sabato 5 novembre 2022

Scienza e teologia, inaspettate convergenze

 


La storia degli ultimi anni somiglia sempre più a un film distopico. E bon, è la nostra storia, siamo, come direbbe un filosofo barbuto e pensoso, situati in un luogo e in un tempo definiti, con cui è necessario confrontarci.

Quando sul capo ci è cascata anche la tegola della pandemia e la scienza medica ha prontamente realizzato dei vaccini, il mio giudizio è stato immediatamente favorevole: questo rimedio abbiamo trovato, l'abbiamo messo a punto qui, ora, nell'emergenza quale incrocio terroso tra desiderio e possibile. 
E questo useremo. Alternative sensate non ne vedevo.

Ma non mi sfugge che gli attuali vaccini, se osservati da un'immaginaria prospettiva dislocata in un tempo ulteriore, bastano poche decine di anni, forse meno, ci appariranno come arcaici, e guarderemo agli intrugli che accorrevamo a farci iniettare come oggi guardiamo ai salassi, nel medioevo panacea per ogni male.

Più in generale, un vaccino è un farmaco, che nella lingua greca da cui il termine deriva (Φάρμακον) ha significato sia di medicamento sia di veleno. Dunque alcune – e bada bene solo alcune! – delle tonitruanti obiezioni no vax potrebbero trovare quel giorno fondamento, per quanto statisticamente limitate da un'affidabile sperimentazione.

Ciò che a emergenza attenuata comincio a trovare stucchevole è il continuo riferirsi ai vaccini come scienza tout court: la scienza dice questo, la scienza dice quest'altro... Quando a parlare sono esseri umani anche loro affacciati alla finestra del loro tempo, dal quale si sporgono, come il muezzin, per strillare una versione nemmeno troppo aggiornata del positivismo ottocentesco.

Eppure, ripeto, da persona totalmente favorevole ai vaccini, mi sorprende che nessuno obietti alle trionfali dichiarazioni di fiducia nelle magnifiche sorti e progressive con una domanda semplice semplice: di che scienza stiamo parlando?

Perché di scienze ce ne sono perlomeno due, che da medesimi presupposti (il metodo) giungono a esisti antitetici. Non sto dicendo che l'omogeneità rappresenti un bene assoluto, e anzi, in una certa misura, è dal conflitto che sono venute molte importanti scoperte e innovazioni; o se vogliamo e in forma più attenuata: dalla dialettica tra pensieri divergenti.

Nell'ultimo secolo è però avvenuto qualcosa di nuovo. Parte del pensiero scientifico ha fatto proprio un modello relazionale di conoscenza, dove osservatore e oggetto osservato non sono mai completamente separabili, e chi conosce interferisce nel processo di conoscenza.

Il principio di indeterminazione di Heisenberg, a cui si giunge dopo un lungo e scrupoloso studio delle particelle subatomiche, è sopravvissuto a numerose verifiche sperimentali, e con ragionevole fiducia possiamo ora affermare che l'esito dell'esperimento, come la bellezza per Shakespeare, sta negli occhi di chi guarda. Almeno se parliamo della realtà ai suoi minimi osservabili t
ermini.

Da ciò si ricava una responsabilità anche morale dell'atto conoscitivo, che non è mai neutro e in un certo senso va a smentire la celebre sentenza attribuita ad Aristotele: "amicus Plato sed magis amica veritas". Macché, è esattamente il contrario: per la fisica prima si dà l'amicizia (ossia la relazione) e poi, quale conseguenza, la verità.

Ci sono però altre branche del sapere scientifico che non la pensano così, e sono rimaste a una percezione della verità del tutto disgiunta dall'amicizia, come era per Aristotele. È il caso appunto della medicina, dove si continua a ragionare secondo categorie aristoteliche o, se si preferisce, newtoniane: c'è il paziente, la malattia e poi ci sono il medico e la cura, tra cui quella preventiva costituita dai vaccini. Ma rimangono elementi distinti e oggettivabili, facendo della medicina l'espressione di un pensiero filosofico duale.

Una lacerazione implicita, mai davvero messa seriamente a tema già che una soluzione non si offre, almeno nel presente, tra la polarizzazione funzionale alla conoscenza medica e il monismo quantistico. Curiosamente riflette il percorso teologico occidentale: dalla pluralità degli dèi si passa all'unico Dio di Israele, che comunque incarna un'alterità assoluta, pure un poco incazzosa. Di nuovo c'è Dio e poi ci sono gli uomini, e malgrado il patto di alleanza rimangono ben distinti da cieli difesi da una corte di angeli.

È solamente con il cristianesimo che il confine certo tra Padre e Figlio comincia a incrinarsi, e l'identità viene riconfigurata in forma trinitaria; dove il Figlio siamo potenzialmente tutti noi e la trinità la spoletta che ci unisce alla sorgente paterna, da ricercare all'interno di una nuova soggettività espansa, più tardi con Jung prenderà il nome di . Ma già Agostino ammoniva: "in interiore homine habitat veritas".

E chissà allora che anche la medicina, prima o poi, non cominci a cercare una verità interiore, da accompagnare all'orizzontalità incarnata qual è l'amicizia tra uomo e uomo; ma pure nei confronti di animali, piante, universo intero. E non solo puntando lo sguardo, amplificato da strumenti micro e macroscopici sempre più potenti, a qualcosa che appare esterno, nella prateria oltre la cornice della porta, come cowboy protesi nel raggiungere una frontiera
 che sembra non arrivare mai. Senza il dubbio dei folli, o dei fanciulli, che sia da sempre già varcata.

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