mercoledì 7 agosto 2013

Mad Men, o su dove (eternamente) vada il fumo dei nostri arrosti



Ne ho viste solo tre puntate, scaricate da internet e su suggerimento della mia amica Alessandra, ancora convinta che prendersi cura dei libri sia cosa buona e giusta. Alessandra, al rientro o forse era l’andata verso la sua libreria al cuore del Flaminio, il telefono che prendeva a strappi, mi ha detto semplicemente: “Guardala, lo so che le serie televisive di norma ti scorrono addosso, finendo in un tombino zuppo di sbadigli e torpore. Ma guardala, siediti e versati se vuoi un po’ del tuo orrendo whisky irlandese, aggiungi piano il Ginger Ale – e poi guardala!”

Così dopo aver guardato Mad Men, solo tre puntate, d'accordo, ma già mi viene da rispondere, ad Alessandra e a tutti voi. Capolavoro! Tutto quello che siamo diventati e che sogniamo la notte ma soprattutto durante il giorno, gli occhi spalancati e accesi di una luce simile a quella lampeggiante del presepe, mentre la cometa indica un punto che si fa sempre più vicino, tutto ma proprio tutto si mostra come il lucidissimo esperimento genetico di una cricca di pubblicitari newyorkesi, primi anni sessanta o giù di lì. Un cocktail, se preferite.

Storia alchemica di apprendisti stregoni, dunque, non solo la nostalgica rievocazione televisiva delle scaramucce sentimentali di un gruppo di giovani uomini e donne, pantaloni e gonne che si accorciano, mocassini, sempre più smilze anche le cravatte. Si gonfiano però i portafogli e gli occhiali in celluloide scura. E poi drink, jazz, rock, locali fumosi e ancora e sempre sigarette e drink, in qualsiasi luogo e a qualsiasi strampalato orario, ma con un contegno esteriore non inferiore a quello lustro dei capelli. Grease, brillantina si chiamava, eredità di un tempo appena trascorso. Ecco la divisa di quei maghi che già avevano previsto tutto questo, dati cause e pretesto… Tutto. Previsto perché seminato.

Ad esempio La febbre del sabato sera, il riflusso, il piacere come dovere e la felicità come un’araldica, da appuntarsi alla giacchetta. Mentre ciò che scorre come documentata campitura cronologica – la grande rivoluzione sociale del decennio, Nixon contro Kennedy, la pillola abortiva vero motore occulto del movimento beat, con la fantasia al potere quale suo radioso e vuoto proclama – è in fondo solo un epifenomeno del loro progetto mercantile, una scossa di assestamento dopo il sisma principale. Previsti anche i mulini che diventano sempre più bianchi, mentre si fa nero il cielo sopra alle nostre teste.

Nella serie ideata da Matthew Weiner e messa in onda da AMC, a partire dal 19 luglio 2007, le figure sorgive della tarda modernità vengono quindi ritagliate e messe in forma (dialoghi perfetti, inquadrature avvolgenti dai colori saturi), lasciando però trasparire anche l’oscura intenzione che le sorregge. A coincidere certamente con il vantaggio di pochi (leggi capitalismo, affari, interesse), ma al contempo con uno schema che, più dei rapporti economici, riflette quelli indagati dall’antropologia culturale con le sue ritualità, se non addirittura da una metafisica non meno eccentrica che sarcastica; al di qua dell’oceano si sarebbe detto nichilista. 

Con quella lingua scattante ma ugualmente ricca di anse e tornanti, chiamiamolo pure un new order. Ordine di segni prima ancora che di senso, robusta architrave che sorregge l’intero edificio sociale – architettura, discorso, emozione e gesto che infinitamente ricapitola se stesso: fare comunità è questo e molto altro, e però assieme, accordati a un'unica lunghissima nota di fondo.

Ma non è facile scorgere l'intima coerenza tra le cose, specie quando, per paradosso, la porta della dispensa è aperta e la marmellata in tavola, con i segreti messi in piazza a sussurrare a Pulcinella. Perciò sarà per definizione uno straniero a rivelare l'enigma della Sfinge, già che l'abitudine oscura i sottilissimi fili che tramano la realtà, e in cui è facile inciampare. La narrazione pubblicitaria riassume magnificamente tale misteriosa costellazione di cose e sentimenti, persone e oggetti, dentifrici e denti che fanno male. E' il bimbo che scopre la nudità del re, ma poi lo riveste di abiti firmati Yves Saint Laurent.

In un tempo immediatamente anteriore, e per lunghi secoli, la stessa radianza significativa che ora si trova esposta in superficie e a portata di Visa, MasterCard, bancomat o qualsiasi altro surrogato del valore, purché infine si passi dalla cassa, poteva essere reperita solo a un livello di densa ed enigmatica concentrazione: ed era il Sacro, inteso come alfabeto simbolico che sottende a ogni comunità fortemente strutturata. E' stato dunque grazie ai “mad men”, alla pubblicità e ai nuovi stili di vita e di consumo che il sacro ha cominciato a cedere la maiuscola e fare breccia tra le cose, irraggiandole dell'aura che prende congedo dagli antichi mosaici bizantini, fa bye-bye alle pale d'altare e pervade le merci di nuovo vigore espressivo.

Potremmo figurarcela come una sorta di kenosis laica, che, all'afflosciarsi della sfera dell'universale incalzata dall'ago delle scienze e tecniche umane, corrisponde con una saturazione del particolare, in un movimento subito intuito e descritto da Roland Barthes. A latitudini assai più basse e confortevoli, ma non per questo meno acute, si muove però anche la bacchetta rabdomantica della grande arte, quella ad esempio di Lucio Battisti e del suo mentore Pasquale Panella. In una bellissima canzone del 1986 con cui davano inizio alla loro collaborazione, così infatti ci ammonivano:

“Sono le cose che pensano \ ed hanno di te sentimento…”

E cosa pensino le cose, di quale sentimento si facciano portatrici a partire dal laboratorio immaginale dei Cinquanta\Sessanta, ce lo dice ancora Mad Men. Non già perché le cose davvero abbiano un’anima, o peggio un cuore, ma perché i loro “sentimenti” vengono insufflati proprio dai pubblicitari, come un vecchio dio biblico che dona il soffio vitale alla sua creatura. O se preferite, come il ventriloquo spagnolo José Luis Moreno, quando a Domenica In dava vita e voce a un malizioso corvo di nome Rockfeller.

Ed è dunque con tale disposizione di pensiero, voce e sentimento che ancora oggi ci accostiamo alle cose del mondo, dopo esser stati da esse accostati, blanditi, alle brutte adescati e presi. Uno spettacolo che molto ricorda i traffici antichi tra uomini e dèi, culminanti nella promiscuità sessuale, nella ierogamia come compendio tra ordini spirituali differenti. La pubblicità e Mad Men che ne è il suo canto più alto e riassuntivo, sono dunque anche questo: il segno dell’estrema combutta tra uomini e dèi, tra organico e inorganico, alto e basso, cielo e terra. Ma anche il piacere voyeuristico di guardare a tutto ciò.

Già, perché le divinità vogliono essere rimirate, non solo corrisposte. E Coccolino, Apple, United Colors of Benetton e Mastrolindo, sono solo alcuni dei nomi che hanno preso i vecchi dèi dell’Olimpo greco. A cui continuiamo a offrire il fumo e a tenerci ben stretto l’arrosto.

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