Rula Jebreal, all'ultimo momento, declina l'invito a Propaganda Live, aggiungendo quale lapidaria motivazione che
sarebbe stata l'unica ospite femminile. Nella circostanza, ha perfettamente
ragione. Resta da capire se essere l'unica donna intervistata in una
trasmissione televisiva sia espressione di discriminazione sessista, come da
lei adombrato, di più, condannato, o di qualcos'altro, come io sono portato a
credere anche solo perché mi piacciono i percorsi tortuosi, arrivare alla meta
in funivia mi annoia un poco.
Ne ritrovo traccia, di questo qualcos'altro, nella balbettante
giustificazione di Diego Bianchi all'inizio del programma, e in particolare nel
passaggio in cui spiega che il suo modo di fare televisione nasce da un
rapporto tra amici, per pura combinazione (aggiunge) sono tutti maschi.
Io non credo che sia davvero una "pura combinazione", quando il
genere, spesso, se non proprio sempre, rappresenta un elemento decisivo nelle
dinamiche di rispecchiamento dell'amicizia, in special modo di quella vagamente
cameratesca e provinciale da baretto di Tor Bella Monaca, genius loci di tutte le trasmissioni da lui condotte.
In tale complicità tra maschi rispettosa fin che si vuole della controparte
femminile – Bianchi e i suoi maschi-amici non fanno del cat calling, insomma –, Propaganda
Live ha trovato la sua misura e il suo successo, rilanciando i giochi di
sponda, gli ammiccamenti e l'empatia del baretto di cui sopra, grazie al quale
ha saputo restituire un clima di familiarità ruspante difficilmente ritrovabile
in altre trasmissioni. Ma familiarità tra maschi, appunto.
Se a Rula Jebreal sta stretta l'atmosfera complice degli amici di Bianchi,
quel bonario darsi di gomito accompagnato da annamo, famo, daje, ha fatto benissimo a declinare
l'invito per dedicarsi a salotti televisivi più internazionali e forbiti, dove
la composizione degli ospiti viene pesata col bilancino ormonale: tre donne
qui, tre uomini là, e già che ci siamo anche un diversamente cresciuto, un
tempo e ignobilmente detto nano. È un suo diritto, forse perfino dovere:
essere sé stessa fino in fondo, come lo è Diego Bianchi avvolto nelle t-shirt nere stampate.
Ma io eviterei di estendere al mondo
questo personale sentire, con il ditino puntato a discriminare vittime da carnefici, buoni da cattivi. Quello stesso sentire che le ha fatto accettare l’invito
a un'altra trasmissione, salire su un palco pieno di fiori, rose senza spine né profumo, accanto un bel mare dove navigano barche piccole piccole, come
cantava Francesco De Gregori ironizzando sul Festival di Sanremo. Perché altrimenti diventano piccole anche le sue
parole, diventano false.
Basterebbe ricordare che l’amicizia non è solo un fatto maschile, anche
quando diviene pubblica. Serena Dandini aveva fatto televisione con le sue
amiche, si chiamava La tivù delle ragazze, mentre Bianchi fa la tivù de li ragazzi de 'sta
Roma bbella, ognuno faccia la tivù che gli pare, che non vuole dire essere
sessisti ma semplicemente situati,
direbbe una filosofa femminista. E cioè in un rapporto storico e incarnato con le cose
che precede la verità sopra di esse.
A ben vedere, il tratto della tarda modernità consiste in un mutamento di
segno della celebre frase attribuita ad Aristotele: Amicus Plato, sed
magis amica veritas. Nell'oblio progressivo della Verità con la v
maiuscola diviene vero il contrario, e la piccola verità a cui abbiamo accesso
è quella dell'amicizia e della relazione, del sentire prima ancora del
concepire.
In fondo lo spettatore ha il telecomando, può anch'egli indirizzarsi dove
si sente meglio, trovare il proprio baretto nell'infinito palinsesto mediatico,
i propri amici virtuali. E la Jebreal ha bellissime gambe con cui sfuggire da
contesti in cui non si riconosce, più discutibile quando afferma che lì non
venga riconosciuta. E amen.
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