domenica 24 luglio 2011

Sangue o vino, o sull’idea moderna di cultura


La cultura, vediamo. Una cosa che per me è anche un po’ difficile da scrivere: mi tocca personalmente, e tocca persone a cui voglio bene come a fratelli.

Intanto. Da molti anni io mi interesso di cultura; sì, insomma: leggo, scrivo, ma non sono quel che si dice un intellettuale. Ho costruito la mia casa quasi interamente da solo, per così dire. Dimenticando enormi brecce aperte tra i mattoni, spifferi che entrano da tutte le parti, interi secoli in cui non ho quasi idea di quel che sia successo.

Quando non leggo o non scrivo o lavoro a tappare i buchi della mia cultura, frequento gente che si interessa d’altro. I miei amici, insomma, sono perlopiù indifferenti ai mie goffi sforzi nel riparare le macerie della mia educazione. Ci incontriamo al bar, oppure altrove. E parliamo della prima cosa che ci salta in mente, o anche della seconda, bevendo qualsiasi intruglio.

Negli ultimi tempi, però, provo un imbarazzo crescente, specie quando a queste persone salta in mente di parlare di cultura; anche se lo fanno per vie appunto traverse, quasi mai nominando quella brutta parola. E ogni volta è come se io dovessi nascondermi, vergognarmi di tutto quel che ancora faccio per sapere, per tenere assieme le pareti con il tetto, le fondazione incerte, gli infissi traballanti. Oppure, meglio, come una cartolina da un luogo di villeggiatura, in cui un bambino arrivato per la prima volta scriva ai genitori:

Qui tutto bene, c’è il sole e il mare è calmo. Il bagnino era così indaffarato a parlare con una ragazza bionda con le lentiggini che ha lasciato libero il suo seggiolone. Allora ho provato salirci sopra e si vedeva lontano, ma davvero lontano non avete idea quanto... Un puntino minuscolo dove certe barchette arancioni, ma con i pedali come una bicicletta e le donne che quando salgono si tolgono la parte sopra del costume, si confondono con il tramonto. Avete presente il lago: ecco, uguale. Ma tanto tanto più grande!

Oggi pensavo a mio nonno. Mio nonno, gli ultimi anni di vita, era su una sedia a rotelle. Non completamente paralizzato, però. Con fatica, e due bastoni in legno intagliati con la sua roncola, riusciva ancora ad alzarsi in piedi. Era il femore a essere ormai interamente fuori gioco. E poi era vecchio, così vecchio e zoppo che non poteva più lavorare. In compenso non si perdeva un dibattito politico in televisione. Il resto le chiamava “luganegate”, e cambiava subito canale. Gli piaceva sentire la gente che parla bene.

Santoro, a mio nonno piaceva particolarmente Michele Santoro. Bruno Vespa invece gli stava un po' antipatico, e poi iniziava troppo tardi. Infine Gad Lerner, con i suoi ragionamenti lambiccati, tortuosi, gli sembrava un po’ complicato – però si capisce che anche lui ha studiato, aggiungeva mio nonno. Si capisce perché parla bene.

Parlare bene, aver studiato.

Da costatazioni oggettive, questi – lo studio, la conoscenza e l'esposizione forbita – diventavano così dei termini di giudizio, perfino di valore umano. Perché chi ha studiato capisce le cose, e attraverso le parole, le buone parole, anche gli altri poi possono capire. Almeno se han la voglia e la pazienza di ascoltare.

Per mio nonno, capire le cose, era la cosa più importante.

Il mondo è meglio se lo capisci il mondo, niente di astratto o di metafisico. L’ammirazione forse dovrebbe essere sottotitolata, e così questa sarebbe stata la targhetta – il piacere e l’importanza della comprensione – che stava sotto l’ammirazione di mio nonno per chi parla bene. E per chi ha studiato, naturalmente.

Con i mie amici, al bar e fuori dal bar, però non funziona alla stessa maniera. La loro ammirazione sfugge dentro infiniti rivoli, distinzioni eccentriche. E’ come se la contemplazione del mondo intero avesse smesso di produrre fascino e interesse, e un sipario fosse calato oltre il seggiolone rosso del bagnino. Al vasto mare si preferisce una scelta mirata di porzioni circoscritte, stagni quieti, piscine senza burrasche. Ma intuisco che anche i miei amici, i quali la pensano o meglio la vedono a questo modo, hanno una parte di ragione.

