Mi ricordo quella parola: solo. Così mi sentivo a
sedici anni, il traghetto mi aveva accompagnato con un lieve ondeggiare fino al
molo di Portoferraio, poi sussurrato arrangiati. Malgrado fossi a piedi non ero sbarcato
dalla scaletta, ma dal portellone insieme ad automobili, motociclette, camper, roulotte, furgoncini con le
mozzarelle, in una baldoria chiassosa che mi faceva sentire meno solo.
Solo. Suona facile e liscio non meno dell'equivalente
anglosassone. Forse per questo, dopo mamma, pizza e vaffanculo, è uno dei primi
termini a essere imparati dagli stranieri. In seguito ripetono le parole
apprese ogni volta che incontrano un italiano, cercando di mostrare
amichevolezza o, meglio, quella complicità un po' ebbra da tavolata
dell'Oktoberfest, anche quando si tratta dell'insulto. Un concetto
apparentemente preciso – o sei con qualcuno o non lo sei – ma a ben vedere
sfuggente, pieno di sfumature e slittamenti. Nel mio caso il significato era
letterale: senza famiglia, amici, neppure conoscenti. Solo, alone, do you
understand?
Pochi mesi prima avevo abbandonato la scuola, era
stato un inverno burrascoso culminato con la fuga da casa. Soliti turbamenti da
adolescenza in provincia e, in fondo, faceva premio con le ragazze atteggiarmi
a James Dean; alla domanda dove abiti rispondevo dopo aver ravvivato il ciuffo:
"Everywhere."
E in effetti così era stato, almeno per un paio di settimane in cui avevo mendicato asilo nelle soffitte di ragazzi a malapena conosciuti, a loro volta gratificati dall'ebbrezza malavitosa di ospitare un fuggitivo. Poi ero tornato a casa con la coda tra le gambe, e una ferita che non rimarginava sul palmo della mano sinistra. Me l'ero fatta cercando di aprire una Ceres alla maniera dei pirati.
Alla fine tutto si era sistemato. Quasi tutto. Grazie
a un lontano parente che lì possedeva un campeggio, ero riuscito a trovare
lavoro come aiuto bagnino a Lacona, dove si tramanda che Napoleone amasse
fermarsi per un pisolino, stendendosi all'ombra di un enorme pino marittimo al
limitare della spiaggia. Ancora adesso lo si può ammirare, è dietro i bagni
dell’albergo Lacona, il luogo in cui lavoravo io. Svetta tra le Mercedes e le
Toyota nel parcheggio, ma tace i sogni del piccolo corso rimasti impigliati ai
suoi aghi.
Ero arrivato ai primi di giugno, e una sera dello
stesso mese decisi di avventurarmi a Marina di Campo in autostop; avevo sentito
di una discoteca da quelle parti, il suo nome era Tamarea. Trovare un passaggio
per Marina di Campo non fu difficile, ma la discoteca non stava proprio lì, e
piuttosto sul promontorio roccioso di Capo di Fonza, tra fichi d'india e
rosmarino selvatico. A piedi dal paese, un'ora circa.
Mi avviai con l'intento di riprendere a fare autostop,
ma il traffico nella stradina che avevo imboccato era ridotto ai minimi
termini. Dopo un quarto d'ora in cui camminavo al buio, quelle quattro lettere
che si ripresentavano a ogni passo, solo, solo, solo, si udì finalmente il
rumore di un’auto. No, era una moto, me lo confermava l'unica luce proiettata
dal fanale anteriore. Luce, un'altra bella parola da insegnare a uno straniero.
Allungai il braccio e quindi il pollice, replicando
l'ago di una bussola che punta sempre al nord della folla, il polo magnetico
del branco, dove cercare i miei coetanei che certamente stavano già ballando al
Tamarea, dimenando i Roy Roger's che avevano preso il posto dei jeans Carrera.
I nostri padri ancora non si erano fatti una ragione che bisognava spendere il
doppio per avere lo stesso, e continuavano a indossare abiti che avevano una
marca (Lebole, Marzotto, nomi che solo a pronunciarli ci facevano ridere) e non
un marchio. Come se bastasse battezzare un vitello e non imprimergli il destino
con il ferro rovente.
Distinguere un giovane da un vecchio, anche di spalle,
era dunque semplice: bastava leggere l'etichetta sui pantaloni. Per il resto,
la serena fiducia che il peggio fosse passato e il meglio sul punto di
dischiudersi, fiorire in una nuova primavera, era la stessa, le generazioni si
rinsaldavano attraverso una cornucopia che eruttava Girelle Motta, villette
geometrili e nuovi canali sul televisore al centro del soggiorno; la mamma ne
aveva uno più piccolo in cucina, da cui fuoriusciva musica sempre più leggera e
venditori di materassi a molle.
