venerdì 29 novembre 2024

Mi ricordo 26

 


Mi ricordo mio nonno Pinin che dice con tono perentorio: “Non guardate la fiamma del saldatore!” In testa ha un cappelletto marrone di velluto a coste, con una mano tiene stretta la mano di mio cugino Paolo e con l’altra la mia; siamo fermi a osservare un cantiere stradale. Insieme a noi ci sono altri nonni con i nipotini in età prescolare, pensionati con e senza bretelle, il geometra incaricato dal Comune lo si riconosce dalle lenti verdi a goccia degli occhiali da sole, i Ray-Ban si accoppiano in modo disinvolto al giubbetto scamosciato in renna, abbigliamento che negli anni Settanta fa di lui un fascista. Tra il minimo pubblico adunato al di là delle transenne bianche a bande rosse c’è anche uno scemo. Grida suggerimenti sconclusionati, interviene mentre viene rimosso il chiusino di ghisa di un tombino, non si capisce bene questa volta cosa voglia; in ogni caso, nessuno gli avrebbe dato retta. “Non guardate la fiamma del saldatore” ripete il nonno.” Si chiama ossidrica, fiamma ossidrica” lo corregge mio cugino Paolo, che ha un anno più di me e conosce già le parole difficili. “Chiamatela come vi pare, ma non guardatela! Chi la guarda diventa cieco.” E nell’udire quel termine giriamo immediatamente la testa dall’altra parte; non la stessa parte però: io punto gli occhi sullo scemo e mio cugino si concentra su una carriola colma di sabbia. Da quel giorno, ogni volta che incrocio qualcuno intento a saldare – non lo riconosco dalla fiamma soffiata a forza dal cannello, ho imparato fin troppo bene la lezione, ma dalla maschera che impugna e lo rende simile alla Morte Nera in Guerre Stellari – distolgo immediatamente lo sguardo e istintivamente cerco la presenza di uno scemo; in genere lo trovo sempre, ce ne sono tanti in giro. A quel punto rimango imbambolato a fissarlo, c’è qualcosa nella sua scemenza che mi cattura, forse lo associo al pericolo scampato, o magari fa da riflesso a una parte di me brutta per gli altri, ma a me piace come il bambino che si inorgoglisce nell’osservare la propria cacca. Resta da capire se anche mio cugino Paolo ancora si incanti di fronte alle carriole colme di sabbia.

martedì 26 novembre 2024

La scrittrice, il filosofo e la trasformazione della tragedia in farsa.

La storia si ripete sempre due volte… Della vicenda che coinvolge Leonardo Caffo e il suo invito a Più libri, più liberi, la manifestazione letteraria romana diretta da Chiara Valerio, con le successive polemiche legate alle accuse dell’ex compagna di Caffo di stalking e violenze private, quindi la rinuncia a partecipare del giovane filosofo antispecista (addirittura ha adombrato il suicidio), la Valerio lo difende appoggiandosi al principio di presunzione di innocenza, poi però cambia idea e mica è detto sia finita qui... insomma, a me, di tutta questa infinita pantomima, più che altro risuona il famoso aforisma di Karl Marx: "La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa."

Ma arriviamoci per gradi, la forma interrogativa ci è forse d'aiuto. Possiamo, è intellettualmente lecito intendo, identificare Caffo come un brutale rappresentante del patriarcato, seguendo una tendenza a cui i social fanno da consueto volano? Di conseguenza, Chiara Valerio avrebbe tradito il patto di sorellanza: è una rinnegata! viene detto da più parti.

Massì, possiamo, possiamo dire ciò che ci pare, e infatti lo stiamo facendo. Come cantava Giorgio Gaber, viviamo in un tempo in cui tutto si può, compreso farsi una bella lega. Ma se andiamo a leggere le carte processuali e fermo restando la presunta innocenza dell'imputato – su questo ha perfettamente ragione Valerio –, scopriamo che, dopo le violenze di cui è accusato, Caffo sarebbe ogni volta svenuto, o avrebbe supplicato la fidanzata malmenata di chiamare soccorsi: per lui, beninteso. Non per lei. Già che l’avere scoperchiato il vaso di Pandora della propria aggressività gli avrebbe procurato degli attacchi di panico. È la stessa donna ad averlo dichiarato alla magistratura inquirente, non la sceneggiatura di un film con protagonista Christian De Sica: "Amo', chiamame 'n ambulanza, dai, movete... me sta a girà tutto."

La vicenda ripropone una questione urgente: l’aggiornamento del vocabolario, come viene fatto l’update delle app sullo smartphone è necessario aggiornare le parole. La parola fascismo, ad esempio. Il fascismo è terminato il 27 luglio del 1945, non esistono rischi che si riproponga con gli stessi abiti in orbace. Eppure, nell’intero Occidente stiamo vivendo una recrudescenza di culture politiche autoritarie, al fascismo possono essere associate per via simbolica, ma possiedono una natura specifica e specifiche finalità. Dargli un nome nuovo e più appropriato è funzionale a combatterle.

Allo stesso modo, il patriarcato è una struttura economica e sociale che ha dominato incontrastata a partire dal primo millennio a.C. – una precedente epoca matriarcale è per la verità solo ipotetica, ma alcuni indizi non ne escludono la possibilità –, estendendosi con minime variazioni fino al 1600, quando è cominciata a entrare in crisi. Questa temporizzazione, suggerita da Massimo Cacciari, la ricaviamo dalle opere di Shakespeare, dove troviamo figure maschili sempre più smarrite e incerte nei confronti delle donne. Crisi che si approfondisce con la rivoluzione industriale e l’urbanizzazione, a cui è seguita, nell’Ottocento, l’affermazione della borghesia cittadina (pensiamo a Carlo Bovary, come Amleto altro esempio di maschio post patriarcale) per trovare definitiva dissoluzione con i movimenti del '68.

Da oltre cinquant’anni è dunque improprio parlare di patriarcato, a maggior ragione quando la pur gravità delle imputazioni – la violenza è violenza – prende connotati decisamente farseschi. Detto ciò, bisogna riconoscere che al tramonto del sistema patriarcale non è seguita una sorta di palingenesi femminile, e nelle società occidentali è rimasto un primato maschile a tutti i livelli: politico, economico, sportivo, perfino la sessualità ne è coinvolta. E se le violenze sulle donne sono sempre esistite, viene il sospetto che ne sia mutata la natura: da famigliare e quotidiana, quale vediamo nel film della Cortellesi, si è passati a episodi meno diffusi ma più distruttivi, che prendono il nome di femminicidi – nel 2023 abbiamo avuto, solo in Italia e in base ai dati Istat, 96 femminicidi. Il numero è quasi triplicato rispetto agli anni Novanta.

