sabato 17 agosto 2013

Una questione di stile, o sulla disgrazia delle questioni di stile



Cattive notizie per chi pensava che il Sessantotto ne avesse tramato la sorte, armato la mano con la controcultura e la fantasia al potere avesse finalmente commesso l’omicidio, sgombrando il campo della storia da uno dei suoi miti più tenaci: quello dello stile. Al contrario, guardandoci in giro con un minimo di attenzione ci accorgiamo che erano solo dei travestimenti, gli abili stratagemmi con cui Arlecchino continua a servire infiniti padroni, e la chioccia a covare uova di batteria. Ed è così che ritorna in auge il vecchio mito dello stile.

Dalla modestissima specula sociologica che è la mia esperienza quotidiana, mi capita sempre più spesso di sbatterci le corna. Se ad esempio chiedo a una donna cosa apprezza e ricerca maggiormente in uomo, la risposta giunge puntuale: “Un minimo di stile”. Se lo chiedo a una donna italiana, almeno. Mi sto infatti convincendo che questo caparbio ossequio verso lo stile risenta di alcune discriminanti geografiche. In generale, ne sono più sensibili gli europei; e tra gli europei direi senz’altro francesi, spagnoli e appunto italiani. Ma anche in Italia la mappa dello stile è suscettibile a varianti regionali, con Toscana, Piemonte e Lombardia che fanno da locomotive di cartapesta.

Vivo dunque in uno dei comparti umani dove lo stile è tenuto in maggiore considerazione. Per familiarizzarmi a un luogo e a un tempo che, anche in questo, così poco mi appartengono, provo a ricercare il termine su un dizionario, meglio se provvisto di etimologia. Come previsto, i significati e gli ambiti semantici sono numerosi, ma direi che quello più pertinente alle risposte femminili che ricevo è forse il seguente:

“Stile - L’insieme delle caratteristiche comportamentali che concorrano a costituire l’immagine sociale di una persona - Eleganza, signorilità di comportamento” (Devoto Oli).

E’ utile inoltre ricordare la discendenza dal latino stilus, letteralmente lo stilo con cui venivano incisi i segni grafici sulle pergamene; ugualmente, il vocabolo qualificava un pugnale sottile e appuntito, quello con cui viene compiuto l’attentato a Cesare da parte dei congiurati. Coincidenza che è sempre utile tenere a mente, almeno per chi scrive…

Ma torniamo a bomba alle donne, e alla loro predilezione per lo stile. No, non belli, muscolosi o colti o intelligenti neppure, ricchi quanto basta e famosi magari... ma soprattutto con stile: così viene ricercato il maschio alpha versione 2.0. Canta Ivano Fossati in una bella canzone di alcuni anni fa:

“per certe donne è una questione di stile \ ah che disgrazia le questioni di stile…”

Una “questione di stile”, vediamo… Sarà magari la forma peculiare che viene ad assumere il soggetto in rapporto agli altri: tanto più quella forma è conforme, per così dire, a un’immagine sociale riconoscibile ed apprezzata (“eleganza, signorilità di comportamento”) tanto più sarà lecito utilizzare il termine. Mentre se ci allontaniamo dal modello, anzi, meglio, dai modelli dello stile, dovremmo scomodare altre espressioni: eccentricità, bizzarria, ad esempio e in particolare quando quei tratti siano scarsamente diffusi, e dunque singolari. Se invece i riferimenti sono comuni, ma invisi allo schema gerarchico del valore, e cioè alle elite che determinano il gusto per imitazione, parleremo senz’altro di volgarità.

Detta così, ci accorgiamo però che volgarità e stile sono le diverse facce di una medesima medaglia, quella del conformismo sociale. E’ infatti la personalità, intesa come irriducibile tratto del soggetto umano, la vera antagonista dello stile, non certo la volgarità. Potremmo vedere lo stile come una volgarità circoscritta, ossia come il modo prevalente di una casta sociale minoritaria ma influente, che solo in apparenza si oppone alla maggioranza dei volgari.