Per i miei amici, ad esempio, chi cerca di contenere nello sguardo l’orizzonte è a sua volta uno specialista. Uno specialista di quella parte – tra le infinite parti a cui si dedicano con sollecitudine e impegno – che si chiama Tutto. E così, chi vuol rimirare tutto il mare, tutto il mondo, diventa semplicemente un intellettuale. Uno che si occupa delle belle parole e dei bei pensieri sul Tutto, percepito come estraneo alla minima parte che ci spetta.

E' forse per tale senso di estraneità al Tutto che, nel tono di voce dei miei amici, è andato perduto l'accento della riconoscenza. Quella riconoscenza che al contrario mio nonno sapeva intonare con stupore infantile, quando parlava di chi ha studiato, di chi parla bene. No, intellettuale non è più una parola buona. E nemmeno cultura.

Eppure, i miei amici, che non sono intellettuali e non ne amano la parola, né inzupparsi gli abiti nel grande mare del mondo, per vie diverse, spesso accidentali, hanno compreso una fondamentale lezione del nostro tempo, sfuggita probabilmente a mio nonno.

Gli intellettuali hanno la cultura, ok. Ma la cultura che cos’è? Non sarà che non esiste più qualcosa che può star dentro un unico contenitore linguistico, come la Cultura, con la C maiuscola? Non sarà che questo termine è sempre stato una grande illusione, una scorciatoia per il pensiero? Non sarà che il mare è un cratere vuoto che dilaga nelle parti, come uno scolapasta?

E così, come i filosofi postmoderni, i miei amici pensano che non c’è, non può esserci, non c’è mai stato un corrispondente effettivo a quella calcificazione nominale che è la Cultura. Esistono, piuttosto, da quando il mare si è fatto lago, solamente le culture. Minuscole e plurali come pozzanghere dopo un acquazzone.

Che detta a questo modo, come la dicono i filosofi postmoderni, a me viene anche da dargli ragione. E però, quando sento lo stesso pensiero accordarsi nel quotidiano, e lo sento di frequente, l'avverto risuonare con una nota stonata di fondo, che si propaga in sintagmi fin troppo modesti e soft, quasi fosse implicito ciò che affermano senza clamore. La cultura del vino, ad esempio. Cosa vuol dire, dico, cultura del vino?

Uno dei miei migliori amici vende vino, e del vino sa tutto. Gli chiedi di qualsiasi altra cosa: non ha tempo, non ha voglia, è un pigrone. Se legge un libro è perché gliel’hanno regalato (di solito io), o ne ha sentito parlare da Fabio Fazio (di solito assieme a me, che non seguo perché sono impegnato a bere il suo vino, che è sempre buonissimo). Ma se gli domandi di quel che fa, davvero la sua conoscenza non ha limiti, è una botte tonda e senza misteri. Il vino, la cultura del vino. Resti ammirato!

Pur rispettando e, ammetto, invidiando la cultura del vino del mio amico, ugualmente io diffido un poco delle spiegazioni che mi offre. Delle volte mi vien perfino voglia di fargli dispetto e non starlo ad ascoltare, come con Fabio Fazio. E così in quelle fughe acustiche dalle sue dotte dissertazioni enologiche, che umiliano la baracchetta piena di rattoppi della mia cultura, le mie conoscenza precarie e raffazzonate, mi torna di nuovo in mente mio nonno. Mio nonno in gioventù faceva anche lui il vino, ma non capiva un cazzo di enologia, retrogusti, tannini, sentori fruttati e quelle cose di cui parla il mio amico, con partecipe convinzione. Il vino si beve a tavola, e morta lì. Almeno per mio nonno.

Insieme al ricordo di mio nonno che tende le orecchie verso chi parla bene, chi ha studiato, dimenticandosi provvisoriamente del vino – e della sua presunta cultura – che gli ha piagato le mani per una vita, mi invade la fantasia un'altra immagine ricorrente.

