venerdì 25 novembre 2022

Nomi, o su voce e pensiero

Attenzione: questo è un meta post. Siete ancora in tempo per interrompere la lettura. Se proseguite vi assumete la responsabilità di immergervi in uno spazio anteriore al pensiero. Uno spazio privato da cui spalanco le porte, avanti! Chi c'è c'è e chi non c'è non c'è. Eccovi dunque, ben trovati, potete sedervi o rimanere in piedi, a vostra discrezione. Mentre guadagno il centro e con spavalda incoscienza affermo: Jessica è il nome femminile più butto del mondo. Ma anche Samantha e Chantal e la sua variante, forse ancora più pretenziosa, Chanel, come una delle due figlie di Francesco Totti; l'altra si chiama Isabel che è pure un poco da parvenu, ma se ti trasferisci in un fotoromanzo fai sempre la tua porca figura. Della stessa famiglia erano in corsa per la maglia nera anche Ilary e sua sorella Melory. Un tempo, quando ero bambino negli anni Settanta, la bruttezza dei nomi femminili era riferibile a Genoveffa, Asdrubala e Pinella. Oppure Abelarda, c’era un fumetto, protagonista una nonna forzuta, che titolava così. Ma Abelarda a me appare un diamante grezzo rispetto a Chantal. Sul versante maschile, Adolfo, che a me piace ricordandomi Adolfo Celi, e Benito che pure non è malaccio – il mio meccanico si chiamava così –, per ragioni politiche sono diventati inservibili. Guido, il mio nome, mantiene un certo allure aristocratico solo in Toscana, mentre nel nord Italia è diventato un nome da sagrestani e scemi del villaggio. Se poi aggiungiamo il cognome, con Gabriel Garko si compie il capolavoro onomastico del kitsch. Molto belli invece Mimì, Zazà, Lulù, Gegè, Dudù e in genere tutti quei nomi tronchi e bisillabi di simmetrica composizione. Spopolano nell’aristocrazia napoletana decaduta che acquista pochette e foulard da Marinella; altro bel nome, per inciso. Funzionano molto bene anche con i cani, specie i barboncini, quello di Berlusconi porta uno dei nomi suddetti; per offrirvi un aiutino dirò che era il nomignolo di Raffaele La Capria. Il mio cane si chiama invece Mela, da Carmela, che pure mi piace. E poi tutti i meravigliosi nomi popolari presenti nelle canzoni di Jannacci: l’Armando, Mario, Vincenzina, Giovanni telegrafista e Veronica, il primo amore di via Canonica con cui fare l’amore al Carcano – in pè! (per chi non conosce il dialetto milanese, in piedi). Intanto, il suo amico Giorgio Gaber si scusava nel pronunciare il nome di entrambe le mie nonne: “chiedo scusa se parlo ancora di Maria”. Maria Maddalena, Maria Brasca, Mariù, parlami d'amore, sì, senza dimenticare Maria Giovanna Elmi, la fatina bionda che annunciava l’inizio di Sandokan dal monoscopio di televisori che avevano appena acquistato colore; era il 1976 e io mi ero innamorato di lei, dopo una breve sbandata per la Perla di Labuan. L'attrice che la interpretava si chiamava come il Papa, ma quello che è venuto due anni dopo: le discese sulle piste delle Dolomiti con gli sci, le immagini paparazzate in piscina, da Paparazzo, formidabile invenzione nominale di Fellini, "non abbiate paura" furono le prime parole pronunciate dal balcone di San Pietro; un'esortazione che in coppia con Tony Manero – questo sì che è un nome! – mette il sigillo conclusivo agli anni di piombo. Per tornare alle canzoni, c'è chi il nome se lo cambia passando dalle stelle alle stalle: "ti chiami Ines, ma adesso / il nome che porti è Judith" (Paolo Conte). Quindi la bellezza di Anna, Silvia, Lia, Rosa, Sara, Susanna, Chiara, Lucia, il nome della santa che si prende cura degli occhi. Vanessa mi appariva altisonante e fatuo – lo mettevo al livello di Moira e Moana, peggio ancora riesce a fare solo Asia – ma poi ho conosciuto una ragazza che si chiamava così e mi è venuto a piacere. Stesso discorso per Jeanette: lei era svedese e bellissima, il nome però francese. Se sei svedese per me puoi chiamarti come ti pare; ma, quando nata a Ladispoli, Jeanette continua a farmi un po’ sorridere. Dai, chiamati Giovannina e non farne tante. E cosa dire di Carla... Niente in contrario, intendiamoci: nome schietto, germanico; se non fosse che il suo significato è uomo – primo esempio di pensiero queer, dunque – e viene pronunciato nel paese delle vocali, con tutte quelle consonanti che frenano il canto e minacciano lo spirito. E Valentina anche no, grazie, abbiamo già dato, il nome femminile più inflazionato degli ultimi vent'anni, che si accompagna al riflusso maschile dei nomi degli evangelisti e dell'apostolo grullo, quel Pietro a cui bisognava rispiegare ogni volta le cose. Ma perché io invece le dico solamente, butto lì un po' a casaccio ciò che mi passa per la testa? Per farvi perdere tempo, semplice. Avrei potuto trascrivere le mie parole su un diario personale – in effetti davvero penso che Jessica sia un nome orrendo – su cui magari tornare in seguito per riorganizzarle, strutturarle, valutare se queste propensioni nominali possiedono qualcosa di significativo. E invece no: fuori tutto, tutto e subito. Riportiamo la mente a luogo spoglio del possibile. Utilizzo, insomma, come tutti, il web in forma di deiezione. Convertendo il principio del pensiero in voce, la sua scaturigine gocciolante in oceano che non esiste, se non nella fantasia. Per diventare navigabile avrei dovuto far decantare lo slancio verbale, come si fa con certi distillati. L’esercizio che mi impongo è allora quello di provare a distinguere tra voce e pensiero. Di farlo in tutto ciò che scrivo, intendo. Madame Bovary c’est moi. Peccato solo che sia passata alla storia con il cognome del marito, quando anche il suo nome ha tutta la mia deliziata ammirazione. Emma. Di farlo in ciò che scrivo ma anche in ciò che leggo. Se fossi un bookmaker londinese, darei alla vittoria della voce sul pensiero un ampio margine di probabilità.

Nessun commento:

Posta un commento