medici e infermieri esausti ed economia, bisogna far ripartire l’economia tuonava la Confindustria. È stato anche Michele e la panchina di piazza Campello. Su cui forse pregava alla sua maniera, quando parla con Dio non ha nemmeno più le vocali strascicate:

– Ti supplico, fammi tornare a mangiare cotolette assieme a zio Luigi, la Volpe e il Generale. Ti do una sigaretta. Anzi di più, quante ne vuoi? Facciamo una stecca, basta che fai sparire questo stupido virus. Ma nel conto mettici pure tre seghe in ascensore senza che il direttore mi scopre.

Non so cosa abbia risposto l'interlocutore. In fondo aveva ragione Michele, Dio è una persona difficile.

Maggiolini (mi ricordo 64)

Mi ricordo i maggiolini comparire in massa al sole generoso di maggio, chi ne ha scelto il nome non deve essersi sforzato troppo. D'altronde l'esistenza di quell'insetto innocuo e tozzo si consumava quasi interamente nella tarda primavera: ad aprile non si vedevano ancora in giro e, a fine giugno, si ritirava con apprensione la pagella scolastica, senza che il viaggio in bicicletta verso la Scuola elementare di via Vanoni fosse tempestato dai maggiolini.

In alcuni anni erano presenti più che in altri, la maestra ci aveva detto che seguivano uno schema ciclico, ogni quattro giri di calendario si presentava un'annata copiosa; non seppe dirci la ragione ma in fondo interessava poco, più che altro era una prassi a legare i bambini degli anni Settanta ai maggiolini.

Alcuni li infilzavano con la punta del compasso, altri gli strappavano le ali e poi organizzavano delle gare (con gambette sproporzionate al corpo arrancavano senza una direzione precisa, per mantenerli nei margini della pista, tracciata a pennarello sul cemento del cortile, gli si dava dei colpetti con le dita), altri ancora li bruciavano vivi per mezzo dell’accendino Dupont del padre. C'era solo l'imbarazzo della scelta, a qualsiasi tortura non si sarebbero ribellati.

Io mi limitavo a spappolarli con una ciabatta se entravano in casa dalle finestre spalancate – che schifo! – e a dargli degli schiaffoni se si fissavano agli abiti o ai capelli – ancora più schifo –, cosa che avveniva con uguale frequenza; è come se cercassero il contatto, l'amicizia. O magari era pura vocazione al martirio: non solo non possedevano la rapidità di fuga della mosca e il pungiglione della vespa, ma ti venivano incontro fiduciosi, con tutto ciò che gliene veniva.

Fammi pure ciò che vuoi, parevano comunicare con l'aspetto repellente, basta che mi aiuti ad andarmene da qui il prima possibile, dopo un paio di settimane già non ne potevano più di stare al mondo. Per questo non ci intendevamo. Tanto a noi piaceva il Cornetto Algida, eccitava l’autopista Policar, sorprendeva la bolla soffiata con le labbra nella pasta morbida ed elastica delle Big Babol, quanto a loro avresti attribuito il pensiero schifato di antichi gnostici, detestando ogni cosa a partire da loro stessi. Ma era un detestare gentile.

Si dice che la natura proceda seguendo la legge darwiniana di selezione del più adatto, e mi chiedo a quale funzione il maggiolino corrispondesse con tanta accuratezza, a giustificare la diffusione infestante. Forse proprio ad allenare gli uomini alla crudeltà, già a partire dagli esordi infantili. Se ne ricava che l'umanità ora non abbia più bisogno di tale apprendistato, con i maggiolini a condividere la sorte di lucciole, mammut, uri e foche monache dei Caraibi, oltre a Cino Tortorella nel ruolo del Mago Zurlì. Anche lui scomparso senza lasciare eredi in abiti da paggetto.

Una spiegazione che mi convince poco, e preferisco pensare ai maggiolini come a uno dei tanti errori nel procedere per tentativi della vita: try and fail, prima si fa e poi eventualmente si aggiusta il tiro. Quando hanno finalmente inteso di non essere benvoluti, i maggiolini hanno smesso di farci visita, senza alcuna polemica, revocando il dono della loro gentilezza. Un'acquisizione che tutt'ora difetta alla specie a cui appartengo, non meno superflua ma incapace di fare tesoro dall'esperienza. Del mite e sfortunato insetto resterà così solo un omonimo modello della Volkswagen.

sabato 1 novembre 2025

Grattacieli (mi ricordo 63)

Mi ricordo dei grattacieli milanesi all’ora del tramonto, specie in inverno quando il sole cala presto e le polveri sottili saturano l'aria, conferendo un che di seppiato alla visione, da presente remoto. Mi piaceva osservarli in questo lieve scarto, andate pure a bere l’aperitivo dicevo, io vi raggiungo dopo. E mi sedevo su una panchina a fissare un grattacielo, uno a caso purché ospitasse solamente uffici.

