Mi ricordo che a marzo ogni anno arrivavano le giostre, in leggero anticipo sulle rondini. Occupavano un prato spelacchiato di fronte all’abitazione dei miei nonni paterni, in via privata Moroni, una minuscola traversa di via Mazzini. Dal lato opposto della strada ora si trova il Tribunale di Sondrio, un palazzone in stile umbertino che fino al 1982 ancora ospitava l’Istituto Tecnico Commerciale De Simoni – in fondo, si tratta sempre di partita doppia: a ogni torto deve corrispondere una punizione proporzionata, per terminare la contabilità in pari.
Le giostre erano in effetti poca cosa, risolvendosi in autoscontro,
calcinculo, tirassegno e pungiball meccanico, che ho scoperto chiamarsi pungnometro. A me piaceva soprattutto quest’ultimo. Era
sempre presente una piccola folla disposta a semicerchio, all’interno del quale si creava una
triangolazione di sguardi, un’asimmetria che non riusciva mai a trovare il punto di equilibrio: le ragazze cercavano di individuare il maschio alfa, i miei occhi scorrevano sui corpi morbidi delle ragazze più grandi, mentre i maschi se ne fregavano sia di me che delle ragazze, fissando grintosi la sfera
di cuoio da colpire con violenza, e, in seguito, compiaciuti i propri muscoli. Quindi riposizionavano il pacchetto di Marlboro nella spallina della t-shirt.
Un pomeriggio in cui stranamente nessuno era nei paraggi, provai anch’io a sferrare un bel pugno, ma come prevedibile non squillò la sirena
riservata ai colpi che scuotevano il baracchino di metallo, e uscì la scritta una signorina farebbe di più.
Le altre sentenze erano, a salire: sei un pappamolle; hai fatto ciao ciao al
pallone; intellettuale; forse la prossima volta; una botta discreta; potresti fare
il muratore; sei una forza della natura; che pugno da KO;
forza Ercole; ti aspetta Cassius Clay. Sì, aspetta e spera pensavo… e mi facevo
un giro in autoscontro.
Non so se fosse un caso, ma tutte le volte che mi avvicinavo all’autoscontro venivo avvolto dalle note di una canzone elettronica di Baciotti; il nome, chissà perché, mi faceva un po’ ridere, come Jovanotti. Black Jack, come back recitava il refrain, Black Jack, come back, finché non si ficcava in testa. Le parole inglesi di contorno non le comprendevo, ma sospetto non fossero decisive. Importante è che Black Jack tornasse indietro.
Il giostraio era un uomo dalla faccia enorme e come incartocciata, non usciva quasi mai da un pullman riconvertito, dove da uno sportello scambiava lire con gettoni di plastica. Ma se si alzava, c’era da aver paura: o era incazzato con qualcuno che aveva fatto qualcosa che non va, oppure si sgranchiva le gambe facendo due passi, e le braccia, non meno espanse del faccione, tirando un paio di cazzotti. Se l'obiettivo non era umano si sfogava anche lui sul pugnometro, dal quale puntualmente ritornava l'avviso che Cassius Clay lo stava aspettando. Così a naso, se la sarebbero giocata alla pari.
Il figlio del giostraio aveva la mia età e un nome da fotoromanzo,
ma appariva più adulto. Al termine della corsa andava a riprendere le vetture abbandonate
a centro pista, talvolta scortando due mezzi contemporaneamente. Un'operazione che mi ricordava i cavallerizzi del circo Medrano quando, in piedi con le gambe divaricate, montano due cavalli bianchi, un piede poggiato sul dorso di ciascuno. Altre volte rimaneva sul cordolo di gomma, con una mano conduceva e con l’altra sembrava
salutare il pubblico, conscio di essere al centro dell’attenzione. Una
teatralità che faceva premio con le ragazzine, non che fosse davvero più bello
di noialtri.
Il calcinculo, confesso, mi faceva un po’ paura, ma
due o tre volte comunque ci provai, e al termine mi veniva puntualmente da
vomitare. Quanto al tirassegno, durava troppo poco: taratatata ed era già tutto finito. Secondo me, gli uomini mettevano alla prova la propria mira solamente per via della donna che
porgeva la carabina: indossava una camicetta sempre un po’ sbottonata, e nel caricare l'arma scuoteva dolcemente la lunga chioma corvina. E poi che
cavolo me ne facevo della bottiglia di Asti spumante, anche se l’avessi vinta avevo comunque
dieci anni, non potevano mettere in palio una Fanta o una Cedrata Tassoni?
Rimaneva la giostra circolare, i cavallucci in legno erano stati sostituiti da motociclette, automobili scoperte – la più ricercata era l'auto della Polizia –, camion dei pompieri con due volanti per non scontentare nessuno. Era presente anche una navetta aerea come quelle delle giostre spaziali dei luna park, ma si sollevava dal suolo un metro al massimo e non poteva essere governata dalla cloche. In questo caso, il sottofondo musicale veniva offerto dalla colonna sonora dello sceneggiato televisivo su Pinocchio. Il nonno ogni tanto ancora mi chiedeva se volevo farci un giro – ma che sei scemo, mica faccio la prima elementare!
Naturalmente lo pensavo soltanto, e subito dopo mi
pentivo. No, il nonno non era scemo, aveva solo idee da nonno. Per lui i tre anni trascorsi dalla prima elementare erano un cambio di liquido dei freni; al limite, già che c'eri, si cambiavano pure le candele. Mentre per me tre anni erano suono. Esisteva un
punto esatto, tra l’autoscontro e la giostra dei bambini, in cui le note si contendevano il padiglione auricolare, con Black
Jack e Pinocchio in perfetta stereofonia. Ma bastava fare un passo, in
una direzione o nell’altra, perché sparisse la traccia sonora divergente.
E così quando il mio piede aveva scavallato il confine i giochi erano fatti. No, non è vero che Black Jack poteva tornare indietro, nessun come back: l’autoscontro era il premio ma anche il pegno del diventare grandi, ovvero mai più piccoli. Il burattino di legno o diventa uomo o viene gettato tra le fiamme da Mangiafuoco, che per me avrà sempre il volto enorme e incartocciato del giostraio.
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