Mi ricordo di
una trattoria nelle vicinanze di Pavia, ci andavo spesso negli anni dell’università. Si chiamava i Casoni, dalla località in
cui si trovava; ma il nome riflette anche la struttura architettonica
massiccia, avrebbe potuto fare da modello a un olio a impasto di Sironi. Come in quasi
tutte le trattorie i tavoli erano ricoperti da tovaglie a quadri bianchi
e rossi (su alcune si scorgeva l’alone porpora della Bonarda fuoriuscita
dalle caraffe) e sul lato destro della sala spiccava un televisore a tubo catodico di media
grandezza, l’ho sempre trovato acceso. Il sabato sera era sintonizzato su Canale 5,
nemmeno per una partita della Nazionale erano contemplate eccezioni: quello era
il giorno in cui veniva trasmessa La Corrida di Corrado, un programma
definito di dilettanti allo sbaraglio.
Non che nell’appartamento
condiviso con altri studenti, al termine di Corso Garibaldi, mancasse il televisore,
ma a me La Corrida piaceva guardarla ai Casoni. In qualsiasi altro luogo smetteva di piacermi. Le mani si muovevano senza bisogno del complemento della vista, avevano imparato, per puro istinto, a infilzare con la forchetta un boccone di bollito, intingerlo nella salsa verde e infine
portarlo alla bocca. Un sabato invitai una ragazza conosciuta da poco, era
una studentessa di filosofia come me, fu l’unica volta che uscimmo assieme. Sospetto
che non gradì il fatto che, per tutta la durata della cena, non avevo fissato i suoi begli occhioni azzurri, ma i goffi tentativi di rimediare un applauso da parte degli ospiti del programma di Corrado, scambiando commenti con le persone sedute ai tavoli vicini. Pazienza,
si vede che non era la donna della mia vita.
Un errore che
successivamente evitai di commettere, e ai Casoni presi ad andare alla spicciolata, naturalmente sempre e solo di sabato. Così non venivo distratto da discorsi intellettuali sulla seconda navigazione di Platone, oppure sul desiderio mimetico in Shakespeare nell'interpretazione di Renè Girard;
tutte cose interessanti, intendiamoci. Ma ogni esistenza vuole il suo carnevale, un
ribaltamento prospettico in cui a essere interessante diventa l’uomo che intona
l’inno di Mameli con rutti e altri gorgheggi esofagei – che tipo! Peccato che il pubblico in studio
l’avesse fischiato, mentre io e un rappresentante di depuratori industriali di Vicenza ne eravamo entusiasti.
Perché era
questo che accadeva ai Casoni. Entravi per conto tuo, ti sedevi, e arrivava la
padrona che faceva anche da cameriera e da cuoca. “Cosa c’è di buono quest'oggi?” domandavo, come se entrambi non lo sapessimo già: alla fine avrei
ordinato bollito misto e un quartino di Bonarda. Ma lei, un donnone robusto, in
sintonia con il locale, mi teneva la parte. E insomma fin qui tutto normale. Quando
iniziava La Corrida però accadeva qualcosa, brillava una scintilla, che ne so, e si levava puntuale
il commento: “Cacciate via quell'incapace!” “Ma no,
dai, non è così malaccio” faceva eco un geometra di Voghera. "Sì, se il tipo sa cantare allora io sono Alain Delon..." E partiva una conversazione
di schietta orizzontalità, tutti i tavoli finivano con l'esserne coinvolti. Era la cosa più vicina al concetto di famiglia.
D’accordo, io una famiglia già ce l’avevo, stava a Sondrio. Un padre chiuso in un silenzio rancoroso che pensa solo ad andare in montagna la domenica, e una madre che satura lo spazio sonoro per mezzo di interminabili conversazioni telefoniche con le cugine, oppure con la Titta che era l'amica di una vita. Cambiava solo la lingua: con la Titta parlava in italiano e con le cugine in dialetto valtellinese. In mezzo ci stavo io, e non c’è bisogno di spiegare perché il più delle volte rimanevo a Pavia anche nel fine settimana, mentre i miei compagni di università tornavano a casa. Se non altro qui c’erano i Casoni, dove della famiglia trovavo un lieto e buffo surrogato; quanto si era riso per la signora Giulia di Poggio Bustone, che aveva interpretato Teresina con accento sabino: “Di nome son chiamata Teresina, ho ventun anni e son molto carina…”
Ai Casoni era presente un gatto bianco e nero, possedeva la stessa complessione della proprietaria. Se ti distraevi un attimo balzava sul tavolo, afferrava la coscia del pollo e poi correva a divorarla nel piazzale sterrato antistante, che faceva da parcheggio, dehor e aia in cui razzolavano le galline; il cane meticcio avrebbe volentieri condiviso il furto, ma era legato alla catena. Sullo sfondo l'auto con due in camporella, a qualche chilometro indugiava il Ticino, sembrava immobile ma in realtà non potevi bagnarti due volte nelle stesse acque – poco altro ho trattenuto dei miei studi –, mentre dietro le finestre delle villette dell'Oltrepò immaginavo le famiglie vere, rischiarate dal lucore degli schermi televisivi replicavano i nostri discorsi, oppure si odiavano in silenzio come facevano i miei genitori. Per fortuna, il gatto mi aveva lasciato la Bonarda.
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