Scolaretti. Proviamo a visualizzare una classe di soli maschi, come una volta. Terza elementare o giù di lì. I giovani alunni stanno seduti compostamente e in silenzio. Ciascuno indossa un giubbino nero, i capelli con la riga da una parte. La cartella è ai piedi del piccolo banco in formica verdina e, sopra, al posto dove un tempo ci stava il buco per il calamaio, in cui attingere l’inchiostro con cui esercitarsi nella bella calligrafia, ora spicca un calice colmo di vino rosso.

Ragazzi, dice il professore battendo un'asticella di legno sulla scrivania, adesso rigirate lentamente il bicchiere tra le mani. No, non così: con tre dita alla base dello stelo, e guai a scaldare il contenuto con il palmo, nel caso di un bianco. Ma prima di bere – attenzione! – provate a individuare quali sentori emergono all’olfatto. Chi riconosce correttamente almeno tre fragranze, può passare ai vini da dessert. E mi raccomando non copiate, non bevete dal bicchiere del vicino.

Va bene, semplifico. Però io quando sento in giro qualcuno che, alzando il mignolino mentre ingolla il suo vinello, qualcuno che poi si pulisce la bocca con un tovagliolo amaranto, qualcuno che infine butta lì la cultura del vino di qui, la cultura del vino di là... Ecco, a me torna sempre in mentre l'immagine degli scolaretti, non ce ne sono mica altre.

Perché il vino è innanzitutto un’esperienza, penso: non un sistema esplicativo che aiuti a chiarire i rapporti tra uomo e mondo, o tra persona e persona. La cultura del vino, cosa te ne fai della cultura del vino, quando nella tua vita si alza un maremoto?

Una cultura, per me, è dunque e innanzitutto una scialuppa, che ti porta in salvo quando stai per naufragare nell'incerto. Ma, per contrasto, ti fa venire il mal di mare e qualche dubbio, quando sei assediato dai cuscini di certezze troppo comode e rassicuranti.

Quello del vino potremmo semmai chiamarlo un sapere, non una cultura. Un sapere anche rigoroso e perfino artistico, ma che limita la sua estensione dentro una ristretta geografia dell'umano. E cioè qualcosa che solo in minima parte concorre a una visione più ricca e articolata delle cose – più correlata –, e che dunque non pregiudica scelte determinanti e sostanziali.

Ma passiamo ora a un altro amico. Ha diversi anni più di me, professore di lettere in pensione. Gli voglio bene e lo stimo molto. Anche se da circa trent’anni ha smesso di leggere libri scritti nel presente, che parlano dell'attualità o più in generale di cultura. E c’è quasi una punta di orgoglio, di vezzosità socratica, in questo suo esibito disinteresse alla cultura, o almeno a quella sua parte che pretende spudoratamente di farsi Tutto.

A questa programmatica distrazione verso i saperi costituiti e generali, il mio amico, tocca riconoscere, supplisce con molti altri interessi. Saperi particolari come quello del vino, che sono spesso complessi e altrettanto sottili e rigorosi. E’ infatti una persona intelligente e colta: a suo modo, un intellettuale.

Ad esempio, il mio amico, sa tutto di pipe, accendisigari, armi da fuoco, spiritualità giapponese, musica elettronica, impianti hi-fi, massoneria, complottismo politico, orologi, cinema indipendente, rapimenti alieni, terapie orgoniche. Dispone insomma di una varietà di culture, alternative o parallele a una presunta cultura egemone e comprensiva, quale interessava a mio nonno che sperava invece di capire Tutto, ascoltando Santoro.

Oppure quell’altro mio amico, non lo vedo più da un pezzo, era mio socio nella realizzazione di sistemi di trading finanziario, quando mi era venuto in mente di fare quella scemenza di lavoro. Lui addirittura si rifiutava di leggere libri, giornali, qualsiasi pensiero scritto o elaborato da altri. Perché le cose – chiamava le cose qualsiasi argomento, un po’ come mio nonno – le cose diceva, le cose bisogna prima provarle sulla propria pelle, non come i “professorini” (un altro suo vezzo linguistico) che le leggono sopra ai libri.