Una delle ipotesi ricavate dalla psicologia sociale è che questi episodi rappresentino, per paradosso, proprio la conferma dell’implosione del modello patriarcale, che lascia non tutti i maschi, sia chiaro, ma solo quelli meno attrezzati emotivamente senza strumenti (se non appunto la forza) per gestire la conquistata autonomia femminile. Ma di nuovo, come chiamarlo? Montale ammoniva: codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Se a uno dei più grandi poeti del Novecento mancavano le parole, non sarò certo io a cavare le castagne dal fuoco. Provvisoriamente facciamo come lui, diciamo ciò che NON vogliamo, la violenza sulle donne sta in cima alla lista dei rifiuti; ma diciamo anche ciò che non siamo: patriarcali. Poi, però, con calma, una nuova parola va trovata, allo stesso modo dell’autoritarismo a matrice plebiscitaria e nazionalistica, che ripetiamo non è fascismo. Sono due voragini linguistiche da colmare. Senza le parole giuste le cose non vengono infatti comprese, e, senza comprensione, opporsi risulta caotico e soprattutto velleitario.

domenica 24 novembre 2024

Metamorfosi

La neo coppia composta da Chiara Ferragni e Giovanni Tronchetti Provera rappresenta una sintesi mirabile di ciò che Pasolini chiamava mutazione antropologica. Il problema non sono dunque loro, ma il fatto che simili facce da cui trasuda il fatturato (vero o presunto) le si incontrino ovunque, basta farsi un giro in un centro commerciale il sabato pomeriggio: quei nasini, quei sorrisini, quegli occhiettini azzurrini e vacui sono diventati la norma, non più l'eccezione. E anche quell'indicibile desiderio di prenderli a calci in culo. È però una tentazione a cui bisogna resistere, non solo per le conseguenze a cui andremmo incontro – lasciamo provvisoriamente tra parentesi la morale, anche avere una faccia del genere è infatti immorale –, ma perché non possiamo escludere di svegliarci una mattina e vedere le medesime insulse fattezze riflesse nello specchio del bagno. Se Kafka riscrivesse oggi il suo racconto, non in scarafaggio, ma in Tronchetti Provera Junior trasformerebbe Gregor Samsa.

sabato 23 novembre 2024

Mi ricordo 25

 

Mi ricordo di una voce che sale di tono, si fa grido: “Shultz è impazzito” dice la voce, “ha cambiato ventimila lire in monetine e ora li sta dilapidando ai videogiochi!” Non so restituire un volto alla voce, probabilmente era tutti i volti, era un noi, anch’io ne facevo parte e così montai immediatamente sulla mia Vespa (un PX 125 bianco con l'adesivo di Radio Studio 105) e assieme alle altre Vespe ci precipitammo al Bar Sole, dovevamo salvare Shultz dalla follia. Quando arrivammo Shultz era seduto su uno sgabello di fronte al bancone, tra l’indice e il medio della mano destra pendeva una Marlboro accesa, con l’altra mano impugnava una Stella Artois alla spina. È vero, prima si era fatto tre o quattro partite a Pac-Man, ma al momento guardava alle nostre felpe Stone Island come la ragazza rapita dai Comanche guarda all'arrivo di John Wayne, uno zio impiccione di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Poi disse in un unico suono che non conteneva nessuna erre, dunque senza il suo consueto rotacismo, non sembrava nemmeno lui, lo disse quasi ridacchiando: "Cazzovolete?" Una domanda che attraversa i decenni lasciando un'eco dietro di sé – cazzovolete-ete-ete... – per ripresentarsi in forma di enigma: cosa volevamo, già, in quello pomeriggio di giugno del 1983, cosa pensavamo di poter/dover fare per Shultz, da dove questa idea romantica e anche un po' equivoca per cui il tutto incorpora le parti, se ne prende cura secondo logiche da formicaio? Un enigma a cui, per comodità, diamo il nome di gioventù.

Mi ricordo 24

Mi ricordo di Orvieto, non la città, si tratta in questo caso di un cognome, appartiene a un mio compagno di classe delle medie. Di altri compagni ho memorie definite, di lui solo l'immagine del cespuglio nero e crespo dei capelli; spiccava nella fila dei banchi alla mia sinistra, verso i finestroni da cui si scorgeva il cubo di cemento della palestra e, più dietro, l'arco dell'Adamello. Le cime rimanevano innevate fino a tarda primavera.

Il suo anonimato si rifletteva negli studi, in cui non brillava di certo, ma nemmeno collezionava note sul registro come me. Una via di mezzo, una media leggermente al ribasso, con tutte le premesse per diventare un uomo altrettanto medio, abbozzi di vita in cui la cornice si ingoia piano piano il ritratto. O perlomeno così appariva, e bisogna sempre diffidare delle apparenze.

In ogni caso, quella brava era l'Acquistapace. Piccolina, occhi azzurri, capelli lunghi e lisci e biondi. Talmente bella che scommetterei sia stata utilizzata come calco nel realizzare la statuina della Madonna, da adagiare con cura nel muschio del presepe. Di lei naturalmente ricordo tutto, tra cui il nome, Simona, e l'odore di marzapane che emanava quando si alzava per andare alla cattedra a ritirare il suo tema, dopo che la professoressa Cozzini ne aveva letto uno stralcio a voce alta.

Trascorsi pochi giorni dal compito in classe di italiano, era una prassi a cui avevamo preso l'abitudine: sia la lettura di qualche passaggio dal tema con il voto più alto, sia che quel tema appartenesse all'Acquistapace. Fu dunque grande lo stupore, una mattina in cui il sole tardava a manifestarsi e l'Adamello era più innevato del solito, nel non udire un levigato estratto dal tema dell'Acquistapace, ma per intero quello di Orvieto. Titolo: Parla di tuo padre.

A un certo punto la Cozzini si commosse pure un po'. Fu quando, con parole semplici e sentite, descriveva il ritorno dal Belgio del padre, dopo anni in miniera. La gratitudine per quest'uomo che sentiva tossire nel letto, la nominazione di ogni sfinita parte del suo corpo (a volte i termini erano dialettali, Orvieto non conosceva tutte le sfumature della lingua inventata da Dante e resa popolare da Mike Bongiorno, evidentemente poco parlata in famiglia), soffermandosi sulle mani. E poi quella brutta parola: silicosi, qui trasformata in forma concreta, correlativo dell'affetto di un padre per il figlio. Il quale lo ricambiava con l'uguale concretezza dell'inchiostro.