Con il consueto acume intuitivo, è stato proprio il mezzo di comunicazione più massificato ad aver colto con anticipo tale dialettica complementare degli opposti. In una versione aggiornata del suo programma Uomini e donne, Maria de Filippi invita alcune persone attempate – uomini e donne over, per l'appunto – a sfilare a turno in passerella, ricevendo dagli altri un voto sulla "qualità" della loro prestazione. Prima però è necessario agghindarsi alla bisogna, e cioè scegliere un look, uno stile, o se preferite lo scafandro con cui sprofondare negli abissi estremi della modernità.

Ed è così che possiamo assistere al dinoccolato incedere di un ex carburatorista di Torpignattara, che nelle impeccabili vesti di golfista scozzese procede verso l’inevitabile applauso del pubblico: sì, tocca riconoscere che quell’uomo ha ora stile, l’abito ha finalmente redento il monaco. Ma se lo stile rappresenta l’involucro pubblico e riconoscibile della personalità (che come abbiamo visto viene in tal modo negata, o comunque subordinata alle esigenze della rappresentazione) dovremmo concludere che lo stile è l’equivalente dei generi nella figurazione artistica.

Pensiamo ad esempio al western. Cos’è il western, se non un particolare stile narrativo con cui viene codificato un discorso sull’umano, il tempo, la storia e insomma: l’universale. L’universale, per poter essere accostato, nel cinema ha infatti bisogno di essere ridotto in contenitori particolari. Ma una particolarità, quando viene resa omogenea nelle sue caratteristiche – ora si direbbe che viene normalizzata – cessa in effetti di essere particolare, muovendo il pendolo del significato verso il dominio del conforme.

La diffusione, l’ossessione perfino dello stile come categoria del discorso che ogni tempo svolge su se stesso, mi sembra risentire di tale paradosso. Se da una parte si ricerca la singolarità come valore – non a caso si parla tanto di valore distintivo – d’altro canto una differenza radicale viene vissuta come pericolosa e sovversiva, e subito rubricata dentro stilemi discorsivi ugualmente conformi. Al pensiero affilato dell’intellettuale che infilza il ventre molle dell’ovvio (sì, proprio come gli antichi romani con il loro stiletto), ne verrà dunque sostituito il corpo o il pettegolezzo sulla biografia – che sarà quella di drogato, omosessuale, comunista… Pensiamo al caso emblematico di Pasolini! In ogni caso, sempre e comunque narrazioni con cui si cerca di ricomprendere l’inaudito dentro le categorie addomesticate dallo stile, stilizzando ogni tentativo di sostanziale difformità.

Ma allora cosa ci rimane, di tanto fervore per lo stile: davvero è solo un arzillo pensionato in abiti da golfista, con il grasso dei carburatori ancora incistato tra le unghie? No, io credo che a tale interpretazione decisamente regressiva possa accompagnarsene una più cautamente ottimistica, o perlomeno problematica.

Lo stile rappresenta anche un sottile esercizio per ciascuno, una figura da tratteggiare. Quella che risulta dal delicato equilibrio tra io e mondo, tra soggetto e comunità. Pensarsi come entità assolute e impregiudicate è infatti altrettanto ingenuo e pericoloso – delirium, lo chiamano gli psichiatri –  che smettere di fare muro, lasciandosi invadere dal brusio indistinto del presente. Ma poi chi davvero invade chi… quando una personalità compiuta non è un oggetto, un totem, ma l’effetto di un infinito e sempre precario compromesso tra esperienza e vocazione, tra fuori e dentro. Così lo stile, quando non è semplice moda o biacca con cui intonare il volto alla scena, sarà la cicatrice esposta di quest’eterna battaglia tra mondi incompatibili, ma che devono essere ricomposti.