E anche questa è un’affermazione che, detta così, magari al bar, ti vien da dargli ragione. Massì, cosa c’è in fondo da discutere: vuoi provare la corrente ad alta tensione perché non ti fidi del cartello non toccare? Accomodati, fai pure. Gli dai ragione e poi ordini altri due calici di rosso, per aumentare l’esperienza del mondo, e la cultura del vino.

Ma alla fine, dopo tutti questi bicchieri, tutte queste esperienze che vanno fatte da soli, non lette sui libri, come i professorini, tutte queste culture alternative quali il vino e gli accendisigari – guai a dubitare che il vino e gli accendisigari siano cultura! – alla fine tutte queste cose mi sembra che ce ne abbiano fatta scordare una più grande: la prospettiva.

Come se fossimo finiti dentro un film girato interamente con un’ottica telescopica. Immagini fisse, nessun movimento di macchina, fotogrammi semplicemente giustapposti. E zoom che stringe su ogni minimo dettaglio del reale, senza arrischiare alcuna inquadratura d’insieme. Frammenti che non fanno visone, intendo dire. Frammenti che non sanno tradursi in seme e generare delle costellazioni visive, da cui nuovi frammenti espressivi.

Una sensazione che ricorda i misteriosi segni nel deserto di Nazca, che se li guardi da poche decine di metri, in piano, sono semplicemente dei graffi sul terreno arido e stepposo, un'unghiata fortuita sopra a una campitura caotica e inespressiva. Ma osservati dall'alto, come fece per la prima volta un pilota militare negli anni venti, quegli stessi segni diventano parte di un disegno grande e complesso, elementi di una grafia sintetica, per quanto ancora da decifrare.

In ogni caso, non so voi, ma a me vien da pensare che se vado a vederlo a cinema, un film così, tutto dettagli e mai un totale, ci fosse anche solo un campo lungo, non dico una panoramica, io esco dopo dieci minuti, davanti a un film così. Mio nonno poi non ci entrava nemmeno, secondo me.

Mio nonno di lavoro faceva il vino e vendeva le mucche, proviamo a ricapitolare. Però quando voleva comprendere il mondo – o almeno ci provava, in forme se vogliamo anche discutibili – non si rivolgeva alla cultura del vino, o alla cultura delle mucche. Mio nonno reclamava invece una visione d’insieme, e aveva l’umiltà e di cercarla fuori da sé. Bernardo di Chartres diceva che siamo nani sulle spalle dei giganti. A me pare invece che buona parte dei nostri contemporanei, a differenza di Bernardo e pure di mio nonno, abbia perso la fiducia che esistano pensieri più grandi, e spalle su cui arrampicarsi.

Tutto si limita allora un punto di vista parziale, perlopiù rasoterra, frazionato. Nemmeno viene il dubbio che il bagnino, dalla sua postazione rialzata, oltre alle turiste sui pedalò possa vedere più lontano, come un aeroplano sul deserto. Né che potremmo diventare noi stessi bagnini o aviatori, che il lago possa essere un mare e che il mare sia in realtà un oceano, dietro a cui forse ancora si nasconde un nuovo continente da scovare.

Per la stessa ragione, non si chiede aiuto ai libri, agli intellettuali, ai saperei generali come la filosofia o la sociologia o la fisica o la matematica, che vengono vissuti come conoscenze particolari, da professorini. In fin dei conti un accendisigari, in serie limitata, o il sentore di lampone in un Brunello di Montalcino, hanno lo stesso valore epistemologico dell’intera opera di Spinoza. O meglio è la stessa nozione di sapere, che si fa estranea. Non c’è nulla da sapere: è tutto e solo esperienza, questa pipa n'est pas une pipe.

Eppure mi sembra di vedermelo ancora lì, quando andavo a trovarlo, quando mi faceva “cito” con l’indice puntato sulle labbra, mentre stava parlando Santoro oppure Gad Lerner. Sì, mi sembra di ritrovare la fatica di mio nonno – i due grossi bastoni con cui cercava di sollevarsi dalla sua carrozzina – e le buffe imprecazioni con cui accompagnava i tentativi spesso andati male, come “Dio Campanile”.