Tutte considerazioni postume in quel momento, in cui
l'unica urgenza era sbarazzarmi del termine che mi assillava, insegnarlo a un
olandese, passarlo a un crucco come si faceva ogni volta che si incrociava una
suora: solo, tuo!
Intanto il rombo del motore si avvicinava. Di più, mi
aveva superato. Si trattava di un uomo. A guardare meglio compresi che era un
ragazzo come me, i suoi indumenti erano pieni di etichette alla moda, non
poteva essere un adulto. Che gran bastardo! Nemmeno mi aveva degnato di uno
sguardo, era sfrecciato davanti al mio pollice sulla sua moto da cross. È
allora che sfoderai la terza delle parole italiane che imparano gli stranieri
appena mettono piede in Italia, la cacciai dalla gola dopo aver richiamato dai
polmoni tutto il fiato che avevo. Mi piacerebbe restituirgli un’eco, ma fu solo
uno schiocco isolato nella notte, come una scoreggia sfuggita nella sala
d’attesa di un proctologo.
Si accese a quel punto la lucina rossa del freno, la
moto si fermò, invertì la direzione di marcia e in un attimo fu davanti a me,
con il faro che mi sparava dritto negli occhi. "Sei tu che mi hai gridato
vaffanculo?"
"Vedi molte altre persone in giro?"
L'incipit del dialogo è da film di Sergio Leone, ma
soprattutto il silenzio che seguì. Io sono alto un metro e ottantatre, allora
ero robusto, sportivo, a braccio di ferro il secondo più forte del bar
paninoteca Number One; venivo dopo uno che giocava nella nazionale juniores di
rugby, un Marcantonio che metteva paura solo a vederlo. Pensieri che mi
ronzavano in testa, se fosse un fumetto starebbero nella nuvoletta. Stavo
cercando di caricarmi.
E però, accidenti, anche lui non sembrava messo male…
Sotto la t-shirt a bande orizzontali bianche e blu, da marinaio, ma con
l'aquilotto di Armani ben in vista, si intuivano spalle forti e braccia che
già immaginavo intente alla lotta. Un bookmaker inglese ci avrebbe dato
cinquanta e cinquanta. Una stima a cui doveva essere arrivato anche il mio
avversario, che dopo avermi fissato a lungo – io ovviamente non avevo abbassato
lo sguardo – mi dice: "Che facciamo?"
Mi guardai in giro. A destra c'era un fosso a cui
seguiva un canneto. A sinistra un prato arso, con un olivo solitario al centro.
Sopra, stelle a profusione e una luna quasi piena, a rischiarare il tutto. Con
in sottofondo la risacca del mare e, più lontano e attutito, il tum tum delle
basi elettroniche, mescolate al vociare che proveniva dal Tamarea.
Non male come location per una pubblicità del cornetto
Algida. Mancavano solo le ragazzine con gli zainetti Naj Oleari, di fronte a
cui far bella figura, tenere la parte, mostrarsi il maschio alfa. Ma senza
nessuno a guardare mentre ci prendevamo a pugni, anche se avessi vinto cosa
potevo guadagnarci? E poi è quasi sicuro che avrei rovinato il mio giubbino
Stone Island, mi era costato una settimana di lavoro, dieci ore al giorno di
pedalò da trascinare sulla risacca per fünftausend lire, fünftausend eine stunde.
Il mio tedesco si fermava lì, l'equivalente di mamma pizza vaffanculo.
"Non so..." dico allora con un tono più
conciliante. E lui: "Vabbè, dai, salta su! Ti porto al Tamarea."
Ciò che seguì è pura archeologia dagli anni Ottanta: raffiche di Gin Fizz, luci stroboscopiche, capelli con la sfumatura alta e la Gommina e, finalmente, a tutto volume, le note di Enola Gay e Fade to Grey e Bette Davis Eyes; con Ebony and Ivory di Paul McCartney e Stevie Wonder partiva lo strusciarsi dei corpi abbronzati nei lenti, ma a metà canzone la musica accelerava lasciando un po' spiazzati. E adesso che si fa...?
Nella cornice di quella Polaroid dai colori già un poco
stinti, a restituire, per paradosso, una sensazione ancora più realistica e
quasi commossa, da lapide funeraria, io e il mio nuovo amico (amico, friend, prietene,
amigo, quale meravigliosa parola, comunque tu la traduca!), io e il mio ex
nemico che ridiamo e diciamo sciocchezze a ragazze sfiorate a bordo pista; a
volte ricambiavano, più spesso no. Curiosamente, chi accoglieva l'abboccamento
non capiva la nostra lingua, solo il movimento delle labbra. Somigliava al
bacio di un pesce rosso nell'acquario dei ricordi.
Se dovessi spiegare a una di quelle ragazze ormai
divenute donne, qualcuna già anche nonna, il termine italiano giovinezza, gli
racconterei allora questa storia. In una delle infinite lingue del mondo, o
probabilmente nell’unica che io davvero conosca. La nostalgia.
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