giovedì 14 luglio 2011

Arlecchino, o sulla nuova moda politica per l’estate, by Colombo & Vecchioni


Roberto Vecchioni e Daria Colombo, che credo sia la bella moglie da lui abbracciata nella fotografia, nei giorni scorsi hanno promosso un’interessante iniziativa. Indossare un qualsiasi indumento arancione, anche un braccialetto, un fazzoletto nel taschino, un paio di slip che però facciano capolino da sotto i jeans con la vita bassa per segnalare il proprio profondo dissenso, l'estraneità, il vivo rifiuto delle politiche di questo governo. E dunque, in positivo, il desiderio che Berlusconi si dimetta.

Personalmente sono profondamente grato a Colombo e Vecchioni per la proposta, che va nella direzione che da qualche tempo già sospettavo: la tribalizzazione formale del conflitto politico. Un'iniziativa tanto inconsistente sul piano sostanziale degli effetti – tecnicamente potremmo definirla pre-politica –, che trova però legittimità espressiva a un livello di lettura più rarefatto, o di riconoscimento identitario. Risultato che viene raggiunto, o almeno questa deve essere la strategia degli estensori, la loro intenzione tacita, attraverso un’adesione incondizionata dell’agire politico alle categorie dell’estetica.

La domanda giusta, a me pare, allora non è tanto se questa proposta serva politicamente a qualcosa (la risposta sarebbe chiaramente no), ma quale sia la struttura simbolica che soggiace a un’azione così programmaticamente “ineffettuale”, oltre che l’identità antropologica su ampia scala che in tal modo si realizza; o più cautamente è il caso di dire: si realizzerebbe.

Le risposte a queste domande non sono in effetti immediate, ma a me pare che possano essere accostate nella seguente prospettiva: la giocosa iniziativa di Colombo e Vecchioni non fa altro che replicare una visone spettacolare e folklorica dell’agire politico, che ha nei cache-col verdi di Umberto Bossi e compagnia il suo riferimento più recente, solo invertito di segno. Ma se vogliamo retrocedere nei richiami, oltre a un buffo programma televisivo degli anni settanta e ottanta chiamato Giochi senza frontiere, non si può evitare di ricordare le variopinte bardature dei fantini – ma anche dei cavalli, dei tifosi – durante il Palio di Siena.

Il quest'ultimo caso, che è poi l’emblematizzazione postrema della logica medievale dei campanili, non abbiamo un confronto tra idee di mondo contrapposte, alternative in una verificabile consistenza logica o materiale, ma tra fogge occasionalmente distinte nelle sole tonalità di superficie, stagliate sullo sfondo una campitura monocroma e uniforme. Si tratta infatti del medesimo sentire popolare, che possiamo appunto collocare nella cultura del tardo medioevo, fondata su un esasperato particolarismo e sull'identità quale effetto di mera differenza.

Politica come ritorno alla polis, dunque. Ma non nel senso del pubblico dibattito delle idee da disputare nell’Agorà. Quanto della mia polis che è diversa dalla tua polis; il mio quartiere, la mia contrada che vince sulla tua contrada; il mio ballatoio che non è il tuo ballatoio e quindi ci metto un fazzoletto verde, o arancione, ci metto comunque un fazzoletto, un segno. Un segno – attenzione! – il quale sia però totalmente svincolato da un significato sottostante, e dunque più che un segno dovremmo propriamente chiamarlo un ornamento. Tutto ciò, nella storia dell’umanità, ha un nome ben chiaro e definito: si chiama sistema della moda.

Ma a cosa esattamente corrisponde il sistema della moda, quando applicato alla vita associata di una moltitudine di persone, alla loro condizione di cittadini? Da cui, domanda successiva: è sempre stato così?

Con sistema della moda mi riferisco qui a una pratica non solo, o non più, di pregiata elaborazione di capi d'abbigliamento, ma a qualsiasi strategia espressiva fondata su una ricorsività esteriore senza più vincoli significativi, se non quelli di un'azione catalizzante, e aggregante, di gruppi umani senza alcuna progettualità sociale. A pagina novantanove de Lo scambio simbolico e la morte, scrive Jean Baudrillard: "Nella moda come nel codice, i significati si defilano, e le sfilate del significante non conducono più da nessuna parte".