Ed erano le volte in cui io gli dicevo resta seduto, ti aiutiamo io e la nonna ad andare in camera, oppure in bagno per fare la pipì, non cercare di alzarti che il dottore ha detto di non sforzare la gamba.

E invece capisco solo adesso che lui non voleva andare a pisciare, o in camera per dormire. Nemmeno di quel che diceva l'ortopedico, da quel pulpito parziale che è la medicina specialistica, gli importava poi tanto. Ed era dunque in barba a tutti i saperei smozzicati e sparsi che mio nonno cercava di alzarsi sulla punta dei piedi, arrampicarsi sulle spalle di un gigante che vedeva solamente lui. Quindi muovere la macchina da presa, conficcata nei suoi occhi azzurri e affilati, come in un dolly cinematografico. Contenere l’intero mondo in uno sguardo, ecco quel che voleva raggiungere con i suoi bastoni.

Quando però la forza di gravità lo ricacciava tra i braccioli rigidi della sedia, e i bastoni a terra come il saltatore con l'asta che fallisce la misura, mio nonno si accontentava di una frase, ma pronunciata bene, da uno che ha studiato. E Santoro e Gad Lerner loro sì che hanno studiato, borbottava compiaciuto, e se qualcuno si azzardava a replicare ci zittiva con un nuovo cito e mosca, fammi ascoltare...

Un'ultima frase anche per noi, allora. Una frase che ho imparato in un libro di poesie, sono scritte da un altro che ha studiato, forse perfino più di Santoro e Gad Lerner; io non l'ho mai sentito parlare ma c'è da credere che parlasse bene, non come Manzoni che balbettava. Lui si chiamava William Butler Yeats e non era esattamente un professorino. Dice così, la frase:

Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. \ Allora scoprirete a che serve il mondo.

Se è vero che il compito dei figli è quello di arrampicarsi sulle gigantesche spalle delle generazioni che ci precedono, io provo allora a salire sulle spalle forti di mio nonno e da lì spiccare fino a quelle enormi di Yeats, per completare la sua frase - che presunzione! (Ma una presunzione necessaria, che si chiama storia.)

Mi viene così da aggiungere: no, non basta attraversare la valle del mondo, per fare anima. Bisogna anche cercare, traversandolo, di tracciare una mappa sempre imperfetta, provvisoria, collegando le rive per mezzo di ponti e i continenti con rotte nautiche o aeree, come fanno le rondini e le cicogne. Perché di un mondo senza relazioni o prospettiva, un mondo di laghi e pozzanghere, rimane solamente un liquido scuro, imprigionato da pareti invisibili ma tenaci.

E poco importa se tu lo chiami sangue oppure vino: quella comunque non è cultura: non ci coltivi nulla, non raccogli anima al suo tempo. Almeno fino a che non rompi le pareti del bicchiere, o ti arrampichi sul seggiolone del bagnino. E se ancora non scoprirai a che serve il mondo o il segreto di Nazca, beh, se non altro potrai vedere i seni belli delle turiste in pedalò. Che rientrano ridendo, spruzzandosi e poi nascondendo il costume a quella che fa il bagno, la crema da sole nel panino... Che rientrano per quel mare che è sempre troppo azzurro e troppo grande.

11 commenti:

  1. Se coltivi interessi, puoi raggranellare delle conoscenze, a volte una qualche consapevolezza.
    Se ti interessi di donne puoi provare piacere o dispiacere, puoi scoprire i mille loro orgasmi.
    Se le disprezzi puoi usarle per i tuoi.
    Se leggi un libro puoi condividere o meno le idee espresse dall'autore; comunque nuove e variegate prospettive si dischiudono.
    Esperienze gioiose e dolorose sono la vita di ciascuno.
    Cultura? Cosa essere cultura?
    Ugolino Della Gherardesca

