Ieri sera ho recuperato su RaiPlay l’intervista integrale a Jovanotti, con cui si chiudeva la fortunata stagione di Belve. Io e Jovanotti abbiamo la stessa età, e credo che molte delle cose dette – e le ha dette bene, tocca riconoscerlo – siano da mettere in relazione alla sua collocazione anagrafica: avere avuto quattordici anni nel 1980 e ventiquattro nel ’90.
Di mezzo ci sta la trasformazione da adolescente
festoso, ridanciano, anche un tantino ignorante e smaccatamente superficiale, a
giovane uomo curioso e aperto al mondo. Lui la giustifica in termini di
marketing: se continuavo a strillare “sei come la mia moto, sei proprio come
me”, il mio pubblico, che nel frattempo era cresciuto, non mi seguiva più.
Io non credo sia questo il punto, ma penso che abbia
ragione nel collocare la metamorfosi in una sorta di fuori, non nella
dimensione interiore che attribuisce agli altri e non a sé, in una disposizione
estrema all’umiltà. Jovanotti, ora più che mai, si manifesta come sorta di
ibrido tra un monaco zen e una canzone dei Velvet Underground: il vuoto è
condizione al riempimento, e solo in seguito può duplicare l'immagine così composta –
“I’ll be your mirror, I reflect what you are…”
In altre parole, Jovanotti è l’emblema dell’artista
popolare; non un intellettuale, non uno che negli anni è cresciuto insieme al suo pubblico, maturato e
magari divenuto un cantautore, come si dice con un termine bislacco che dovrebbe
fare da garanzia di qualità, alla maniera del marchio a fuoco sulle
forme di parmigiano. Le differenze tra l’uomo barbuto attuale e il ragazzetto
glabro, con i jeans dal cavallo basso e il cappellino da baseball sghembo, sono
da attribuire al fiume in cui secondo Eraclito non è possibile bagnarsi due
volte. Ma lui è rimasto ciò che era: uno specchio.
Sono piuttosto gli anni Ottanta a essere
definitivamente tramontati, ed è una proprietà dei molluschi avvinghiarsi alle
rocce; il disc-jockey partito dal Vaticano ha seguito le acque e li ha lasciati
andare, nessuna nostalgia. Nella sua concavità priva di giudizio (ecco la sua
più grande virtù, umana prima ancora che artistica) ha ospitato altre voci che
andavano emergendo, forme, colori. Qualche accusa di qualunquismo ha continuato
ad arrivargli, ma era mal posta: tiratele al mondo, se proprio, le orecchie,
non a chi ne distilla gli umori in suoni e figure, rende fruibile lo Zeitgeist. Nel suo
caso parlerei piuttosto di “chiunquismo”.
Il neologismo lo ricaviamo dall’intervista. “Se Lei
potesse richiamare una persona dalla morte per qualche minuto”, chiede Fagnani,
“chi sarebbe?” “Chiunque” risponde Jovanotti d’istinto, “per domandargli com’è
di là.” Ecco, a Jovanotti, da curioso vero, interessa l’altra parte.
Qualsiasi parte utile a ricomporre il Tutto, a cui di suo aggiunge pochissimo.
Non sorprende dunque il riserbo nel rispondere alla
domanda su un suo presunto e remoto flirt con Valeria Marini. Quel che accade
dentro la sua persona – già che anche lui possiede verosimilmente un dentro –
non ci deve infatti riguardare; chiedete a mia moglie dice più volte,
come se fosse lei la depositaria del vero Lorenzo Cherubini. Ma l’intervista
era a Jovanotti, come a dire tu, tu, tu, e pure tu che stai storcendo il naso… E
naturalmente, Jovanotti c’est moi aussi.
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