martedì 4 maggio 2021

Io sono un artista e dico quello che voglio, o sul perché Monsieur Fedez c'est nous

 


Dal palco del concerto del primo maggio, Fedez ha pronunciato parole condivisibili sui diritti degli omosessuali, di più: sacrosante. Mi ha però un po' inquietato, nella registrazione da lui effettuata della telefonata con i dirigenti Rai, sentirlo affermare: "Io sono un artista e dico quello che voglio, ha capito!"

Un'inquietudine che si è precisata con la memoria di una vecchia intervista a Pierpaolo Pasolini, in cui Enzo Biagi lo invitava a fare lo stesso. "No, non posso dire ciò che voglio in televisione" rispose Pasolini. "Non posso perché c'è la censura (e nel 1971, dentro la RAI diretta da Ettore Bernabei, la censura non era solo una parolina frivola strillata da un rapper incavolato), ma anche se non ci fosse sarei io ad auto censurarmi, per rispetto dello spettatore medio che non capirebbe."

Essere un artista, ci comunica Pasolini, non significa dunque dire quello che si vuole ma interagire con i contesti, sapendoli prima riconoscere e poi eventualmente plasmare, per renderli compatibili alla propria voce. Tutto ciò nella consapevolezza che l'interlocutore è sempre situato, ossia diverso da noi e, da quella differenza, deve muovere la comunicazione, non per compiacerla ma per porsi in una dialettica virtuosa.

Da qui il dubbio che sotto l'unanimità del consenso ottenuto da Fedez – le frasi da lui citate sono tristemente reali, "se avessi un figlio omosessuale lo brucerei" e schifezze del genere, che meritano una ripulsa severa e appassionata, come fatto dal cantante  , sotto si agiti un tema ancora più decisivo, che può essere sintetizzato in una domanda: perché a dirmi quelle cose giuste deve essere proprio l'artista Fedez e non, mettiamo, gli artisti Daniele Sepe o Riccardo Tesi o Rita Marcotulli o Nicola Piovani, ben più capaci come musicisti ma non invitati al concerto del primo maggio?

Perché vende un numero maggiore di dischi, mi sembra ovvio. Ne ricavo che la legittimità a stare su quel palco a denunciare quanto siano ignobili le dichiarazioni di alcuni politici leghisti (ma ne basterebbe uno, uno soltanto perché siano troppi), deriva da aspetti quantitativi più che qualitativi, o come si dice ora dal fatto che Fedez sia un influencer, aggiornamento della nozione latina di auctoritas. In altre parole, l'arte grazie a cui il suo dire verrebbe sottratto a ogni limite formale, è tutt'altro che libera e recalcitrante ogni sovranità che non sia quella delle muse, ma ricalcata dalle gerarchie che sono espressione di un ordine simbolico e materiale già individuato da Pasolini, lui lo chiamava "nuovo fascismo".

Allora era solo una cantilena spensierata che sgusciava dai juke box, stavano alla parete di baretti di periferia in cui venivi accolto dalla locandina metallica dei gelati Eldorado, musica leggera, anzi, leggerissima, a sussurrare nel refrain: tutto è possibile, tutto è consentito, tutto e subito.

Negli anni, quella canzone ha però guadagnato un'evidenza spettacolare e chiassosa, convertibile a stretto giro in moneta. Ed è nuovamente una questione di auctoritas, l'auctoritas economico-spettacolare che rende il bel musino di Fedez perfetto testimonial di Amazon, società che si distingue per mancanza di attenzione e rispetto nei confronti degli elementari diritti dei propri dipendenti; ed è utile ricordare che tutto è partito da un concerto che dovrebbe invece celebrarli, quei diritti.

Ma se allarghiamo l'inquadratura, vediamo che è la stessa auctoritas grazie a cui Miguel Bosè può dire ciò che dice sul Covid, immediatamente ripreso dalle principali emittenti pubbliche, poco importa se per smentirlo o riverirlo, quando è comunque in atto una dinamica di riconoscimento e cooptazione dei salvati, per usare la metafora di Primo Levi, lasciando ai sommersi analoghi pensieri di gramigna con cui infestare i social network. In fondo anch'egli è un artista e dice ciò che vuole, ci mancherebbe, anche che la terra è piatta e Ugo Tognazzi era il capo delle BR.

Se ne ricava che l'artista è oggi ben lontano dal ruolo critico che si assegnava Pasolini: una forza che viene dal passato, dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d'altare; una forza ma a ben vedere anche una fragilità, antagonista perdente a ogni forma di potere; e ciò anche quando quel potere sia soft, light, senza glutine o grassi saturi, a scivolare in gola senza i sussulti provocati dall'olio di ricino. Basta una strisciata di Bancomat e un'alzata di spalle, che diviene ruggito solo in favore di camera.

Ed è quanto fa l'artista Fedez, l'artista Bosè, l'artista emblema di questo tempo da fustigare pubblicamente, ma a un centimetro dal nemico trasforma lo schiaffo in carezza, divenendo il custode di tavole della legge rimaste in bianco, il guardiano di una soglia per definizione sempre aperta, anche la domenica e i festivi (vieni, entra, compra!), secondo lo schema carnevalesco per cui la trasgressione rappresenta la glorificazione del limite.

Ma non vale nemmeno prendersela con il prima povero, censurato, e poi eroico Fedez, quando è una caratteristica generale della postmodernità: non importa se ce l'hai fatta a guadagnare il cono di luce dei riflettori, ci sentiamo tutti degli artisti, dei creativi la cui opinione è imperdibile, vitale per il mondo, richiesta dall'universo. E rivendichiamo così il diritto a dire/fare sempre tutto quel che vogliamo, senza alcuna auctoritas a limitare il nostro slancio infantile. Perché io sono un artista e dico quello che voglio, ha capito!

 

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