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  2. gentile Ugolino Della Gherardesca, vediamo se mi spiego meglio a questo modo. negli anni sessanta e settanta, gli operai, non tutti, ok, ma molti operai rientravano a casa e poi iniziavano a studiare i libri di marcuse, adorno, marx, pasolini, popper, mclhuan... oggi, invece, i professori universitari rientrano a casa e invece di aprire un libro di giorgio agamben, slavoj zizek, alain badiou, jean-luc nancy, eric hobsbawm o dei numerosi altri autori che hanno parole di acuta sintesi concettuale sul presente, si dedicano all'interpretazione dei sentori di un vinello, e la chiamano "cultura del vino". ora io è di questo che ho cercato di scrivere nel mio intervento - potremmo chiamarla una "fenomenologia rinuciataria del presente". ossia di un tempo dove ciò a cui si rinuncia è il tentativo di una visione globale e articolata e prospettica delle cose. la sua risposta, caro Ugolino e senza nessuna polemica, mi pare che vada piuttosto nella stessa direzione che io identifico come "male". una rarefazione allusiva, il gusto eccentrico per il particolare, che particolare rimane non ponendo aperture dialogiche al ragionamento. poi, naturalmente, si può vivere anche senza l'ambizione sempre mancata a una totalità concettuale, che è esattamente quel che lei mi chiede sardonicamente: la cultura, ecco che cos'è la cultura. sì, si può vivere benone anche senza cultura. come cantava rino gaetano: "mio fratello è figlio unico \ perché è convinto che anche chi non legge Freud \
    può vivere cent'anni..." (secondo mio nonno, però, avendone l'occasione e il privilegio, freud è meglio leggerlo. e in fondo il mio discorso sta tutto qui)

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  3. E' un piacere trovare e leggere le tue disquisizioni sul vino e la cultura.Soprattutto, dopo due settimane zurighesi, uggiose e autunnali, trascorse bevendo dell'ottimo vino e discettando con amici,appunto, di vitigni, uve pregiate, zone baciate dal sole. Va da sè, che in queste serate oziose e simpatiche,ognuno è rimasto abbarbicato su posizioni contrapposte delineate dalla convinzione che la propria regione produca i vini migliori.Giustamente pigri e poco inclini alla ginnastica mentale, abbiamo riso e scherzato, abbiamo raccontato e ci siamo raccontati, abbiamo ascoltato e ci siamo ascoltati. Sono d'accordo con te: il vino è un'esperienza, ma è un'esperienza che ci invita a fare anima.Altra cosa è la cultura che, dal mio punto di vista, dovrebbe contenere e creare connessioni tra le molteplici esperienze. Per restare nella metafora marittima?!? La "cultura" è come il timone di una nave, un piccolo strumento da cui dipende tutta la navigazione.Non siamo capitani di lungo corso.L'esperienza non ci conforta.Ma, addentrarci in questo mare, per quanto rischioso possa apparire è l'unico modo per levare le ancore e salpare dal molo.
    P.S. Non amo il lago, preferisco il fiume: mi dà l'idea del movimento, della vita.
    Una splendida poesia di Alida Airaghi che, secondo me, attraverso il lago evoca splendidamente, le tue osservazioni. Ciao, mg

    Non sono onde. Ne avrebbero forse
    l'intenzione; increspature leggere,
    rughe dell'acqua, e basta.
    Non sarà mai tempesta,
    questo lago, scarso coraggio
    di farsi mare: se accoglie un fiume,
    lo placa, lo annulla in una quiete
    casta. E così niente corse nè fughe
    di pesci, ma vaghi girotondi,
    guizzi di piume d'anatra in festa.
    Bisogna aver paura di chi non sa osare:
    laghi colline periferie.
    Acque chete e profonde celano
    malefici, stregonerie.

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  4. grazie Mariagrazia, non conoscevo questa poesia di Alida Airagh: è semplicemente bellissima!

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  5. E' vero: è bellissima. Ho conosciuto Alida negli anni '80 a Zurigo, tutt'e due insegnavamo. Io appena ventenne, ammiravo questa donna, di alcuni anni più anziana, ma già in grado di irradiare saggezza e armonia.Purtroppo, ci siamo persi di vista.Grande poetessa! Ciao, a presto!

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  6. @Mariagrazia, di Alida Airaghi invece io non avevo letto nulla. è stato dunque un piacere, scoprire i suoi versi. se e quando e forse andrò a Zurigo anche io, chiederò conforto a una sua raccolta di poesie. ma se invece ci dovessi incontrare i tuoi amici buongustai, o magari direttamente te, con un calice in mano e le tue salde convinzioni regionali da difendere, temo che passerei direttamente dal bancone, per altri due calci e qualche stuzzichino per gradire...(lo vedi, come si cambia facilmente opinione, a ogni onda leggera che move il gozzo e le altre frattaglie!)