Che la politica possa, o forse debba essere altro dalla logica della moda, fatta come si è visto di gesti al netto di un'intenzione realmente trasformativa, di un codice ciclico senza alcun senso umano, possiamo allora intuirlo dalla lettura di un libro a caso tra i molti che ha scritto Giovannino Guareschi; o per chi, come me, è un po’ pigro o impaziente di conoscere il finale, da uno dei numerosi film che il regista francese Julien Duvivier ne ha ricavato, protagonisti Peppone e Don Camillo.

Nelle vicende del sindaco e del parroco di Brescello, piccolo borgo nei pressi di Reggio Emilia, noi ritroviamo un’umanità del tutto coerente: per abbigliamento, gusti, interessi e anche postura e conformazione fisica. I fazzoletti a volte sono rossi e altre bianchi, certo, ma nell’insieme ciò che si staglia è una sorta di ideal-tipo dell’italiano medio degli anni cinquanta, con un piede ancora nel mondo arcaico e contadino e l’altro nella rombante utopia del nuovo secolo, che ha trovato nel mito della Ferrari una delle sue insegne più scintillanti.

L’Italia, e soprattutto gli italiani, nei romanzi di Don Camillo sono dunque una cosa sola. Ma diversi e radicalmente alternativi sono i modi di intendere la vita associata: da una parte abbiamo il sogno di rinnovamento sociale di cui il Comunismo e la Russia si fanno portatori (e senza entrare nel merito, spesso illusorio, di quella speranza), mentre dall’altro abbiamo una reazione conservativa ai nuovi ideali, che trova nei valori cristiani e nell’istituzione cattolica il suo riferimento più stabile e certo.

Parlare di politica, negli anni cinquanta, equivaleva dunque a parlare di valori, intendimenti morali; ma anche degli assetti economici e materiali che stanno alla base delle vita comunitaria – parlare e anche azzuffarsi, intendo. Nelle forme di una pubblica e anche composta esistenza, quelle Italie così diverse, così realmente contrapposte, avevano però trovato un accordo provvisorio: lo stesso modo di indossare le povere braghe di velluto a coste, le stesse femmine verso cui girarsi dai tavolini dei bar; lo stesso modo di sputare per terra a passaggio avvenuto, perfino. Per dopo aggiungere: “Boia dun mond leder…”

Non si può invece dire la medesima cosa per la politica attuale. Se andiamo a leggere, ma con attenzione, i programmi delle diverse fazioni che si contendono la scena politica – e una delle parti è appunto quella per cui simpatizzano Daria Colombo e Roberto Vecchioni – ci accorgiamo che si distinguono solamente per minime ripartizioni della spesa pubblica, o per un’idea della giustizia certamente alternativa. Non però così alternativa da giustificare lo sprezzo reciproco che relega l’interlocutore nell’inconsistenza espressiva: l’altro è solo un colore, un fazzoletto che garrisce al vento. Viene quindi accostato in una generale afasia di contenuti, in buona parte effettiva, ossia ricercata per scelte di marketing elettorale, che colloca gli schieramenti quali griffe di moda concorrenti. L'altro, insomma, è uno stile.

Nella sostanza – cioè nelle premesse economiche e materiali, nei valori umani profondi – la prassi politica del presente è dunque in buona parte sovrapponibile. Ci sono effettivamente degli stili politici diversi, anche molto diversi, che si contendono a suon di bizzarrie o classico rigore la moda del momento. Ma la polpa è quella di un generale defilarsi di significati e progetti, mentre le sfilate del significante si sono accampate nei talk show, dove ci si spartisce il chiassoso lustro della ribalta. E così al termine della passerella Dolce bacia Gabbana, Gabbana bacia Armani, Armani bacia la sorella di Versace e così via...

Accostato in tale prospettiva di divergenza sintattica ma convergenza grammaticale, diciamo così, quel che io ho chiamato tribalizzazione formale si mostra allora quale ennesimo fenomeno di maquillage politico. Abbiamo dei clan umani che fanno finta di pensarla diversamente, che fanno finta di farsi la guerra, e hanno dunque bisogno di una divisa con cui potersi riconoscere, fare truppa; specie quando si incontrano nel bosco e si fanno BAU, o si sparano con uno di qui fucilini giocattolo caricati con proiettili di vernice. I loro linguaggi e perfino le loro facce, i loro corpi, sono profondamente mutati dagli anni cinquanta, al punto che davvero stentano a riconoscersi l'uno con l'altro quando si incontrano all'osteria, o in un lounge bar per l'happy hour. Ma il loro sogno si è fatto ogni notte sempre più piccolo, fino a stare nel medesimo conta pillole.