Intorno alle diciassette, con il cielo che sta imbrunendo ma non è ancora nero, iniziano a spegnersi le prime luci. Dalle pareti specchiate lo si vede bene. Poi è tutto un incalzare di interruttori: clic, clic, clic… La sagoma di vetro, acciaio e cemento armato si rabbuia, seguendo lo stesso destino di un albero di Natale arrivata l'Epifania.

Ci sono però tre o quattro luci che perseverano nel rimanere accese; sono già le otto di sera, le nove perfino e qualcuno ancora abita quelle stanze. Alla fine il freddo ha sempre prevalso e non so come vada a finire, ma nell’alzarmi mi chiedevo ogni volta: chi sono?

Degli stakanovisti, o meglio ancora degli amanti clandestini, il direttore e la segretaria che scopano sulla scrivania… Più facile e meno letteraria la presenza del personale delle pulizie. Ma nell'immagine permane un elemento che resiste alla logica, a farsi metafora di un tramonto più esteso. Invecchiare, penso, deve essere la stessa cosa. La medesima ostinazione.

Il mondo che conoscevi si spegne un po' alla volta. Prima viene il fratello di una compagna: bussa il bidello e comunica che è annegato al fiume; è solo una lampadina rotta ti dici, basta sostituirla. Poi la corrente elettrica comincia ad arrivare a sprazzi, qualcuno riprende a fare uso di candele, l'oscurità diventa regola. L’orario di ufficio in fondo è terminato, che c’è di strano? Ma tu non vuoi pigiare quello stramaledetto interruttore, chiudere tutto e tornare a casa. 

martedì 28 ottobre 2025

Principi e rospi (mi ricordo 62)

Mi ricordo le feste di pomeriggio. Prima c'erano state quelle alle elementari, dove troneggiava la bottiglia conica della Fanta ed era sempre presente una mamma, una a caso che faceva i turni nell'ospitare i compagni di classe del figlio, a cui offriva una fetta di torta alle mele e il bidone del Dixan. Per fortuna, al suo interno, la polverina azzurra era stata sostituita dai mattoncini colorati del Lego.

Seguirono le feste delle medie, non troppo diverse: si aggiungeva alla Fanta la Coca-Cola e non c'era più la mamma, né il bidone del Dixan. In compenso, se la casa apparteneva ai genitori di una ragazza, subentravano i 45 giri di Umberto Tozzi e Claudio Baglioni, mentre Born To Be Alive di Patrick Hernandez e On the Road Again dei Rockets erano appannaggio dei maschi, prima che la colonna sonora della Febbre del sabato sera stabilisse un unanime consenso di genere. Ma le feste a cui penso io sono quelle all'inizio delle superiori.

I luoghi in cui avvenivano continuavano a essere privati. Non si trattava però di vere e proprie abitazioni, o meglio lo erano state, case di campagna dei nonni, vecchi zii morti che avevano lasciato il poco che avevano in eredità, e ora i nipoti ci facevano un festino. Venivano chiamati locali, per quanto fossero presenti più camere e almeno un soggiorno, in cui ballare e bere e fumare. Qualche canna e poco altro, riguardo allo sballo.

C'è una festa nel locale di Tal dei Tali, si diceva. Oppure in un locale a Caiolo, Chiuro, Mossini… E vai tu a sapere a chi appartenesse, ma era girata la voce e si andava lì e si provava a imbucarsi. Di solito andava bene.

La stanza più defilata veniva adibita a guardaroba, con i giacconi buttati su un vecchio materasso posato al suolo che possedeva un’altra funzione, facilmente intuibile. Bastava entrare, un po’ a tentoni per via dell'oscurità, le tapparelle erano abbassate e la porta andava mantenuta chiusa, ehi fai attenzione! Ma se chiedevi scusa al paio di coppie già lì presenti e non viste, ti facevano volentieri spazio. Così potevi a tua volta limonare. 