Non sto dicendo che fosse un capolavoro, ma per la prima volta intuivo la differenza tra sentimento e sentimentalismo. Se i miei temi erano pieni di sarcasmo per sfuggire la trappola del glucosio in forma verbale – avevo una fama da bullo da mantenere –, non la grande letteratura ma il tema di Orvieto mi mostrava ora il mondo da una prospettiva diversa: essere porosi, assorbire, non avere fretta di restituire l'esperienza. Il sentimento somiglia piuttosto a un alambicco, bisogna lasciare ebollire prima di vedere sgorgare una goccia preziosa.

Ecco, quella era una possibilità che non avevo considerato, come nello stesso periodo il triangolo cantato da Renato Zero. Per me scrivere era invece una partita a tennis, la pallina andava ributtata subito dall'altra parte, e l'eventuale bellezza era costituita dalla veronica di Panatta, il gesto plastico e virtuoso che strappa l'applauso al pubblico del Foro Italico.

Una contrapposizione che vedo riproporsi anche adesso: chi si esalta per lo stile, gli sperimentalisti, i gaddiani, chi per le belle storie che toccano il cuore. Non mi interessa sapere da quale lato inclini la ragione, ma proseguire nella storia di Orvieto. Non finisce in quell'inverno nevoso, in cui Gustavo Thoeni non ce l'aveva fatta, per un soffio, a vincere la Coppa del Mondo di sci, mentre gli anni Settanta sfumavano cedendo il loro piombo a sabati sera infebbrati; le luci stroboscopiche delle discoteche non saranno state il massimo, ma preferibili al lampeggiante blu sopra al blindato della Celere. Devono passare altri tre decenni.

Posso solo immaginarlo nel presentarsi di fronte all'armeria gestita dai genitori dell'Acquistapace, ormai Orvieto è un uomo di mezza età. È lei ad avermelo raccontato, sono state di nuovo le parole scritte a farci ritrovare, non c'eravamo più visti da allora, ma andrei fuori tema se spiegassi tutto per filo e per segno. Basta un'ellissi. Nel salutarci con un bacino sulla guancia mi sono accorto che odorava sempre di marzapane.

Orvieto prima si guarda in giro, legge bene l’insegna, esita… Poi entra nel negozio, continua l'Acquistapace, e posa un fucile sul bancone. È avvolto nella carta marroncina come fanno nei film americani con la bottiglia del whisky.

– Posso lasciarlo qui? – chiede l’uomo dai capelli ancora folti e crespi, solo un poco ingrigiti.

– Mi dispiace, non trattiamo armi usate – risponde la madre dell’Acquistapace.

Poi però lo scarta, soppesa il calcio in legno di ontano, verifica se siano presenti graffi sulle due canne sovrapposte, controlla che non ci siano munizioni inserite prima di scorrere le dita sul cane, quindi preme con delicatezza il grilletto: – Comunque sembra in buono stato, può farci ancora qualche centinaio di euro.

– Mi scusi, c'è un equivoco. Non sono qui per i soldi: mi basta liberarmene, non voglio più vedere questo fucile!

– Non capisco...

– Ero compagno di scuola di sua figlia, me la saluti, a proposito, mi chiamo Orvieto. Lo consideri un regalo.

Tocca ora fare una pausa e ricordarsi del tema delle medie. Il padre che tossisce nella camera accanto, i calli sulle mani a cui non basta il sapone di Marsiglia per recuperare candore, adesso stringono la tazza con il brodo di verdura cucinato dal figlio. Amore, diciamolo pure senza girarci attorno.

Show, don't tell insegnano nei corsi di scrittura. E noi invece lo diciamo, non vogliamo mica essere i primi della classe, dei sotuttoio come l'Acquistapace. Piuttosto degli Orvieto, persone che si barcamenano tra concetti spesso troppo difficili per loro – la crisi climatica, il PNNR, la geopolitica – ma almeno una cosa l'hanno imparata, anzi lui la possedeva al massimo grado e senza bisogno di studio. La capacità di percepire la vita dentro le cose.

– Con questo fucile – conclude Orvieto –, mio padre la settimana scorsa si è sparato.

martedì 19 novembre 2024

Mi ricordo 23

 