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  7. Zurigo, per me, è una felice parentesi vacanziera.Io vivo a Roma,e debbo ammettere che anche Roma non scherza riguardo ai vini...

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  8. ho abitato a roma per qualche tempo. ne ho sempre preferito la cucina, in verità, alle bevute. e poi a roma nessuno si prende il tempo per gli aperitivi; al massimo arrivano un prosecchino stiracchiato, più spesso è quella caricatura paonazza del campari, il sanbitter. ma la vera festa romana è per il pranzo, non la cena; e in questo è davvero differente da quassù. per pranzo io mangiavo da augusto in trastevere: i primi così così, ma certi arrosti, verdure; e poi la coda alla vaccinara, che era sempre esaurita, quando arrivava il tuo turno! il conto era, e credo sia ancora, sulla tovaglia di carta, scarabocchiata dal titolare a fine pasto. ma per noi "milanesi" - a roma chiamano milanesi tutti i nordici, anche me che son sodriese - ci stava ancora posto per una grappetta. e però mi raccomando: morbida morbida...

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  9. Sono d'accordo sull'importanza del pranzo a Roma, ma riguardo agli aperitivi,non è più così:adesso ha preso piede l'happy hour, in cui il prosecchino stiracchiato e la caricatura paonazza del campari fanno compagnia a vini e birre. Non occorre aggiungere, almeno per quanto mi riguarda, che l'happy hour favorisce , oltre, agli incontri tra amici,conoscenti, colleghi, anche un abbassamento del livello del parlare e dell'ascoltare difficilmente riscontrabile in altre situazioni. La chiacchiera continua e incessante contribuisce a far crescere l'indifferenza a ciò che si dice e ciò che si ascolta.Una tempesta di parole che si sciolgono come le bollicine dello spumante, prive di peso e di senso.Si ritorna a casa strapieni di tramezzini, pizzette, paste fredde e basta.Meglio una cena tra amici, con infine una grappetta morbida...morbida!Personalmente da buona siciliana, amo la mattina :le "superbe" granite e le morbide brioche...

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  10. Gentile Signor Hauser, mi chiamo lorella, vivo in toscana, e nei miei 52 anni non ho conseguito lauree o titoli di studio che possano venirmi in aiuto quando tento di esprimermi, quindi Le scriverò solo poche righe. La cultura, quella che si intende come classica cultura accademica mi faceva paura, l'ho pensata austera, attenta a rigidi canoni preordinati, e difficile, vigliaccamente difficile per me, studentessa dall'indisciplinato temperamento. Ma se la cultura può essere quanto lei descrive mi si dischiude un mondo, quel tutto che io chiamo stato d'animo.L'ho capito leggendo le sue parole. Lo stato d'animo che è sempre dentro e fuori di me è il tutto. E' la condizione imprescindibile e invariabile con la quale mi pongo di fronte alle più varie esperienze, studi, prove, letture, passioni, ricerche, magari terribili verità, che possono turbarmi, cambiarmi, meravigliarmi, arricchirmi o far soffrire la mia più intima essenza, mischiando onda, sabbia, sangue, carne e vento, senza intaccare mai lo stato d'animo, che rimmarrà immutato oltre la materia. Spero tanto di non essermi sbagliata. lorella

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  11. @Lorella, la ringrazio molto per le sue parole, e nel farlo utilizzo anche io la formula di un galateo impersonale, così raro qui sul web e forse per questo tanto più prezioso. se il suo campo verbale fosse così definitivamente selvatico, "incolto", probabilmente avrebbe parole diverse e meno precise, con cui dar forma a ciò che ha nominato con estrema proprietà: uno stato d'animo. la cultura è dunque difficile, "vigliaccamente difficile": ma come vede gli stati d'animo, alle volte, sanno trovare percorsi alternativi, meno vigliacchi anche se non sempre agevoli. perché in fin dei conti la parte è sempre più agevole del tutto - o come diceva totò: è la somma che fa il totale... ;-)

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