giovedì 31 ottobre 2024

Mi ricordo 17

Mi ricordo di Maria Assunta, abitava sopra l’edicola delle due zitelle. Al ritorno da scuola, mio padre, sotto braccio la cartelletta che conteneva i temi degli alunni, si fermava a ritirare la sua copia del Corriere della Sera, mentre io ci andavo di sabato per acquistare le figurine dei calciatori. Cinque pacchetti.

Numero dispari e squilibrato, nessuna scaramanzia cabalistica o conta delle dita di una mano, piuttosto soglia delle mancette carpite alla nonna per accompagnarla in chiesa, dove al posto del Credo di Nicea recitavo sottovoce la formazione dell’Inter di Eugenio Bersellini.

Ormai non dovevo nemmeno più chiedere, come chi, intercettando lo sguardo del cameriere a cui inviare un cenno d’intesa, ottiene quale risposta un Bitter Campari; e così a me cinque pacchetti di figurine Panini, consegnate dalle mani talcate di una delle due zitelle. Sulla busta tricolore un uomo in braghette bianche e blusa rossa colpisce al volo il pallone in sforbiciata.

Le aprivo davanti al bar dei genitori di Claudio, a pochi metri dall’uscita dall’edicola, nella speranza di trovare la figurina di Pizzaballa, portiere di Verona, Milan e infine Atalanta, con cui avrei concluso l’albo.

Maria Assunta aveva due anni più di me e uno più di Claudio. La carnagione chiara. I capelli neri.

Dietro all'edicola c’era un piccolo giardino, al centro svettava un pino che raggiungeva il quinto piano del condominio accanto, dove abitava Claudio a un paio di rampe di scale dal suo bar. Il pino era stato colpito in due diverse occasioni da un fulmine, ma era sempre sopravvissuto.

Quando si intravedeva il lampo immediatamente seguito dal tuono, dalle abitazioni che danno sul cortile (la casetta anni Venti di Maria Assunta, il mio palazzo, completato alla fine degli anni Cinquanta, e quello più recente di Claudio) le persone si affacciavano alle finestre o uscivano in terrazza, guardandosi con un’apprensione complice.

Forse accadeva qualcosa di simile durante la guerra, i bombardieri americani sganciavano le bombe sulla ferrovia e i bambini salutavano i piloti saltellando tra i filari delle vigne, in un attivarsi del corpo che era allo stesso tempo festa e paura, meraviglia. Tanti anni dopo ho scoperto che la filosofia proviene dallo stesso miscuglio.

Claudio aveva una bicicletta simile alle moto di Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider. Era molto scomoda ma molto bella, sosteneva di averla vinta con i buoni del frappè.

Di solito prima si sperimenta una cosa e poi si impara la parola corrispondente, ma, con il frappè, per me è stato diverso. La mamma diceva che potevo fare merenda anche a casa e quelli al bar sono soldi buttati via.

Non ho trattenuto un’immagine precisa della mia bicicletta, solo il colore verde smunto. Tutta la memoria va alla bicicletta di Claudio: il manubrio alto e la posizione avanzata dei pedali, la ruota anteriore più piccola, lunga la sella. E poi era gialla come tutte le cose veloci.

Una sfera di gomma scura azionava la trombetta cromata. Il signor Pittino però non voleva che la suonassimo, quando faceva caldo – ma quando faceva freddo in cortile non si andava – imponeva un silenzio assoluto a tutela del suo riposino pomeridiano, che durava dalle 13.30 alle 18.

A volte io e Claudio ci scambiavamo le biciclette o giocavamo a tappi, fino a quando vedevano Maria Assunta comparire in giardino. Si sedeva su una poltrona di vimini posata accanto al grande pino, le fronde facevano ombra, offrivano un po’ di frescura; ma più che altro credo si mettesse lì per evitare ogni contatto con i raggi del sole.

Indossava abiti a fiori e sandali ricamati sulle fettuccine di pellame. Il parroco, a dottrina, chiamava quello stile hippy, e quando pronunciava il termine si avvertiva una punta di sarcasmo. Sotto il tessuto di cotone leggero si intravedevano gambe bianchissime.

Dopo aver scalciato lontano i sandali, strofinava i piedi su fili d’erba misti a terriccio. Un movimento che ricordava i gatti quando sono contenti o ricoprono con la sabbietta le feci.

Tra il cortile che univa i nostri palazzi e il giardino di Maria Assunta era presente un contrafforte di cemento. Partiva basso, un muretto al culmine della rampa d’accesso ai box, e poi arrivava a circa tre metri, sormontato da una rete di metallo arrugginita non più alta di un pony.