Dovevi però prima trovare una ragazza che fosse disposta a farlo. Non era difficilissimo, per essere onesti. Anche perché non era tanto importante sapere a chi appartenesse il cavo orale da perlustrare, ma il ritorno al Bar Sole il lunedì successivo (di norma le feste pomeridiane avvenivano il sabato o la domenica), dove raccontare della nuova conquista agli amici. Sospetto che anche tra le ragazze avvenisse qualcosa di simile, contribuiva ad aggiungere palline all'abaco del proprio prestigio sociale. 

A me capitò di appartarmi con una ragazza che odorava di sambuco e aveva due tette belle sode, ma scoprii il giorno successivo che passava per essere la più brutta dell’intero istituto linguistico. Dico passava perché c’eravamo a malapena presentati, giusto un po' di strusciamenti sulle note di Enola Gay (non si sa come la trasformammo in ballo lento) e poi subito sul materasso. Ma è quanto sosteneva quella carognetta di Paola – d’altronde se non lo sapeva lei, che frequentava lo stesso istituto. Cominciò ad andare in giro a dire: Oh, lo sapete, Hauser ha limonato con la XXX! E giù tutti a ridere.

Io avevo anche provato a negare: No no, si trattava di un’altra scongiuravo – e per quanto ne sapevo avrebbe anche potuto essere vero –, un’altra molto carina, figurati se mi metto con la XXX… Ma pare che qualcuno fosse presente all'inciucio, e avesse riportato la gravissima colpa a quel megafono di Paola.

Non sono certo orgoglioso dei miei balbettanti tentativi di scagionarmi. Ma negli adolescenti, maschi e femmine, il patriarcato non c'entra nulla, è presente un sentimento feroce e primitivo, un darwinismo estetico dove ciò che davvero importa non è chi è più adatto alla riproduzione, l'adattabilità richiesta è alla copertina di Vogue. E come in tutti i sentimenti tribali agisce il principio di metonimia: se tocchi un'intoccabile, diventi intoccabile anche tu.

Milan Kundera sostiene che agli uomini piacciono le donne belle, mentre alle donne piacciono gli uomini che stanno con le donne belle. Messa così suona un po’ tranciante, ma è un fatto che da quel giorno cominciai a essere ignorato dalle ragazze. E sì che avevo tutte le carte in regola: andavo male a scuola, impennavo in motorino, a braccio di ferro sapevo farmi valere. Ero anche piuttosto belloccio, ma avevo baciato una donna brutta. E questo mi aveva convertito in rospo.

Continuavo a frequentare le feste nei locali, quando però invitavo una ragazza a ballare ricevevo risposte elusive, no, guarda, ho mal di testa, oppure magari dopo, adesso devo andare in bagno, e poi la sentivo ridere con l’amica: Lo sai chi è quello? È il tipo che ha limonato con la XXX.

A fine maggio andai in gita a Vienna. Non una gita scolastica, era organizzata dal Comune, e così trovai ragazzi che non conoscevo e soprattutto non mi conoscevano. Perlopiù frequentavano il liceo scientifico, mentre io ragioneria. Mi trovavo dunque a un livello gerarchico inferiore – in quegli anni il classico aveva perso molto del suo storico blasone, i figli della borghesia sondriese erano migrati allo scientifico –, ma se non altro non sapevano del fattaccio che mi aveva precipitato nel girone dei superflui.

Mentre stavo discutendo con Fabio se fossero meglio i Genesis o i Pink Floyd, ci accostò una ragazza che come noi si era staccata dal gruppo. Occhi azzurri, capelli lunghi con colpi di sole, camminata neghittosa da ricchi in ciabatte; un po’ in stile Totò ospite nella villa caprese di Franca Valeri, in Totò a colori. Si rivolse a me con il tono di chi offre, non di chi chiede, il roseto di Wolksgarter faceva da cornice. Io mi chiamo Elena disse soltanto. Io Guido, piacere.

Da quel giorno diventammo inseparabili, occupavamo sedili affiancati sul pullman, a pranzo mangiavamo le stesse pietanze, e quando mi indicava qualcosa dalla cima della ruota del Prater, io annuivo col capo mentre pensavo: Ma quanto è bella?! Che mi frega di quel punto lontano, quando ho qui vicino la cosa più bella nell'arco di centinaia di chilometri.

