Mi ricordo di Beatrice. È curioso ricordarsi di
qualcuno che non si è mai conosciuto, nemmeno incrociato al bar o in coda alle
Poste, dove gli occhi ingannano il tempo perlustrando i corpi dei vicini. Cosa
più unica che rara in una città piccola come questa. Ma poi ho guardato
meglio e ho visto che viveva a Ponte, un paese a una decina di chilometri da
Sondrio noto per le sue belle mele rosse.
Andando a fare la spesa al supermercato di via
Parolo, ho dato la solita scorsa al tabellone di metallo su cui vengono affissi
i manifesti funebri. Da ragazzo li ignoravo sentendomi a mia volta ignorato.
Morire, mi dicevo, è una cosa da vecchi, ci penserò quando avrò un orologio a
cipolla e centrini all'uncinetto sul comò.
Nessun cognome, adesso è una cosa che si usa, il solo
nome di battesimo produce maggiore intimità, specie se ti chiami Beatrice, come
Beatrice Portinari. I commentari danteschi riportano che è morta a Firenze l'8
giugno del 1290, l'unico dubbio è se allora fosse nel ventiquattresimo o
venticinquesimo anno della sua breve vita.
La ragazza sembra avere più o meno la stessa età, almeno al tempo della
fotografia che accompagna la comunicazione del decesso. Sorride, un filo di
trucco o forse niente, quello che si dice un viso acqua e sapone. È leggermente
incongruo con il minimo tatuaggio amatoriale sull'avambraccio destro, una
stella a cinque punte.
Il cagnetto bianco che abbraccia dovrebbe essere di
razza maltese. Lei reclina il capo fino ad affondarlo nella pelliccia,
l'animale le si affida fiducioso, una struttura a piramide dell'immagine che
ricalca i dipinti rinascimentali della Madonna con bambino. E poi la frase
virgolettata: "Il tuo sorriso era luce per chi ti amava, e ora illumina il
cielo che ti custodisce."
Ho fatto una ricerca su internet, ma non viene
riferita a nessuno in particolare: è semplicemente una frase di circostanza,
probabilmente un'idea dell'agente delle pompe funebri. Sono rimasto colpito più
da quello che sta scritto sotto: "Con infinito amore, il tuo papà."
Sul fatto che non siano menzionati fratelli, beh, potrebbe essere figlia unica,
e gli altri parenti aver realizzato un manifesto autonomo. Ma perché l'infinito
amore è solo quello del tuo papà, e non anche della tua mamma?
Forse è morta a sua volta, l'uomo è vedovo, cosa che renderebbe il commiato
ancora più triste. O magari sono separati, e in un rapporto talmente logoro da
non volere accostare il proprio nome alla donna che gli ha dato una figlia. Nemmeno in un
momento in cui il cratere della scomparsa, di norma, rende le beghe di
superficie tanto piccole. Ma in tal caso sarebbe una vicenda che dell'amore
include la sua ombra, ortiche e crisantemi si intrecciano nella stessa corona. Rose
e petunie.
Da qualche anno va così, mi commuovono i manifesti funebri degli sconosciuti.
Da buon ipocondriaco formulo ipotesi sulla causa del decesso, che si allargano
e trasformano in narrazioni ipotetiche di un'intera esistenza, castelli di parole in riva al mare. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul
perché la letteratura di pura finzione sta perdendo colpi, pensi a Beatrice: ci
costruisca attorno una storia.
Una storia che includa la maglietta grigia che indossa
nella fotografia. Il tessuto sembra Poliestere, forse praticava
qualche sport, anche io quando giocavo a pallacanestro portavo magliette
simili, su cui risaltava il sudore in chiazze. I lunghi capelli castani,
quando scendeva in campo, venivano legati in una coda di cavallo, e il cane alla sera capiva se aveva vinto oppure perso... Adesso chi lo
terrà?
Lo immagino fermo davanti alla porta di casa ad
aspettare la padroncina, come in quel film con Richard Gere. Ma
soprattutto è la storia del suo papà. Possiede la stessa funzione narrativa di
Dante nella Commedia: colui a cui viene consegnato il ricordo della
gioia, una gioia sfiorata e persa. È troppo grande per una sola vita,
e così, nella morte, diventa il dolore e la richiesta di senso di tutti.
Per la proprietà transitiva delle storie, da quando ho assimilato il ricordo di Beatrice anch'io mi sento offeso: avverto la sua perdita come ingiusta, sono stato privato della mia quota parte di un bene. In fondo, siamo tutti titolari e, al tempo stesso, oggetto di un azionariato diffuso dell'umano. E non attenua ma scava nella ferita il fatto che non sapessi di essere tanto ricco.

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