Dopo avere lasciato le biciclette appoggiate alla parete, io e Claudio lo percorrevamo poggiando solo la punta dei piedi, il petto rasente i fori della rete dove inserire le dita, cinque centimetri di larghezza era tutto lo spazio di cui disponevamo. Arrivati di fronte al pino scavalcavamo, se l’avessimo fatto prima saremmo finiti nell’orto di non so chi.

Mi piace credere che a Maria Assunta facesse piacere che rischiassimo l’osso del collo per andarla a trovare, se non altro non appariva seccata. In genere teneva tra le mani un libro o un fotoromanzo, al nostro arrivo lo lanciava vicino ai sandali, e ci sorrideva. Poi parlava di cose un po’ da grandi, e noi rispondevamo con cose da piccoli.

Una volta ci ha offerto dell’acqua fresca, l’ha versata da una caraffa di terracotta in bicchieri di plastica trasparente, dove ha aggiunto lo sciroppo di orzata. I due liquidi sembravano recalcitranti a unirsi, ma una volta acquisita confidenza, piano piano, si fondevano in una sostanza del colore delle sue gambe.

Nel giardino c’erano anche delle piantine di basilico, contendevano l’odore di quei pomeriggi assolati a tre cespugli di rose rosse e a un pruno defilato, su cui il cocker del Rag. Castoldi (sulla cassetta delle lettere stava scritto così, non so se avesse anche un nome di battesimo) andava a pisciare. Guai a mangiare le prugne perché le due zitelle si arrabbiavano, dicevano che l’albero era il loro.

Arrivato ottobre Maria Assunta smetteva di scendere in giardino, e anche io e Claudio smettevamo di arrampicarci per andarla a trovare. Toccava aspettare la fine di aprile dell’anno dopo. In compenso potevamo guardare la tivù, sempre che i compiti fossero terminati, alle 16 e 40 in punto iniziavano le schermaglie tra Zorro e il sergente Garcia.

Era il 1976, Peppino Di Capri aveva vinto il festival di Sanremo con Non lo faccio più, consegnandomi una diffidenza mai più svanita per giudici e giurie, quando era tanto più bella Sambariò di Drupi, classificata solo sesta. Recita il ritornello: "E il tuo vestito, buttalo via \ Io la mia noia, la butto via \ Sambari, sambari, sambari, sambariò..."

Poi fu il turno del 1977, di norma l'unico evento pubblico qui è la sfilata dei carri di Carnevale, ma all'improvviso le persone scendevano in piazza, le donne accostavano le mani a mimare una cosa che non capivo tremate, tremate, le streghe son tornate! –, e così nessuno prestò attenzione alla fine di Carosello. Ma fu con il 1978 e l'uscita della Fiat Ritmo che tutto cambiava per davvero.

Maria Assunta non si vedeva più in giardino. Nemmeno a maggio, a giugno. Le due zitelle, vedendomi smarrito nell’acquisto delle figurine, un sabato mi hanno rivelato che era andata ad abitare altrove. Quella ladra, hanno aggiunto. Ci mangiava sempre le prugne.

In autunno sono riprese le lezioni alle scuole medie Sassi di Sondrio, e mi sono accorto di una compagna di classe. Si chiamava Simona. Anche l’anno precedente eravamo andati a scuola assieme, nella sezione F, ma adesso era diverso. Prima non me ne accorgevo.

Rimaneva il problema di dare un nome a quella sensazione, più che nella testa stava dentro la pancia.

Provavo qualcosa di simile mentre mi arrampicavo per raggiungere Maria Assunta. Al suo apparire tra il basilico e le rose, sorvegliata dal pino e con la complicità del pruno, si faceva ancora più forte, quasi un crampo.

Eppure è la cronologia abituale: inizia la sensazione, a cui segue – può passare molto tempo – una sequenza ordinata di lettere. Amore, ad esempio, perché di questo si trattava. Il primo amore, per essere precisi. Mica come il frappè di cui continuavo a conoscere solamente il nome.

L’unica differenza è che non dovevo arrampicarmi su nessun contrafforte, fare l’equilibrista, scavalcare, graffiarmi, stare attento a non cadere. Per poi essere accolto nel giardino dove Maria Assunta ci attendeva sul suo trono di vimini.

Ritrovavo Simona tutte le mattine, entrava in classe sempre prima di me e stava già rivolta in direzione della lavagna. Una concentrazione quasi cocciuta, malgrado i suoi occhi azzurri da dodici diottrie, già pronta a offrire ai professori la soluzione di problemi non ancora formulati. C’è chi ci nasce primo della classe. Intanto, io guardavo lei come si guarda attoniti alla X.