Mi ricordo di una Citroen Dyane con le sospensioni di panna montata, ma bisogna arrivarci per gradi. La mamma e il papà erano entrambi maestri elementari, li immagino adocchiarsi – prima e più sfacciato il maschio, quindi la ragazza ne ricambia maliziosa lo sguardo – nei corridoi a volta dell’Istituto Magistrale di Sondrio, la vecchia sede sprovvista dei mosaici astratti di Emilio Tadini. Siamo nella prima metà degli anni Cinquanta, le gonne scampanate e i maglioncini a vi dai colori discreti, grigio o beige perlopiù, i più vezzosi indossano cappotti con gli alamari al posto dei bottoni. Lui proveniva da Milano dove era stato in classe con un jazzista poi divenuto famoso, quando venne in tournée a Sondrio lo accompagnai al concerto, al termine ci fece una dedica sulla copertina dell'ultimo disco: "Al mio compagno... come ti chiami già? Ah, sì, Francesco, al mio compagno Francesco e..." nuova pausa. "Guido" disse mio padre. "E al piccolo Guido" continuò a scrivere il jazzista famoso. Una dedica che papà si rigirava tra le mani, ma non ascoltava mai il disco, gli era sufficiente parlarne con quella punta di orgoglio di chi ha sfiorato il mantello di un santo e, per emanazione simpatetica, ne assimila la virtù. Al contrario, svicolava sul proprio rendimento scolastico, non si capisce se e quante volte fosse stato bocciato. Poi si era messo di buzzo buono e iscritto al concorso per diventare direttore didattico, era già sposato e con un figlio che sarebbe rimasto unico, quale surrogato di un fratellino mi era stato donato il Big Jim. In televisione davano lo sceneggiato su Sandokan con Philippe Leroy e Kabir Bedi e, soprattutto, Carole André, di cui mi innamorai immediatamente. Credo abbia contribuito il realismo dello schermo a colori dell'apparecchio Grundig: TEDESCO aveva sottolineato il venditore con il tono di papà quando parlava del compagno jazzista - finalmente l’agognata televisione a colori, nel condominio già la possedeva solo la famiglia Ciccozzi. Con le gemelle Kessler, in bianco e nero, non era scoccata la stessa scintilla, eppure anche loro erano tedesche. Visto l'immediato successo della serie, la Panini realizzò l’album delle figurine che io cercavo di completare, ma procedevo a rilento dividendo le mancette dei nonni con le figurine dei calciatori. Quando il papà era tornato da Roma dove aveva dato l’esame di Stato ("È andato tutto bene!" gridava al telefono alla mamma per sovrastare il trambusto della stazione Termini, poi erano finiti e gettoni e non avevo fatto a tempo a salutarlo) trovai una cinquantina di pacchetti sparsi sulle piastrelle in graniglia del nostro appartamento: metà appartenevano a Sandokan, l'altra metà ai calciatori. Io le raccoglievo a carponi, e a ogni nuovo ritrovamento seguivo la pista come un cercatore del Klondike, dopo anni di vane ricerche aveva finalmente trovato il filone giusto. La mamma invece continuava a insegnare, terminata la stagione delle supplenze in paesini abbarbicati sulle vette, aveva trovato anche lei il filone giusto, la cornucopia del ruolo fisso. Le fu assegnata la sede di Buglio in Monte, 577 metri di altitudine, sul versante retico, in auto quaranta minuti di viaggio con la Fiat 500 Super; rispetto al modello standard aveva solo i parafanghi più ampi, cromati. Ma altre volte veniva una collega a prenderla, la Titta, ed eccoci arrivati alla sua Dyane dalla carrozzeria completamente dorata, ricordava i carri di carnevale da cui lanciano i coriandoli e fanno le scoregge sedendosi su un cuscino gonfiabile. Condividevano il viaggio così da risparmiare sulla benzina e fare qualche pettegolezzo lungo la strada, anche il thermos con il caffè veniva preparato a turno. Un giorno le accompagnai, era in programma una gita a un vecchio mulino vicino a Buglio, mia madre voleva assolutamente che lo vedessi. Un autentico spirito da maestra presente tanto alla cattedra quanto nelle faccende private, persino adesso, a ottantasette anni, istruisce le amiche con cui si ritrova tutte le mattine al bar Meetic, se non conosce un argomento ricicla le risposte degli ospiti di Tagadà; le amiche annuiscono anche quando le pile dell'Amplifon sono scariche, avendo intuito che basta poco per farla contenta. Nel salire sulla Dyane della Titta cominciai a saltellare sul sedile, era proprio vero quel che si diceva in giro: le sospensioni erano di panna montata, nei tornanti prima dell'arrivo veniva un po' da vomitare, però una sensazione di vomito bello, come sulla nave dei pirati alla giostre. Gli alunni della mamma avevano la mia età, si trattava di una quarta elementare, mentre quelli della Titta frequentavano la quinta, ma legai con i maschi di entrambe le scolaresche quasi subito, dopo una prima naturale diffidenza nei miei confronti; ero pur sempre il signorino venuto dalla città, il figlio della maestra. Non ci fu invece verso di approcciare le bambine, anche se ce n’era una che mi piaceva molto, aveva una treccia che raccoglieva i lunghi capelli allo stesso modo di Carole André, sigillata da un fiocco in tinta con la Dyane della Titta. Durante il tragitto a piedi dalla scuola al mulino mi ero preparato qualche frase da rivolgerle: Ciao, preferisci Sandokan o Zorro? Ce l’hai la Barbie? Io ho il Big Jim che sferra un colpo di karate se pigio con un dito sulla schiena. Vuoi sposarmi? Ma alla fine non le dissi nulla, e poi a chi, confondo il suo viso con i lineamenti generici e minuti dell'infanzia, non so quale nome avesse (Roberta e Patrizia andavano sempre per la maggiore, ma iniziavano a comparire le prime Deborah), men che meno se i suoi occhi fossero azzurri come quelli di Carole André, o magari portava gli occhiali con una pecetta a coprire una lente, serviva a stimolare l’occhio pigro di cui si era verificata un'epidemia tra i bambini degli anni Settanta, ogni classe prevedeva come minimo un Moshe Dayan. Mi limitai a camminare per tutto il tempo alle sue spalle, lo sguardo fisso alla lunga treccia che oscillava a ogni passo, partivo dalla testa e poi scendevo giù, sempre più giù seguendo i fili dei capelli che si intrecciavano, confondevano restituendomi un leggero capogiro come sui tornanti con la Dyane, fino allo strangolamento del fiocco del colore scintillante dell’oro.

Mi ricordo 22

 