4 commenti:

  1. E' una questione di stile... com'è noto, infatti, molti uomini del passato non ne avevano. Che so, Beethoven e Mozart (ma anche sua cugina) per esempio. O Benvenuto Cellini, o il Caravaggio. Erano dei cafonazzi da taverna e da rissa al coltello (gli ultimi due). Chissà perché si perde tempo a ricordarne l'opera (e chissà come sfilerebbero sulla passerella defilippiana). Mah!

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  2. beh, forse dipende al fatto che utilizziamo come sinonimi due termini che sinonimi non sono, e forse perfino opposti: la bellezza, che è sempre inaudita, scandalosa, e lo stile, suo bigino naturalizzato alla pigrizia dei più...

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  3. Non del tutto opposti. Direi che "stile" è termine che ha la disgrazia di essere troppo molteplicemente applicabile/interpretabile. E' indiscutibile che l'accezione comune di "stile" è quella che tu stigmatizzi. Altrettanto certo (abbi pazienza per questa mia apoditticità) è che un artista del calibro di quelli che ho citato aveva uno "stile", infatti puoi riconoscerlo. Io generalmente uso il termine "stile" in questo senso (che è poi quello che deriva da "stilus" oggetto con il quale si marca, si segna, si appone la firma).

    P.S.: mentre scrivevo il primo commento, all'atto di nominare il Caravaggio, mia moglie mi ha chiesto "che vorresti per cena?". Ho risposto "un Caravaggio", benché volessi dire "un carpaccio". Sai, questi lapsi post cinquantennali... non ti dico quanto è costata 'sta cena!

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  4. sì, certo, capisco bene quel che scrivi. e infatti ho anticipato che il vocabolario, alla voce stile, contiene differenti accezioni, non sempre tra loro congruenti. qui ho preso volutamente in considerazione solo quello che a me appare come il suo aspetto più corrivo - e non per snobismo, ma perché mi sembra che sia anche quello più “significativo”, quello che più di ogni altro concorre a timbrare il marchio del significato sul contenitore dell’esperienza quotidiana, l’esperienza dei più. ma nel mio testo - non per difenderlo, ora - termino con un considerazione che nella mia intenzione intendeva riaprire il discorso, allargandolo a tutti quegli altri aspetti che tu hai ricordato e sono rimasti a margine. scrivo infatti proprio nelle ultime righe: "lo stile, quando non è semplice moda o biacca con cui intonare il volto alla scena, sarà la cicatrice esposta di quest’eterna battaglia tra mondi incompatibili, ma che devono essere ricomposti." con ciò intendevo dire che lo stile, ora inteso come segno proprio, sigillo personale degli artisti ma anche di un giocatore di boccette, o se preferisci un giardiniere, un meccanico e insomma degli infiniti modi con cui cerchiamo di lasciare un nostro segno sulla superficie porosa del mondo, quella diversa idea di stile non corrisponde certo al conformismo sociale, ma neppure a qualcosa come un'innata “ontologia del soggetto", se mi passi il termine un po’ scoreggione. lo stile alto è infatti anche “altro”, in quanto esposto a un continuo arco di tensione che collega soggetto ad esperienza, memoria e presente, perfino compromessi e mediazioni di bassa bottega. un punto di vista che si fa dunque strabico, molteplice, differenziato e con cui osserviamo il pendolo che infinitamente oscilla tra le ragioni del soggetto e quelle della comunità, e che solo in rarissimi casi trova un felice punto di equilibrio. uno di questi miracolosi “stand by” estetici, a me sembra costituito dalla grande architettura: posso stare ore a guardare la casa sulla cascata di wright, e vedrò sempre qualcosa come un congresso di vienna tra forze diverse e perfino ostili: la committenza, le esigenze tecnico-abitative, i costi, le forze incombenti e pulsanti della natura e infine, non ultimo, l’egocentrismo mica da ridere di frankl lloyd wright. che però, come ha fatto lo sa solo il diavolo, è riuscito non a eludere questa congestione di voci, ma a conferirgli unità nell’intonata polifonia di un coro. o in una parola sola: gli ha dato stile.

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