In una bella canzone del 1984, Il grande sogno, Vecchioni cantava: "L'importante è chi il sogno ce l'ha più grande \ l'importante è di avercela la gioventù". Ecco, io penso che nella cornice sociale del quadro politico qui accennato solo per brevi pennellate, si stia mostrando un'incrinatura, un pericoloso declino della potenza immaginativa - una sclerosi - di un popolo ormai invecchiato in una triste simulazione d'infanzia. Tutto ciò conduce a una sorta di nanismo onirico, che ha nel nostro ministro della Funzione pubblica e dell'Innovazione il suo evidente correlativo politico. Ma diversamente da come si potrebbe credere, a questo primo movimento non si accompagna una guadagnata saggezza senile, nella forma di capacità razionali e analitiche con cui dare un nome e una giusta collocazione alle cose, non solamente un colore.

Non si tratta nemmeno, come alcuni lamentano scoraggiati, di una corrispondenza qualunquistica degli ideali - rossi, neri: tutti uguali, era la battuta di un vecchio film di Nanni Moretti, che giustamente si incazzava -, ma della loro radicalizzazione in un gioco che è in buona parte solo esteriore. Mentre al fondo è fin troppo facile intravedere una resa collettiva alla situazione presente, che non si sa più con quali strumenti interpretare, comprendere, prima ancora che incidere. Si cerca insomma di colorare le porzioni puntinate dell'immagine, nella speranza che sulla Settimana enigmistica compaia la sagoma del disegno, che ancora ci sfugge.

Potremmo ipotizzare che a un’imbarazzante uniformità nella visione delle cose ultime, si affianchi l’esacerbarsi della contrapposizione sulle cose prime; e cioè ancora quelle di superficie, l’abito del mondo. Una visione che è appunto solamente estetica, sartoriale.

E così ecco schierati i verdi di Bossi, i neri di quell’altro, i blu, i fucsia e ora anche gli arancioni di Colombo e Vecchioni, nuovi couturier della sinistra ornamentale per l'estate, in attesa della collezione autunno/inverno. L'ultima e più pertinente domanda allora non è se ci fosse bisogno di questo estremo gesto di particolarità estetica nella politica italiana, ma se, come si ricava dal sistema della moda, alla base della ricorsività degli stili e delle fogge non sia già presente una sostanziale equivalenza del modello. Che potremmo far risalire all’archetipo italiano di Arlecchino servitore di due padroni: il Potere, e la Rappresentazione.

2 commenti:

  1. so mica perché, ma il cache col [;-)] mi ha richiamato i sans culottes. e le abuelas di plaza de mayo. che a loro volta mi urlano, più che richiamano, il senso della piazza. e torno così alla polis: ed è un modo per far girare in piazza le idee, senza dover tenere un comizio, quello di pubblicare un nastrino arancione attorno al polso, da elemento formale a elemento intrinseco, dal significato netto non necessariamente di pugno alzato. e dopo la piazza di brescello, QUELLA piazza che non c'è più, e un altro po' di sano amarcord http://www.youtube.com/watch?v=6X135rOfEIg
    elisabetta

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  2. Elisabetta, ti ringrazio, intanto, di avermi ricordato come si scrive cache-col, che io avevo scritto sbagliato. in effetti i più lo scrivono a questo modo, altri cache col - come hai fatto tu - e altri ancora cachecol. io comunque l'avevo scritto in una forma maccheronica e orecchiata, provando un'intima avversione per l'oggetto; a cui nel gioco della torre preferirei di gran lunga il setoso fazzolettino da dandy... quanto al resto, che aggiungere: quel che tu chiami "idee" (di sinistra) a me continuano a sfuggire; o meglio le vedo intimamente connesse a un orizzonte ornamentale e privo di riferimenti concreti alla realtà vissuta, che è appunto l'orizzonte della moda. ha forse un'idea di mondo alternativa all'esistente, il partito democratico della sinistra? e anche se ce l'avesse: non pervenuta, non articolata in una forma negoziabile dentro un progetto politico di cambiamento. e dunque, a me pare che si limitino ad adornare l'uovo di pasqua con molti addobbi e lustrini e nastrini. in attesa, forse, che senza uno sforzo generativo compaia magicamente la sorpresa...

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