Un giorno sono entrato nel bar dei genitori di Claudio, avevo messo da parte qualche spicciolo che non impiegavo più per le figurine; ora dalle zitelle andavo di giovedì per acquistare i fumetti di Zagor. Ho ordinato un frappè. A che gusto? Fragola.

È divertente vedere il ghiaccio sbattere contro le pareti del frullatore, anzi ascoltarlo, ta-ta-ta-ta, prima di cedere al latte e alla polvere rosa. Se ritagli i buoni che stanno stampati dietro la busta, puoi anche vincere una bicicletta. Quindi l’ho bevuto e ho pagato e sono uscito. Tutto qui?

Avevo finalmente imparato come ricomporre i nomi alle cose.

Se dicessi che pochi anni dopo ho letto il nome Maria Assunta su un manifesto funebre, Maria Assunta, 1964 – 1988, ti ricordano con affetto i cugini di Voghera, ora sei in cielo assieme al tuo papà, renderei il finale della storia un po’ patetico. Peggio se aggiungessi il commento delle due zitelle, mettevano sempre l’articolo determinativo: “La droga..." bisbiglia la prima. "È morta" completa la seconda mentre consegna la Gazzetta dello Sport al Rag. Castoldi, "è morta perché si faceva le punture con dentro la droga.”

Ma le cose sono andate a questo modo e non posso farci nulla, solo cercare una nuova storia, ce ne se sono tante in giro. Questa però è la mia storia e se non la racconto io rimarrà senza parole, nessuna traccia di un minimo giardino tra via Trento e via Parolo, a Sondrio. Conteneva due scalatori alla loro prima vetta, due streghe e naturalmente una principessa, dalle gambe del colore dell’orzata.

Nel frattempo Claudio aveva cambiato città, non ho più rivisto lui né la sua strana bicicletta. La figurina di Pizzaballa – ecco perché non la trovavo mai! – pare non fosse stata stampata. Simona si è laureata in Lettere con il massino dei voti, adesso è capo redattrice in una rivista dove spiegano i diversi tipi di orgasmo femminile e come superare la prova costume.

Solo il pino giganteggia ancora al suo posto, ogni tanto gli danno una sfoltita ai rami laterali, ma il signor Pittino non si lamenta più per il rumore della sega elettrica. Nel suo appartamento è subentrato il nuovo inquilino, somiglia un po’ a Dennis Hopper ma gli manca il chopper e il giaccone con le frange. Ha sostituito la targhetta Pittino con un cognome pieno di consonanti palatali. Prima le cose e poi le parole, la regola è rimasta immutata.

In ogni caso, qualcuno che si lamenta si trova sempre.

Al termine dell'estate qualche volta ancora mi ricordo di Maria Assunta, succede quando arrivano i primi temporali. Se avverto un fragore più forte, secco, di quelli che ti fanno esclamare che botta!, mi affaccio per controllare se il fulmine ha colpito la cima della pianta. Ma non vedo più spuntare altri occhi spalancati, in cui riflettermi e placare il mio spavento.

martedì 29 ottobre 2024

Tu dimmi un cuore ce l'hai?

Guardando la serie tv sugli 883, mi ronzava in testa una frase di Joseph Conrad: “Metti a nudo il tuo cuore, e la gente starà ad ascoltarti per quello – solo quello è interessante.”

In effetti, trovo la serie sulla coppia di musicisti pavesi interessante, di più: mi sta piacendo un sacco, complice forse l’abile regia di Sydney Sibilia. Ma poi c’è il cuore. Io, quel cuore lì, l’ho sentito pulsare negli stessi luoghi e tempi delle vicende raccontate; ho un anno in più di Max Pezzali e tra il 1987 e il 1989 mi trovavo a Pavia, dove frequentavo l’università.

In una sequenza del secondo episodio, si vede Mauro Repetto fare il barista al Bar Lux. Ma anche io andavo al Bar Lux! Mi ci portò per la prima volta il mio amico Vitto; nei giorni precedenti, all’ora dell’aperitivo, non lo si trovava mai. Dov'è Vitto? Boh. Intanto lui stava con un flute in mano e il gomito poggiato al bancone del Lux. Dagli un giorno, dagli un altro e non mutando mai di ordinazione, finché il barista, forse si trattava proprio di Repetto, gli chiede: “Le verso il solito?” Solo a quel punto Vitto mi aveva invitato nel suo nuovo bar. Voleva mostrarmi che lui era di casa, che aveva una casa, un solito da sorseggiare. Se non sbaglio si trattava di comune prosecco, e però convertito in stigma di appartenenza al Bar Lux.