Mi ricordo lo sforzo nello staccare una figurina, accadeva quando veniva incollata al posto sbagliato sull'albo dei calciatori; un giocatore dell'Atalanta poteva venire confuso con uno dell'Inter, facile imbrogliarsi anche tra Genoa e Cagliari. Per rimediare si utilizzavano lamette sfuse da barba, ma era comunque difficilissimo. Ieri sera ho visto per la prima volta Il castello errante di Howl. Lo spirito della protagonista, Sophie, transita tra i vari involucri che di norma si succedono in una vita – bambina, adolescente, giovane donna, matura, anziana, vecchia – qui scombinati rispetto all'ordine cronologico consueto. Penso a come sarebbe stata l'estate del 1982 con il mio corpo attuale. Avevo allora sedici anni e trovato lavoro come aiuto bagnino sulla spiaggia di Lacona, Isola d'Elba. Quando Altobelli segnò il terzo gol, nella finale dei campionati mondiali di Spagna, mi infilai nella Cinquecento color pomodoro di un certo Stefano; lui guidava e io stavo seduto sul tetto a sventolare la bandiera italiana, le gambe a penzoloni dentro il foro del tettuccio. Stefano intanto suonava il clacson, ammesso che così possa essere chiamato il vagito della sua Cinquecento, non il suono pieno che proveniva dalle altre automobili incrociate dopo avere scavallato Colle Reciso. Nella zona industriale di Porto Ferraio si raggrumavano in chiassosi vortici attorno a un nulla tangibile, lo stesso movimento che fa il torero prima di conficcare l'estoque tra le scapole dell'animale stremato, io sempre a sventolare il tricolore. Continuo a pensare al corpo che mi fa ora da inattendibile specchio, quasi un intruso (smagrito, pallido, i capelli diradati), con in mano quella bandiera, e dietro si profila la copia in scala diminuita appartenente al Circo Americano. Mio nonno mi ci aveva portato nella primavera del primo anno di scuola, quando puntuali arrivano le giostre insieme alle rondini. I cartelloni sgargianti del circo, a coprire il volto di politici democristiani col broncio, comparivano invece senza preavviso, alternandosi con quelli in cui si prometteva la visione di enormi cetacei imbalsamati, oppure acrobazie nella guida della motrice degli autorimorchi. Ma niente foto con il leoncino in braccio, aveva infine sentenziato il nonno: si prendono i pidocchi! Un cinquantottenne che sventola la bandierina in plastica del Circo Americano, lo schiudersi appena accennato della bocca al rullo di tamburo che precede il triplo salto mortale, poi ci saranno i clown con il naso rosso e le scarpe enormi a stemperare la tensione... Ma di nuovo eccomi catapultato negli anni Ottanta, basta girare in blocco le pagine dell'albo. A furia di stare in spiaggia ed entrare in acqua per noleggiare i pedalò, mi venne un ciuffo biondo che possedeva qualcosa di artificioso, sembravano i colpi di sole sulla folta chioma di John Taylor, il bassista dei Duran Duran. Avrei potuto capitalizzare il nuovo aspetto con le ragazze, ne osservavo i capezzoli con un desiderio misto a timore, la moda del topless aveva reso manifesto ciò che fino a poco prima era consegnato all'immaginazione, oppure ricavato dai film con Anna Maria Rizzoli e Alvaro Vitali. La parte superiore del bikini pendeva inerme dalle stecche dell'ombrellone, non veniva occultata nella borsa da spiaggia assieme alla Settimana Enigmistica, un pacchetto di Muratti Ambassador, i tamburelli e la crema solare e la custodia dei Ray-Ban; il walkman azzurro della Sony aveva preso il posto delle biglie con l'effige dei ciclisti. Poi alla ragazza veniva voglia di un Calippo e il costume era già lì, pronto per essere indossato. Chissà perché, all'interno del bar dell'Hotel Lacona (ma in fondo qualsiasi altro interno non faceva differenza), i capezzoli continuavano a essere dei minacciosi pungiglioni pronti a iniettare il loro veleno, mentre sulla battigia diventavano biberon. Collegavano il fuori col dentro le note delle canzoni che si irradiavano dal juke-box: Celeste NostalgiaJust an IllusionTanz bambolinaBravi Ragazzima erano queste eccezioni rispetto ad Eye in the Sky, la vera colonna sonora dell'estate dell''82. Le sue basi elettroniche carezzavano la parata di bottiglie dei liquori, scavallavano il frigorifero dei gelati con la scritta Eldorado, uscivano dai due ingressi spalancati per monopolizzare lo spazio sonoro, mescolandosi alla risacca del mare dove si spegnevano provvisoriamente, fino a quando un nuovo turista non infilava cinquanta lire. Clic. Il 45 giri viene agguantato delicatamente dal braccio meccanico per essere posato sul piatto: I'm the eye in the sky, looking at you, I can read your mind, I'm the maker of rules, dealing with fools, I can cheat you blind, and I don't need to see anymore to know that I can read your mind, I can read your mind, I can read your mind... Non so se fu per via della frezza bionda, ma alla fine anche io limonai con una mia coetanea tedesca; più che i suoi capezzoli che si muovevano rapidi all'arrivo di ogni nuova onda, prima di intercettare i miei occhi come l'ago di una bussola che trova finalmente il suo nord, fu il piacere maschile di poterlo raccontare al rientro a Sondrio: Allora come sono le tedesche? mi avrebbero chiesto gli amici di fronte ai videogiochi del Bar Paninoteca Number One, a cui io avrei replicato con un'alzata di spalle molto blasé, tacendo sul fatto che la prima volta che due lingue si toccano scorre una corrente elettrica micidiale, simile a quella degli esperimenti con gli arti guizzanti delle rane. Morire è come staccare una figurina.

Mi ricordo 21

 


Mi ricordo di una prostituta greca, sostava su una Ford Fiesta nera nel minimo piazzare di fronte all’ingresso dei vivai Riva, a Cascina Costone. Il motore rimaneva acceso, credo lo facesse per mantenere in funzione il riscaldamento, in estate tornava in Grecia dove ancora viveva la famiglia.

Come tutte le ragazze distribuite tra Lentate al Seveso e Lurago d’Erba, passando per Arosio, Carugo e Inverigo, all’inizio stava fuori dall’auto, camminando avanti e indietro sul ciglio della strada provinciale 41: l’andatura resa pencolante dai tacchi a spillo, una minigonna rossa a dar risalto alle gambe lunghe, e comunque proporzionate alla statura superiore alla media. Ma lo vedevi che tremava dal freddo, moldave e rumene lo sopportano meglio.

Racimolato il suo giro di clienti, cominciò così ad attenderli in auto, un piccolo colpetto con gli abbaglianti e lei scendeva, si andava a scopare dietro ai capannoni della zona industriale preceduti dall'insegna del Bennet; la luce rossa spicca sull'enorme parallelepipedo come un faro, orientando gli automobilisti nella nebbia delle sere invernali. Arrivato a quel punto, introducevo nell’autoradio il cd con la colonna sonora di Drive, nel film Ryan Gosling indossa un giubbetto di raso bianco con uno scorpione bianco stampato sul retro. Era il segno sonoro che iniziava la stagione della caccia.

Nel mio caso, la prima volta non andò troppo bene, ci fu un lieve attrito. Lei mi porse il preservativo (una marca mai sentita nominare, probabilmente acquistato su internet o in qualche discount a prezzo stracciato), ma io pretesi di indossare il mio. Era una cosa che facevo spesso, l'ipocondria mi portava a considerare quali probabili, addirittura imminenti, remote ipotesi di rottura; dopo la morte di Freddy Mercury scorgevo agguati virali ovunque.

Per fortuna esistono modelli della consistenza di un gommone, pare vadano per la maggiore nei partouze, mi vergognavo un po’ quando andavo ad acquistarli in farmacia. Ma se alle altre la cosa non procurava alcun fastidio – in fondo era per loro un risparmio – la mancanza di fiducia verso il suo preservativo l’aveva infastidita. Fece comunque tutto quel che c’era da fare, lo fece con meccanica silenziosa professionalità, poi rimise gli slip e calò il sipario della minigonna rossa, e con un ciao distratto tornò caracollando alla sua Fiesta, dove l’avevo riaccompagnata. Proprio non riusciva a prendere confidenza con i tacchi a spillo.

A parte il saluto, mi disse solo che si chiamava Anna ed era di Atene – il luogo di provenienza e il nome li chiedo sempre –, e forse per quest’unica ragione ritornai la settimana successiva: mi piaceva l’idea di fare sesso con una concittadina di Pericle, Socrate e Platone, non una provinciale come Aristotele. Incrociando le dita accettai di farmi infilare il suo anonimo preservativo, e dopo avere scopato il ciao ci vediamo fu accompagnato da un sorriso. “Ciao Anna, a presto!” risposi io.

