lunedì 7 novembre 2022

La lingua delle spose, o sul perché non leggerete più miei commenti su Facebook

Ormai sono diventato bravo: quando pubblico qualcosa su Facebook sono in grado di anticipare le reazioni; uno statistico direbbe che il mio livello di confidenza supera l'80%, che è come a dire che ci piglio.

La settimana scorsa, ad esempio, ho postato una scemezuola breve e satirica, quasi una barzelletta. Mi attendevo tra i quindici e i venti like (di più no, perché mancava l'elemento sentimentale) e venti sono arrivati. Due giorni fa ho scritto invece un testo più lungo e analitico, diciamo pure filosofico, denso, e proprio per questo sapevo che a malapena avrei raggiunto i cinque like. Ne sono arrivati tre.

Da principio mi sentivo orgoglioso per queste mie facoltà quasi profetiche, ma poi è subentrato un dubbio sotto forma di paragone. Ho pensato a un bambino di sei anni: ogni volta che dice delle cose intelligenti viene messo in castigo, a letto senza cena e tivù. E guai se protesti! Mentre se il bambino scoreggia, rutta, versa le fialette puzzolenti sotto il banco dei compagni, viene premiato con un bel 10 sul diario dei Pokémon. Per non dire di quando torna a casa sporco di merda, ed è tutta una festa di complimenti e regalini.

Ma crescendo, continuavo a pensare, che uomo diventerà? Scemo, quasi certamente. E così io, quando nuoto in una boccia di vetro che talvolta confondo con l'oceano, che pesce sto diventando? Un delfino... Non credo. Più facilmente un'acciuga, di quelle piccole piccole che si muovono solo in banchi.

Non mi permetto di rispondere alla stessa domanda per voi, ma questo tipo di interazioni sui social  da acciughe, da calamari giganti e burloni o da esibizionisti sentimentali, che invece del pisello fanno sgusciare dall'impermeabile un gattino arruffato  a me non fanno bene. Non dico che ogni rapporto dovrebbe rendermi diverso e migliore: ma peggiore no, e che cavolo! Un po' di bellezza ci sarà pure, ancora, da qualche parte.

Da quando ho iniziato a perdere i capelli e non sono più il quindicenne orgoglioso di essere considerato il più bello della classe, ho cominciato a cercarla fuori di me. Ma di nuovo: è bellezza, intelligenza, vita, entrare in una relazione verbale con i post che leggo su Facebook, dove le scrittrici depongono un cuoricino se a scrivergli sono altre scrittrici, mentre gli altri vengono puntualmente ignorati in assenza di pedigree?

Amichettismo lo chiama il mio amico Fulvio Abbate. Salvo poi vedere anche lui affannarsi e sbracciare controcorrente, forse i salmoni devono sollevare un sacco di spruzzi prima di trovare un'insenatura dove l'acqua è calma e ospitali le rive, e lì deporre le uova. Quanti pesci per un così piccolo mare.

Torniamo allora alla mia pozzanghera defilata, e al fantasma della bellezza. Non ne trovo, di bellezza, nemmeno nel dialogare con chi commenta ciò che scrivo: il mezzo è quello che è, non consente un approfondimento vero, scarti laterali, impennate del ragionamento o della fantasia. Solo un'orizzontalità fatua in cui finisco col dissipare il mio tempo, quando l'illusione di un talento da coltivare è già svanita da un pezzo.

Ho così deciso di non commentare più ciò che leggo sulle bacheche degli altri, e, per disposizione simmetrica, mi comporterò allo stesso modo anche con i commenti che trovo in calce ai miei post. Non risponderò pubblicamente, almeno.

Nella lingue semitiche, nel sanscrito e nel greco antico, oltre al plurale e al singolare esiste una coniugazione duale. Possiamo vederla alla maniera di uno spazio intermedio tra il singolo e i molti, come quello che nella religione cattolica il fedele si ritaglia quando abbandona il piedicroce per entrare nella penombra del confessionale.

Non credo che l'ammissione dei propri peccati sia tanto importante, quanto il fatto che si è in due; per chi ci crede, l'altro è il sostituto nientemeno che di Dio. Ma potrebbe pure essere il portaborse di Manitù, o semplicemente sé stesso: un prete, un uomo di fronte a un altro uomo, per fare brillare la scintilla che accende il fuoco del racconto.

Se volete comunicare con me scrivetemi dunque in privato, magari potete usare Messanger. So a malapena qualche parola di greco antico ma possiamo inventarci il duale anche parlando in italiano. Sì, parlando, perché risponderò lasciando il mio numero di telefono.

Se non siete d'accordo con qualcosa che ho scritto ci confronteremo, potremmo anche arrivare a litigare, ma senza insultarci come avviene quando non ci si mette la faccia, in una replica testuale degli automobilisti che fanno le corna quando i finestrini sono sollevati, le portiere ben chiuse. Oppure potremmo incontrarci, perché no. A me farebbe piacere. Mi sento solo e vagamente depresso; o perlomeno è quanto sta scritto sulle ricette per gli psicofarmaci.

Potremmo potremmo... massì, potremmo perfino innamorarci. Quando si gioca al facciamo finta che spariamole grosse! In questo possiedo ancora dei limiti culturali: sono un banalissimo eterosessuale di mezza età, non sono queer, fluido. Ma se nessuno è perfetto cambiare è sempre possibile.

Cambiare in meglio, l'ho già scritto, è difficoltoso, ammetto i miei limiti. Ma i social mi rendono una persona peggiore, e fatemelo dire senza alcuna intenzione offensiva: anche voi non siete messi tanto bene. Specie quando come prima cosa che fate al risveglio è ritrovare a tentoni lo smartphone, con cui condividere la fondamentale esperienza appena fatta. Dormire. Quindi specificare se il cuscino era morbido o duro, cosa avete mangiato la sera, pisciato, cacato. Oppure sognato, ammesso che sogniate ancora.

Io ho smesso di farlo. Non sogno più. Ma sono tutte cose che racconterò ai margini dello sguardo, qui ci sono troppi occhi, ne bastano due. Più i miei un po' acciaccati che fanno quattro. Almeno se qualcuno vorrà ascoltarmi e raccontarmi dei suoi sogni o non sogni, baci o non baci, non o non. Perché un cazzo di sì, pronunciato a piena bocca e con convinzione, come quello di una sposa sull'altare, su Facebook non l'ho ancora sentito.

(Testo pubblicato in originale su Facebook il 6 novembre 2022)

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