giovedì 24 novembre 2022

Un fascista che odiava il formaggio, o sull'ambiguità romanzesca

La filosofa e scrittrice Michela Marzano ha vinto il premio Mondello con il romanzo Stirpe, in cui narra la scoperta dell'adesione al fascismo da parte del nonno paterno. Una conoscenza tardiva, frutto della rimozione familiare che porta a traumi successivi: quello di non diventare madre, innanzitutto, confessa in un' intervista a Più libri più liberi di Repubblica, temendo di trasferire al figlio quella cattiva radice. Le parole testuali sono le seguenti:

"Il mio vero dovere era raccontare la mia storia, sciogliere la mia vergogna. Quella che mi ha impedito di diventare mamma. Perché il punto di partenza è quello, avevo tanta vergogna, talmente tanta da pensare di non avere il diritto di far nascere un bambino o una bambina, perché avrei trasmesso qualcosa di sbagliato.”

Lo studioso di letteratura Stefano Brugnolo ha offerto a queste parole un bel commento, concentrandosi sull'uso delle strategie espressive dell'iperbole e della prosopopea. È curioso, conclude, che quasi nessuno più scriva (o dichiari di scrivere) romanzi solo per il piacere di farlo; "per raccontarsi, essere letti, comperati, venduti, conosciuti. Perché magari così si vincono dei premi..." No, lo si fa per vero dovere, o in alternativa mossi da un'urgenza, o da una necessità. Due termini che ricorrono di frequente nelle dichiarazioni di intenti degli scrittori.

Alle acute considerazioni di Brugnolo che come me non ha letto il romanzo, ho voglia di aggiungere (non per dovere, non per necessità  solo voglia) una sensazione quasi pittorica ricavata dalla lettura dell'intervista a Marzano. Quella dell'univocità prospettica. 

Ma forse è più chiaro se mi spiego richiamando una vicenda biografica speculare. Anche mio nonno era infatti fascista. Dopo l'8 settembre del 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana con il ruolo di Capitano degli Arditi della Folgore, che guidò in molte missioni di cui non ha mai amato parlare; il poco che so lo ricavo da ricerche storiche personali, o da parole sfuggite a mezza bocca dalla nonna. Tra queste contrastare – e cioè uccidere, sgombriamo il campo anche dagli eufemismi – le formazioni partigiane in Val d'Ossola. Nulla di cui essere orgoglioso come nipote, insomma.

Eppure non mi sentirei mai di attribuire a lui, Alfredo, detto Pinin perché più piccolo dei fratelli per età e statura, la mia attuale mancanza di figli. C'è piuttosto un episodio che amo ricordare. Al termine della guerra venne incarcerato: dapprima a Pisa, dove vide Ezra Pound pendere nella sua gabbietta come un canarino muto, poi assieme a Dino Grandi, ugualmente laconico temendo in mio nonno una spia, e infine con un poveraccio di cui conosco solo un dettaglio: adorava il formaggio, in particolare il gorgonzola.

Mio nonno odiava invece il gorgonzola, e più in generale era allergico ai formaggi. Sua moglie, mia nonna, non capiva: perché diavolo mi chiede sempre del gorgonzola? Non preoccuparti, ho tutto, sto bene, le diceva. Ma portami del gorgonzola. Alla fine ammise che non era destinato a lui. Nessuno andava mai a trovare il suo compagno di cella e, a questo modo, gli sembrava di offrirgli consolazione. Nella forma di una fetta di gorgonzola che saturava l’aria della sala visite di San Vittore.

Nei libri di storia l'adesione al fascismo di mio nonno non troverebbe alcuna giustificazione. Va bene così, nessuna attenuante. Si combatteva e, a volte, si moriva dalla parte sbagliata. Punto. Ma, in quello spazio diverso e ambiguo che è il romanzo, mio nonno è sia la feroce guida ai rastrellamenti dei partigiani, sia l'uomo mite che io ho conosciuto da vecchio – ogni volta che avevo il raffreddore accorreva con le aspirine e un albo di Topolino –, e ancor prima chiedeva alla moglie dell'odiato formaggio per il suo compagno di cella. Per me niente, grazie. Sto bene.

Compie una simile operazione Giorgio Gaber quando canta di uno zio fascista. Non c'è alcuna univocità nella sua voce, nessuna assoluzione – il fascismo è quella merda che conosciamo – ma piuttosto la comprensione che l'umano è tanto più grande delle ideologie con cui si cerca di racchiuderlo, più grande perfino della provvisorietà dei gesti, che vengono smentiti da altri gesti. Gaber ci mette il suo tempo per dirlo, riporto il testo nella sua completezza perché a ogni tentativo di taglio mi sembrava di ferire una creatura viva e integra, che si rifiuta di offrirsi in parti:

"Caro vecchio zio fascista

È vero che avete fatto un bel casino

Ricordo dai racconti di mia madre

Che sei andato a Roma a piedi, da Milano

A istinto io ti ho sempre giudicato

Come uno che si accende e non ragiona

E ho fatto un po' di facile ironia

Senza capire mai la tua persona

Direi che eri un po' stupido e felice

Coerente con l'immagine del duce

A ventun anni avevi già una figlia

La guerra tutta tua e l'idea della famiglia

Ai tempi in cui cadevano le bombe

Mostravi con orgoglio il tuo coraggio

Eppure ti piaceva l'aria fresca

Delle mattine limpide di maggio

L'uomo è quasi sempre meglio

Rispetto alla propria ideologia

Ricordo quella volta che piangevi

E quanto stavi male per la zia

Del resto il segreto del fascismo

È nel simbolo del fascio littoriale

E appena un fascettino si è staccato

Svanisce la sua forza criminale

Caro vecchio zio fascista

A vederti innaffiare le tue rose

Ancora non mi entra nella testa

Come hai potuto fare certe cose

Sorridi accarezzando i tuoi nipoti

Con una commozione così vera

Hai sempre avuto il cuore troppo tenero

E la testa troppo dura

Negli uomini politici di oggi

C'è come un grosso salto di statura

Ma c'hanno ancora il cuore troppo tenero

E la testa troppo dura."

Nelle parole di Marzano il mondo torna invece a separarsi tra bene e male, giusto e sbagliato, trauma e guarigione. Oltre che scrittrice lei è anche o, forse, soprattutto filosofa, e in questo diverso ruolo la ricerca definitoria di chiarezza mi appare legittima. Chiaro netto e senza ombre. Ma se ci muoviamo verso o territori incerti delle letteratura, la sua dichiarazioni di intenti, come nel caso di Stefano Brugnolo, mi ha fatto passare la voglia di sfogliare le pagine del romanzo. Per dare avvio a quel gesto antico ci vuole infatti l'et et, non l'aut aut. E un po' di puzza di gorgonzola, perfino se sei allergico al formaggio.

(PS - Senza neppure bisogno di processo, mio nonno fu prosciolto dalle accuse per cui fu incarcerato al termine della guerra. Ci tengo ad aggiungerlo. Sono nipote di un fascista, non di un criminale di guerra.)

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