Mantenni naturalmente la parola, dopo tre giorni ero già lì. Fu la volta dell’avventura. Mentre eravamo intenti in ciò che si fa e di norma non si racconta, spuntarono da dietro i fari di un'automobile con a bordo tre persone, una di loro impugnava una pila che puntava nella nostra direzione. “Scappa, scappa: sono la ronda padana!” strillò Anna. Completamente nudo dal busto in giù, misi in moto. Il sedile era ancora reclinato e non era facile guidare a questo modo, a piedi nudi poi, ma dopo un breve inseguimento – l’adrenalina della fuga aveva mantenuto salda l’erezione – riuscii a seminare la ronda padana. “Bravo!” mi disse Anna, e questa volta il tono della voce sembrava convinto.

Ci furono in seguito altri incontri, su cui si proiettava l’imprinting di quella fuga: “Ti ricordi?”, e ridevamo. Una solida complicità si era stabilita tra noi, come nei reduci di tutte le guerre. Nel caso fosse occupata, attendevo che si liberasse al Garden Caffè di Lurago d’Erba, dove facevano ottimi cocktail e mi ero fatto degli amici; con uno, Gigio, andammo a vedere una partita di basket a Cantù, della cui squadra era tifoso sfegatato. Per giustificare la mia continua presenza avevo raccontato di avere la fidanzata a Erba. Particolare non poi così lontano dalla realtà, nella mia percezione almeno.

Se il tempo dedicato al sesso era sempre quello, roba da una manciata di minuti e via, come si dice una sveltina, crebbe progressivamente il tempo della parola, rigorosamente successivo. Venni così a sapere che aveva lasciato la Grecia a causa della crisi economica del 2009. Un lavoro le era rimasto, ad altri era andata peggio, faceva la segretaria da un commercialista, credo avesse studiato ragioneria o qualcosa del genere. Ma il clima opprimente e ciò che si raccontava dell’Italia la indussero a partire, prima non si era mai prostituita. Con i soldi messi da parte, oltre all’acquisto della Fiesta, intendeva tornare in Grecia e prendersi una villetta vicino al mare, farsi una famiglia, avere dei figli e naturalmente un marito. Quieta vita piccolo borghese, insomma. Ma non priva di una sua bellezza in cui percepivo odore di gelsomino.

Il padre era morto fulminato da una lampadina e della mamma, mia coetanea, non amava parlare, e io non chiedevo. Insisteva nel raccontarmi dell’unica sorella, di un paio di anni più giovane – doveva dunque avere ventiquattro anni, già che Anna ne aveva al tempo ventisei. Appena discussa la tesi di laurea in Psicologia, la sorella intendeva sposarsi con il suo fidanzato, e questa cosa ad Anna proprio non andava giù. “Stanno assieme da soli due anni” mi disse risistemandosi il reggiseno di pizzo bianco, “meglio che aspettino ancora un po’.” E dopo una pausa in cui si attendeva forse che io dicessi qualcosa, aveva aggiunto: “L’amore è una cosa importante.”

Io cercavo di rassicurarla: “Ma certo che l’amore è una cosa importante, ma due anni… non sono pochi.” Intanto il piazzale dei vivai Riva si era riempito delle auto degli altri clienti, spazientiti per l’attesa. “Va be’, dai, adesso devi andare”, e la salutai con un bacino sulla guancia. Mentre raggiungeva la Passat di un tipo azzimato che aveva tutti i tratti del rappresentante di commercio, di nuovo comparve l’odore di gelsomino.

Una notte di luna piena mi accorsi di un particolare che prima non avevo mai notato. Accanto alle grandi labbra aveva un grosso neo, un’escrescenza carnosa da cui spuntavano dei peli spessi e neri, come la lunga capigliatura. Tutto il resto era ovviamente depilato, e complice la carnagione chiarissima – all’inizio la cosa mi appariva incongrua, solo in seguito compresi che stavo facendo dei raffronti con Irene Papas, splendida Penelope nello sceneggiato sull’Odissea – quel neo spiccava ancora di più.

Non so se fu di nuovo a causa della mia ipocondria, ma l’idea di sbattere la pelvi contro un grumo peloso mi procurava imbarazzo, e nell’incontro che seguì le chiesi di fare solamente sesso orale. Come la prima volta con il preservativo, Anna si accorse che qualcosa era cambiato, e anche il suo atteggiamento mutò di conseguenza: fine dei discorsi sulla sorella, sull’amore, sulla crisi economica e i sogni di riscatto. Fine di tutto, gelsomino compreso.

Tornai da lei altre due o tre volte, in cui mi accolse con freddezza. Poi smisi di deviare verso Cascina Costone quando tornavo in auto da Milano. Agli amici del Bar Garden, dove mi ero fermato dopo più di anno per un Daiquiri, spiegai che non mi ero più fatto vedere perché avevo rotto con la mia fidanzata di Erba. “Con le donne è sempre così”, rispose Gigio dandomi una pacca sulla spalla. E dopo avere preso un lungo sorso dalla sua Ceres che beveva sempre dalla bottiglia, aggiunse: "Meglio il basket. La prossima settimana il Cantù gioca contro il Varese, ho i biglietti, ci vieni?" Chiaro segnale che le Ceres successive avrei dovuto pagarle io.

venerdì 15 novembre 2024

Decadenza

Sui social, confesso, vengo puntualmente calamitato da quei post che mio nonno avrebbe chiamato birichini. A pubblicarli sono giovani donne, basta una propria fotografia in pose che ne esaltino la bellezza, lasciando magari trapelare qualche dettaglio intimo: la linea di discrimine del seno, o abiti succinti a mostrare le gambe e quasi – ma non più di quasi – le mutande. Il pieno di like è assicurato.

Solo che io scorro sveltamente le immagini (si tratta perlopiù di selfie) e indugio sui commenti, come si può intuire sono in prevalenza maschili. La frase che più ricorre è sei sempre la mia preferita, a cui segue un cuoricino, di più, due cuoricini, tre cuoricini e altri amorevoli emoticon. Provo così a pensare a qualcuno che scrivesse invece: Sei la solita mignotta...