Probabilmente era un’iperbole, ma, se non dell’intera Austria, Elena aveva in effetti fama di essere la ragazza più bella del liceo scientifico, dove frequentava il quarto anno. Aveva tre anni più di me, che a quell’età sono tanti da scalare, e ciò rendeva più fiammeggiante la bandiera da conficcare sulla vetta. Stessa storia del passato, insomma. Solo a meriti invertiti.

Andava avanti così già da un po’, se non erano i miei occhi a cercare i suoi erano i suoi a trovare i miei, nel camminare lungo la Ringstrasse le nostre mani si univano, ma baci ancora niente. Gli altri intanto rosicavano: non andava giù che un collega di Fantozzi, un primino per giunta, se la facesse con Miss Liceo Scientifico Carlo Donegani. Cercarono perfino di passare a vie di fatto, ma alle medie avevo imparato a difendermi: per vanificare la punizione prevista era bastato un thermos di metallo, brandito come il martello di Thor.

Nulla però succedeva nemmeno con Elena, tutta quella bellezza mi intimoriva. Restava l’ultima notte. Ci accordammo per dormire assieme, avevo già preparato il piano d’azione, le cose da dire e il momento in cui tacere e accostare le mie labbra alle sue. Pare che gli sciatori facciano qualcosa di simile: mimano ogni futuro movimento del corpo dentro la testa, prima di varcare il cancelletto di partenza con un colpo di reni.

L'appuntamento era stato fissato alla fatidica mezzanotte. L'ostello viennese aveva una sezione maschile e una femminile, poco male se ci sarebbero stati altri maschi a origliare dai quattro letti a castello presenti nella camera, così la mia rivincita avrebbe fatto più scalpore. Ma che succede? I due accompagnatori, un uomo e una donna, erano probabilmente caduti preda dello stesso sentimento, e sul divano sistemato nel corridoio che divide le due sezioni continuavano a parlare a parlare a parlare.

Erano già le tre di notte, e non si erano ancora dati una mossa. Andò a finire che io passai la notte nel letto a sussurrare con Fabio – il nodo da risolvere era ora diventato: Dalla o Battisti? , il quale aveva fissato un convegno notturno con un’altra ragazza, che a sua volta aveva dormito assieme a Elena. Non so di cosa avessero parlato loro, ma la gara era terminata e lo sciatore rimasto al cancelletto.

Alla mattina il pullman imboccò l’A2 Süd Autobahn verso l’Italia, dove i telegiornali erano passati dalla P38 alla P2, il governo Forlani traballava e si preparava a subentrargli Spadolini, pochi giorni dopo Alfredino Rampi sarebbe scivolato in un pozzo artesiano. Io naturalmente feci tutto il viaggio accanto a Elena, con le cuffiette del Sony ascoltavamo entrambi una canzone di Finardi dal titolo Trappole. Non la rividi più. Nemmeno un bacino sulla guancia quale addio all'arrivo in piazzale Valgoi.

Eppure era comunque accaduto qualcosa. A Sondrio cominciai a essere fermato per strada da ragazzi più grandi di me, addirittura universitari: Ma tu sei quello che si è fatto l'Elena? Ma davvero, come ci sei riuscito? Io dicevo e non dicevo, come il dio di Eraclito mi limitavo ad accennare, lasciavo intendere. A domanda diretta mi affidavo a segni del corpo ed espressioni allusive del viso.

La voce doveva essere nel frattempo arrivata anche alle ragazze, quando andavo alle feste nei locali di paese nessuna più si rifiutava di ballare con me, qualcuna perfino si proponeva. Un’inversione dei ruoli che un po’ mi imbarazzava, ma poi mi dicevo: e quando ti ricapita più? Mi lasciavo allora corteggiare, sedurre, condurre per mano sul materasso. Il rospo era diventato principe.

Fu una breve stagione di baci, che andò a normalizzarsi in parallelo alla mia usurpata fama da play boy. Già alla ripresa scolastica di settembre tutti si erano scordati che io ero quello che a Vienna etc. etc. Così potei finalmente confessare ai miei amici che non era vero niente. Guarda che lo sapevamo già mi risposero, figurati se uno come te…

Uno come me in che senso?

Io intendevo dire che lei, e io, e poi… E cominciai a raccontare da principio tutta la storia, quella che avete appena letto.