Mi ricordo di una festa pomeridiana nella taverna dei fratelli Mazzera. La villetta stava a pochi chilometri da Sondrio, la raggiunsi in College, un motorino in voga nei primi anni Ottanta. L’avevo acquistato di seconda mano dal figlio di un vetraio, che gli aveva fatto sostituire marmitta e carburatore per rendere più gagliarde le prestazioni.
Di loro avevo sentito molto parlare, venivano nominati
sempre assieme, i Mazzera, come un duo comico o una famiglia circense. Io non
li conoscevo personalmente ma erano in classe con un mio amico, il quale aveva
esteso l'invito alla festa. Il maschio, più vecchio di un paio d’anni, era
stato bocciato un paio di volte, così da ricongiungersi con la sorella. Erano
arrivati da pochi mesi, prima stavano a Roma dove il padre era
dirigente di qualche ente pubblico; delle ombre sulla sua gestione dovevano
però aver portato al trasferimento in provincia. Qui non mancava di rimarcare
uno status superiore, condiviso dai figli.
Lei bionda, tonica, scattante, molto brava nel gioco
della pallamano; lui indossava con ogni clima un giubbetto di renna e degli
occhiali Ray-Ban a goccia, l'abbigliamento dei fascisti, ma non sono certo che
valesse nella circostanza. Più che alla politica sembrava interessato alla sua
Zundapp 125, a cui si dedicava con materna sollecitudine.
Entrambi erano desiderabili e desiderati per unanime
consenso, come tutte le cose che rinunciano alla complessità, riflettendo
l'ambiente che ne ospita le forme tendenti a un piacevole anonimato. Non era
difficile farsi delle fantasie sessuali, specie se si immaginava lui
a cavalcioni della sua Zundapp (il mio College truccato dal figlio del vetraio,
al confronto, era un triciclo) e lei con le braghette attillate da pallamano.
Arrivai alla festa intorno alle 15, scoprendo di
essermi sbagliato: iniziava un’ora dopo. “Entra, entra pure” mi disse cordiale
la variante maschile dei Mazzera; non si era levato i Ray-Ban nemmeno nella
semioscurità della taverna, solcata dai lampi delle luci stroboscopiche. Poi si
diresse nel garage accanto, dove immaginavo fiammeggiare la sua amata creatura,
e mi lasciò con la sorella che stava al centro del locale. Dalle massicce casse
dello stereo fuoriuscivano le note sornione con cui inizia Bette Davis Eyes.
Lei non disse nulla, nemmeno un cenno del capo, quando
al sintetizzatore si unisce la grancassa e poi il basso elettrico cominciò a
muovere i fianchi, quindi ad accompagnare il ritmo della canzone con minimi
scatti del corpo, più che una danza ricordavano le finte a pallamano. Solo al
refrain si avvicinò e, ricalcando con accento romano la voce roca di Kim
Carnes, mi strillò in faccia: “And she'll tease you, she'll unease you, all the
better just to please you…” E dopo avere lascito il suo alito di Big Babol
sulla mia pelle, si girò per continuare la solitaria partita di pallamano.
Probabilmente, nel tempo che seguì, arrivarono gli
ospiti, si stapparono le Ceres, cominciò la festa. Probabilmente. Ma tutto ciò
è scivolato nello scolo dell'oblio, è rimasta solamente l’immagine guizzante
della Mazzera: una divinità pagana che gioca a pallamano con gli effetti di ciò
che proietta (la sfera tiepida che sentivo sgorgare dal mio petto non doveva
esserle nuova, poteva farci quel che voleva e ne era consapevole), mentre il
fratello carezza il sedile morbido della Zundapp.
Forse il ripresentarsi di questa memoria – tra il sonno e la veglia è il momento in cui si manifesta con maggior frequenza – sta a significare qualcosa, è una metafora, una metonimia inconscia, chissà… O forse è la vita a essere così: una rapida serie di finte per spiazzare la difesa, prima che le palpebre calino sugli enormi occhi azzurri di Bette Davies.
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