Ovviamente verrebbe bannato, lo farei immediatamente anch'io. Eppure i due commenti hanno identico contenuto, mignotta deriva dal francese mignot, con significato di favorita. Un esempio analogo lo possiamo fare con un politico, mettiamo Salvini. Nel talk show televisivo di turno qualcuno gli dà del leader alla guida di un team emotivamente coinvolto, e quello gongola soddisfatto. Oppure potrebbe dire che Salvini è un capoccia sostenuto da un manipolo di esaltati. La sostanza semantica è la medesima, ma cambia, come nel primo caso, la connotazione di valore, che discende unicamente da consuetudini d'uso.

Da ciò ricavo il sospetto che le lingue storiche, da denotative, tendono col tempo a diventare connotative, dunque sempre più discrezionali. E questa non è una buona notizia, ma chiaro segnale di decadenza della società che quella lingua riflette.

mercoledì 13 novembre 2024

Mi ricordo 20

 

Mi ricordo della risposta, ma prima c'è sempre una domanda. A pronunciarla fu la maestra Maccarone: "Corrado, cosa c'è nel deserto?"

Eravamo in terza o quarta elementare, nell’intervallo le femmine giocavano a elastico e, se ti andava bene, riuscivi a intravedere le mutande, mentre i maschi vantavano le virtù dei padri per metonimia, enumerando con enfasi i pregi delle loro auto; quale parametro definitivo si diceva la macchina del mio papà va a cento all’ora. Se aggiungo che Corrado di cognome fa Lapsus non ci crede più nessuno, ma a volte la realtà ci regala degli indizi.

"Nel deserto, giù in terra, dai... proprio come al mare, sulla spiaggia" lo incalzava la maestra Maccarone, con i compagni che provavano a suggerire sottovoce – la sabbia la sabbia –, e puntando l'indice alla bocca ripetevano nel linguaggio dei pesci rossi: "S-a-b-b-i-a."

Ma lui aveva occhi solo per le mani della maestra Maccarone, sapendo che svitare il thermos del caffè non era l'unico utilizzo. Di famiglia povera e collocazione alpina (era l'unico a non parlare della macchina del suo papà), Lapsus non era mai stato al mare, probabilmente neppure aveva visto una clessidra, o una draga immergersi nel fondo scuro dell'Adda, e continuava a fare scena muta.

La maestra Maccarone era quel genere di maestre di una volta, e il metodo Montessori, pensava, andava integrato con il metodo Muhammad Ali. "Corrado, non farmi arrabbiare, pazienza se sbagli, ma cribbio dì qualcosa, se non vuoi che ti arrivi questa in faccia", e spalancò la mano come nel simbolo della carta al gioco della morra cinese.

Così Lapsus, per timore forse di fare la fine del sasso, senza che nessuna forbice venisse in suo soccorso, dischiuse finalmente le labbra. E disse: "Le piastrelle."

Mi ricordo 19

Mi ricordo del busto esile e ritto di Giovanni, spunta appena dallo schienale della sedia, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano il loro posto e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni o della gonna e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto che ricorda i giudizi scolastici, un voto in pagella tra gli altri. Promosso! La maestra Maccarone, alito di caffè, ha sempre avuto uno spiccato senso del teatro, eredità forse della sua regione di provenienza.

Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il proscenio, e da ciò intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi nell'aula, sempre più intenso e penetrante. Farsi la cacca addosso è una brutta grana, anche se frequenti la seconda elementare.

Dall’altro versante della rappresentazione, la gioia feroce nell'essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli, le braccia alzate del pugile proclamato vincitore. Rido insieme agli altri, puzzone, puzzone smerdolone diciamo rivolti al colpevole, finalmente smascherato. La legge del branco non è meno implacabile per i cuccioli. Intanto, gli occhietti azzurri di Giovanni cominciano a inumidirsi, la massiccia montatura in celluloide degli occhiali è l’unico argine a sua difesa. E così continua a rimanere immobile, più simile alla fotografia che non al teatro o al cinematografo, in effetti. È un totem.

Una lava marroncina intacca la fissità dello scatto, la vediamo tutti e le risate si fanno ancora più forti, cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia, si diffonde sulle piastrelle sintetiche del pavimento. E insieme a quella cominciano a sgorgare dalle palpebre i primi goccioloni.

Ora il totem si è trasformato in vulcano, ma senza sonoro. Questo è Giovanni. Il suo talento è il disegno, è l'unico della classe che sa già disegnare un cavallo, all'intervallo mangia il panino col salame preparato dalla mamma, parla poco, sorride molto. Un vulcano da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.

martedì 12 novembre 2024

Illusioni perdute

 

Non ho mai amato particolarmente la musica degli Wham, ma rivedendo il video di Last Christmas ho avuto un brivido. Certo, è tutto costruito attorno a una colossale bugia – non la simulazione eterosessuale di George Michael, intendo, qui abbracciato a una bella ragazza bruna, ma che la vita sia semplice e spensierata, amichevole come un'allegra combriccola giovanile sulle piste da sci, poi tutti in baita a festeggiare il Natale (Goffredo Fofi aggiungerebbe: chi glieli ha dati i soldi per lo skipass? e per lo champagne?) Eppure, negli anni Ottanta e in particolare nella leggerissima musica di questo video altrettanto leggero, si è riusciti nella difficile impresa di coniugare bugia con fantasia, la cui sintesi è quanto di più vicino al significato che Leopardi assegnava al termine illusione. E come abbiamo imparato malvolentieri sui banchi di scuola, mentre George Michael e le sue canzoncine disimpegnate ci chiamavano oltre i finestroni su via Mazzini, senza illusione la vita diventa davvero poca cosa. Diventa la disillusa vita che stiamo ora vivendo.

( https://youtu.be/E8gmARGvPlI?si=njv4aUGSSHeODkZE )

giovedì 7 novembre 2024

Acqua e acqua alla spina

Le recenti elezioni americane ricordano l'episodio di una commedia degli anni Settanta, altrimenti poco memorabile; e difatti ho scordato il titolo. Protagonista è Renato Pozzetto, dopo avere parcheggiato il suo motocarro entra in una trattoria chiamata Semivuota – oltre a lui, è presente un solo cliente – e chiede cosa è possibile avere per pranzo. "Minestrone" è la risposta dell’anziana e burbera proprietaria. "E poi?" "Minestrone, non hai sentito? Ma allora sei proprio un cretino."

Se non altro, sulle bevande si offrono due possibilità: acqua e acqua alla spina. Pozzetto opta per acqua alla spina, e gli viene servito un bicchiere di acqua del rubinetto in cui è immersa una spina elettrica.

