In uno degli ultimi incontri avvenuti tra Gaber e Jannacci, è quest’ultimo ad avere raccontato l’aneddoto, Gaber disse al figlio di Jannacci: “Guarda che tuo padre quando era giovane era pazzo.” “Io guardai mio figlio Paolo” continua Jannacci”, “e dissi a Giorgio: Io non ero pazzo, ero povero.”
Da alcuni giorni ripenso
spesso all'episodio. Si adatta, quale metafora, a molte situazioni. Ad esempio le sorti politiche del
mondo, sempre più sbilanciate a destra. Sono i poveri, non i ricchi, a votare per
i partiti di destra, che perseguono progetti a loro evidente svantaggio. I poveri
sono pazzi, verrebbe da concludere. No, i poveri sono poveri.
È presente una componente
vitale di pensiero magico nella povertà contemporanea: i poveri sono ricchi
potenziali, il loro diritto di voto viene esercitato per identificazione
proiettiva, come avveniva nell’adesione simbolica a imperatori, papi e faraoni. Ma
anche i ricchi ci appaiono pazzi, infatti – andiamo sempre un po’ a spanne – è proprio
nelle zone a più alto reddito che prevale il consenso per i partiti di
sinistra. I ricchi votano come se fossero poveri e i poveri come se fossero
ricchi.
Se ne ricava che è il mondo a
essere diventato pazzo, e ricchi e poveri agiscono in piena coerenza con tale
diffusa forma di pazzia – ma se è diffusa, ha ragione Jannacci, non è più
pazzia, manca l’elemento di infrazione alla norma che caratterizza la vera
pazzia.
Più che una mancanza di logica in senso
stretto, a caratterizzare i nuovi tempi è l’implosione del principio di realtà,
già che da un punto di vista ana-logico i conti potrebbero anche tornare: i
ricchi ottengono in tal modo ciò che il denaro non può acquistare, ossia la
percezione di essere nella virtù, e i poveri, come abbiamo visto, abitano un
fantasma di ricchezza postdatata, secondo il refrain di Gianni Morandi uno su mille ce la fa. E perché non potrei essere io, si dicono, quell’uno su mille?
Eppure, io continuo
rimpiangere un mondo dove i poveri pensano da poveri, votano da poveri, per
diventare magari un poco più ricchi – benessere è il termine giusto, un concetto diverso dal desiderare di diventare dei Paperon de' Paperoni. Mentre i ricchi fanno banalmente i ricchi,
non impartiscono lezioni di morale ai poveri; se proprio si sentono inclini al bene condividono il loro privilegio, come fece Engels con Marx. Ofelè fa el to mestè, recita un
antico proverbio milanese. E cioè ragazzo di pasticceria occupati di torte e
pasticcini, non allargarti. Ma più in generale: che ognuno faccia la sua parte.
Da questo punto di vista,
preferisco di gran lunga Briatore, un ricco che fa il ricco, a Oscar Farinetti
e ai suoi proclami egualitari, smentiti dalle eccellenze enogastronomiche in vendita da Eataly, a un prezzo più che
triplo rispetto alla merce sugli scaffali del Lidl; ciò è naturalmente più che
legittimo in un regime di libero mercato, ma si imprime quale segno di incoerenza ripulsiva.
Per concludere nella
semplificazione infantile che caratterizza l'intera riflessione, la primaria
occupazione di un ricco (oltre a guadagnare sempre più denaro) dovrebbe essere
quella di prestare attenzione al proprio collo, sapendo che un povero potrebbe
decidere un giorno di posarlo sotto alla lama sghemba di una ghigliottina.
Sono variati i riferimenti: ora abbiamo AD in liquidazione e operai liquidati. Non esattamente alla stessa maniera.
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