sabato 1 aprile 2023

So long


La penultima volta che ho pianto è stata nell'aprile del 1974, da poco compiuti gli anni con otto candeline sulla torta. Mio nonno Alfredo, detto Pinin, mi aveva accompagnato al cinema della parrocchia a vedere L’ultima neve di primavera. Ho pianto come il bambino che ero quando il bambino sullo schermo sale sulla ruota delle giostre – non ricordo se nevicasse nella circostanza, ma il titolo me lo suggerisce – ormai condannato da quello che veniva allora chiamato un brutto male; "Papà sono stanco, sono tanto stanco" sussurra al genitore mentre la platea di ottenni scoppia in lacrime, e i nonni porgono fazzoletti all'odore di lavanda. Per consolarmi, al termine della proiezione, Pinin mi prese uno spumone con la panna montata nella stessa pasticceria dove era stata ordinata la torta di compleanno, la proprietaria era uguale uguale a Moira Orfei. L’ultima volta che ho pianto è stato invece ieri sera. Ho pianto ancora più forte che al cinema, con singhiozzi, lacrimoni, naso che cola e insomma tutto quanto fa di un pianto una rappresentazione di successo. Peccato che non ci fosse lì nessuno a guardarmi, un frignone fa sempre la sua porca figura. Ero da solo a letto e stavo guardano un altro film, o più precisamente il bel documentario di Nick Broomfield intitolato Marianne & Leonard, Words of Love, che racconta la storia d’amore tra Leonard Cohen e Marianne Ihlen nata sull’isola greca di Hydra. Lui parola inquieta, voce da abissi di Lucky Strike, principio maschile che feconda. Lei placida biondità immersa nelle acque calme dell’Egeo, mano che ogni mattina, domeniche incluse, posa un geranio sulla scrivania dove Leonard compone le sue opere, prima di tornare all’ombra di un vecchio fico. Ma a ben vedere faceva moltissimo: accoglieva, conteneva e offriva un argine a quel fiume in piena, consentendo all’impeto creativo del grande poeta di ricomporre il caos del mondo, quindi trasmutarlo in canto. Un momento, non premete subito il grilletto! Non sto dicendo che così deve essere, che il ruolo della donna è di angelo del focolare e non di Presidente o Presidentessa del Consiglio, fate voi. Semplicemente, a Hydra, nell’estate del 1960, questo accadeva. Ma simile a un sogno, di quelli che piacevano tanto a Carl Gustav Jung: l’animus incontra la sua anima e la incorpora, prima di avventurarsi alla conquista dell'ignoto; Hydra come Itaca da cui partire e ritornare di continuo, Marianne come Penelope. Un sogno in cui possiamo leggervi il simbolo anche a ruoli invertiti, secondo il luogo comune (comune, in questo caso, in quanto accomuna, prima ancora che stereotipo svigorito dall'uso) che vede una parte maschile e una femminile in ciascuno di noi. Ho però il sospetto che Leonard Cohen non ne fosse ancora del tutto consapevole, lui di solito così abile a maneggiare i simboli. Perciò, dopo l'iniziale idillio, cerca di smarcarsi, per consegnarsi completamento alla sua arte, senza realizzare che le due cose si riflettono, e più cerchi di allontanarti più ritrovi il vecchio schema con nuovi travestimenti. Una ragnatela, vi fa riferimento nella canzone dedicata alla donna, So Long, Marianne, interna a lui ma che a lei, qualsiasi lei a questo punto, lo conduce, in un'ostinazione che ricorda l'indirizzo di casa. Se ne accorge dopo cinquant’anni, sei dei quali trascorsi in un monastero buddhista, e un altro matrimonio alle spalle oltre a infinite relazioni, quando viene a sapere che Marianne sta morendo consumata da una leucemia, la stessa malattia che condanna il giovane protagonista dell'Ultima neve di primavera. È alla propria anima che allora si rivolge con una lettera giustamente divenuta famosa. "Beh, Marianne" le dice scrivendo alla donna ma, in fondo, chiudendo il cerchio di quel dialogo aperto tra sé e sé, "beh, siamo giunti al tempo in cui siamo talmente vecchi che i nostri corpi cadono a pezzi e penso che molto presto ti seguirò. Sappi che ti sono alle spalle, così vicino che se tendi una mano riuscirai a prendere la mia. E tu sai che ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, ma non ho bisogno di dire altro in proposito perché di questo sai già tutto. Ora però voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica. Amore eterno. Ci si vede più in là…" Un che va preso alla lettera: non cronologicamente, non dopo, ma oltre, in uno spazio accessibile con un po’ di sforzo. Quello, ad esempio, dove un uomo di mezza età incontra un bambino di otto anni. Anche lui ha qualcosa da dirgli: "Beh, giovanotto" attacca con un'ironia che cela imbarazzo ", il nostro pianto ce lo siamo fatti entrambi. Come era lo spumone di Moira Orfei, sempre buono? No, non dirmelo, lo so già. Vedrai quante cose saprai anche tu alla mia età, e saranno più spesso quelle che stanno sotto il naso a sfuggirti. Ma non aspettare un film su Netflix per accorgerti di Marianne, o se preferisci puoi darle un altro nome, quello che più ti piace. Accorgiti. Non cercarla. Lei è già qui, è sempre stata qui. Così vicino che se tendi una mano riuscirai a prendere la mia." "Ma allora Marianne sei tu..." risponde il bambino con gli occhi sgranati. "O forse sono io, siamo noi, la stessa persona dentro infiniti specchi?!" "Non lo so. Non chiederti troppo, l'ho già fatto io e non ha portato a molto. Uno scaffale per ogni cosa, cataloghi, biblioteche. Ogni i con il suo bel puntino sopra, da infilare in un carrello colmo di ciò che chiamavo esperienza, ed era invece solamente consumo. Allunga piuttosto la mano, allunga quella piccola mano, dai... E adesso stringi forte!"

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