L'episodio poi continua sugli stessi toni, umorismo surreale della prima maniera, quando Renato era ancora in coppia con Cochi e al Derby si rideva di gusto. Tutto ciò cosa c'entra con le elezioni americane? A me sembra che il menu politico, per entrambi i candidati, Trump e Harris, fosse minestrone. Nient'altro che minestrone. A cucinarlo sono la Costituzione, il Congresso, le lobby finanziarie e i contropoteri di bilanciamento politico particolarmente saldi nel Paese (il cosiddetto Deep State), ma soprattutto le strutture economiche sottostanti, altrimenti chiamate capitalismo.

Nemmeno il presidente degli Stati Uniti, insomma, può inventarsi un nuovo mondo, può quel che può e non è moltissimo. Ha però un piccolo margine di scelta rispetto alle bevande: ha la facoltà di scegliere tra acqua e acqua alla spina. Nella circostanza, quel minimo margine coincide con le politiche ambientali; a ben vedere, una delle poche variabili reali entro un impianto economicista. Ma sarà più chiaro con un esempio.

Se io impongo al mercato la produzione di soli veicoli elettrici e/o a idrogeno entro l'anno X (facciamo, come era stato inizialmente ipotizzato dalla Harris, il 2035), non procuro un danno all’industria automobilistica, offrendo ai gruppi in cui si concentrata condizioni paritarie per competere. Semplicemente, andrebbero a sostituire i profitti delle auto con motori a combustione con quelli derivati dalle auto dotate dei nuovi propulsori. L'economia di mercato funziona come gli sport: a calcio non si può toccare la palla con le mani, a basket l’opposto, ma una volta che tutti si uniformano alle regole il gioco può prendere avvio, e il mercato procede senza troppi scossoni.

L’elezione di Kamala Harris, che in campagna elettorale aveva riveduto e corretto al ribasso molte delle sue iniziali posizioni ecologiste, avrebbe comunque rappresentato la speranza di un cambiamento per l'ambiente, piccolo ma significativo. Mentre, con Trump, abbiamo la certezza di una sensibilità da betoniera per il cemento, e stiamo parlando di una delle nazioni più impattanti sul sistema mondo: nessuna speranza di contenere gli effetti nefasti dell'antropocene per i prossimi quattro anni, quando gli anni per un mutamento che ci renda compatibili al pianeta sono sempre meno; e lasciando provvisoriamente da parte tutto il resto, che pure inquieta nei suoi programmi.

Anche solo per tale ragione, sbaglia chi dice che tanto non sarebbe cambiato nulla. Acqua e acqua alla spina differiscono di poco. Ma differiscono.

venerdì 1 novembre 2024

Mi ricordo 18

Mi ricordo di una grande gondola nera su cui è posata una piccola bara bianca, le acque appena increspate la fanno oscillare alla maniera di una culla. Noi siamo stipati su un vaporetto che ricorda quelle barzellette sugli stereotipi nazionali. I giapponesi mitragliano con le loro Nikon gabbiani opachi abbarbicati sulle bricolle, gli americani indossano camicie a fiori e si ingozzano di Pocket Coffee, soprattutto le donne che hanno dita gonfie macchiate dal cioccolato, i francesi trovano sempre un motivo per alzare le spalle ed emettere una piccola scoreggina con le labbra, tutto è così dolcemente prevedibile, compreso ciò che ci attende su un’isola poco più estesa di uno scoglio. Qui soffiamo il vetro dice un uomo con un accento che fa un po’ ridere, possiamo ricavare qualsiasi forma aggiunge orgoglioso. Anche la forma di un bel cazzo? sussurra Mascarini. Per fortuna il professore di applicazioni tecniche non ha sentito, e nemmeno l’uomo con l’accento che fa un po’ ridere, il suono della voce ha raggiunto solo Tavelli, Orvieto e me, facendoci sghignazzare come quattro moschettieri in lotta contro la congiura dei noiosi. D’altronde è l’unica cosa che sappiamo disegnare sui banchi: cazzi, cazzi in ogni stile e dimensione, a volte aggiungiamo un fumetto senza inserire alcun testo, la bocca da cui esce è la fenditura del glande; dovrebbe rappresentare il fiotto del seme a fecondare mattinate che non passano mai, con l’unico miraggio della gita scolastica di fine corso. E finalmente eccoci arrivati, dopo cinque ore di pullman che sono riuscite a farmi odiare le canzoni di Lucio Battisti. Se ribalti la boccetta colma d’acqua cade la neve sul ponte di Rialto, sono i souvenir acquistati per ricompensare i nonni della loro busta, va' va', non spenderli tutti in sala giochi; ma Mascarini è riuscito a trafugare anche una bottiglia di Amaretto di Saronno, me la porge intimando: Bevi! Serve a trovare il coraggio per raggiungere la camera delle ragazze, Tavelli e Orvieto si trovavano già lì. È dalla prima media che mi prefiguro il momento, sono trascorsi tre anni in un fatidico soffio, la vita media di un criceto; passare la vita a sgambettare dentro una ruota che fa della finzione il suo movimento, non deve essere tanto meglio del disegnare cazzi su banchi di fòrmica verdina... Troppi pensieri, meglio attenersi a un copione provato mille volte nella palestra della mente, come fanno gli sciatori una volta varcato il cancelletto di partenza; tolgo le scarpe da basket e mi infilo vestito nel letto dell’Acquistapace, riproduzione in scala anagrafica ridotta di Maria Giovanna Elmi, la fatina bionda che negli anni Settanta annunciava i programmi su Rai1; nel letto accanto sento Tavelli sbaciucchiarsi con qualcuna, probabilmente si tratta di Beltrama, la ripetente, a Orvieto e Mascarini deve essere andata meno bene. Sono però troppo ubriaco per tentare un approccio, riesco chiederle soltanto: L'hai vista anche tu, oggi pomeriggio, una bara bianca ma piccola, probabilmente si trattava della bara di un bambino, stava su una gondola appena fuori da Canal Grande... o mi sono immaginato tutto, l'ho sognata? Non so cosa mi abbia risposto la fatina bionda della terza effe, il passaggio dalla Fanta all’Amaretto di Saronno è stato troppo brusco, il resto l’ha fatto la voce nascosta nella buca del suggeritore, ognuno ha il suo suggeritore e più passa il tempo e più si inventa le battute. E così continuo a ricordare, o a sognare, che forse è lo stesso, un'enorme gondola nera. Non ha mai smesso di ingoiare una minuscola bara bianca, specie durante le notti in cui ho la febbre e mi rigiro nel letto sudato e al buio e a tentoni cerco la Tachipirina sul comò.