La sensazione di avere una tana in cui rifugiarsi, un luogo che riconosci e dove sei riconosciuto, è chiaro segnale di possesso di un cuore, per quanto ancora piccolo piccolo, il cuore di un uccellino che fatica a spiccare il volo. Le canzoni degli 883 sono tutte così: mediamente bruttine, come è bruttino un passero appena uscito dal guscio. Eppure già vorrebbe diventare aquila, è ciò che accade anche ai nostri due passerotti pavesi, li vediamo prendere la rincorsa in motorino – rigorosamente sempre in due sulla sella lunga del Sì Piaggio – in attesa del balzo d'ali con cui raggiungere un indistinto nord sud ovest est, qualsiasi destinazione alternativa alla provincia va bene. Ma invece rimangono impigliati al nido (il loro Bar Lux si chiama Jolly Blue), che una volta abbandonato poi rimpiangono.

Una dialettica tra desiderio e nostalgia raccontata senza filtri e abbellimenti, solo cuore messo a nudo: non certo un cuore speciale, come non è speciale la musica degli 883. Ma sono proprio i limiti a renderli interessanti, aveva ragione Conrad, la gente rimane ad ascoltarti per questa imperfetta umanità. Recita il refrain di un’altra canzone del periodo: “Ma dimmi un cuore ce l'hai \ non hai capito che il mondo è fatto pure di noi…”

domenica 27 ottobre 2024

Venerati maestri

Provo una naturale ammirazione verso le persone che sanno tutto di un determinato argomento, ne sono come ipotecati. Mettiamo la letteratura, l'oggetto più frequentato nella bolla social a cui appartengo, e che di certo non disdegno. Ma dagli e dagli, questa ammirazione, dopo un po' che sento parlare sempre e solo di libri, si è trasformata in diffidenza, complice forse un pizzico di invidia; e come si sa l'invidia genera cattivi pensieri: non è che lo fanno perché hanno l'ennesimo corso di scrittura in partenza...

Mi è così tornato alla mente il solito Pasolini, il quale possedeva una cultura letteraria non minore. Eppure, i suoi interventi sull'argomento non erano tanto frequenti, perlopiù originati dalle accuse a lui rivolte dal Gruppo 63, a cui opponeva il suo essere "forza che viene dal passato". Sulle pagine del Corriere della Sera scriveva di aborto, di "capelloni", antropologia, arte, mito, linguistica, cinema, politica, calcio, economia, religione, studenti borghesi contro poliziotti proletari. Scriveva della vita, insomma, oltre a parlarne con i propri amici, che non si limitavano a una squisita cerchia intellettuale.

Con toni forse più vaghi e a volte naif, anche Battiato, quando intervistato sulla sua attività di musicistia, riusciva sempre a svicolare verso la tenebra luminosa della mistica, frequentava con caparbietà l'esoterismo, la fisica quantistica, lo sciamanesimo, perfino di poker e biliardo ne sapeva, e pare che di entrambi fosse un ottimo giocatore. Recita il testo di una sua canzone: "mi piaceva tutto della mia vita mortale, \ anche l'odore che davano gli asparagi all'urina."

Non è questione di essere enciclopedici, ma semplicemente curiosi. E questi venerati maestri social, più monotematici di Rocco Siffredi, mi pare abbiano perduto la capacità di sporgersi sul mondo con un filo d'erba in bocca, quel che passa passa. E poi va, come urina nel water.

venerdì 25 ottobre 2024

Mi ricordo 16

Mi ricordo l’ultima ora dell’ultimo caldissimo giorno di scuola dell’ultimo anno delle medie. La porta della classe terza effe dell'Istituto Francesco Sassi di Sondrio, non si aprì. Suonava la campanella ma la porta si ostinava a rimanere bloccata.

Agguantato il citofono, la professoressa di italiano, Lorenza Cozzini, chiama in segreteria, a loro volta chiamano il preside e arrivano tutti: segretari, bidelli, altri professori insieme al preside Puglia, petto in fuori e gessato grigio Lebole o Marzotto. Fanno capannello di fronte alla classe sigillata.

Come cavalli alla mossa del Palio di Siena – mancano ancora gli esami, ma le medie sono finite: FINITE! – da dentro possiamo solo udire le voci a cui il corridoio fa da cassa di risonanza, in un crescendo di concitazione che fa il paio con la nostra smania di aperto. C’è chi parla di pompieri, di polizia, qualcuno arriva a ipotizzare la necessità di un’ambulanza. Prende la parola il preside Puglia: "Chi è il più robusto della classe?" grida dopo avere dato due colpetti con il pugno alla porta, ottenendo immediato silenzio.

"Io, sono io" rispondo di getto, raggiungendo l'ingresso con un balzo. Intanto, controllo se sono riuscito a intercettare l’attenzione dell’Acquistapace, di norma riservata ai segni impressi sulla lavagna dagli insegnanti. "No, il più robusto è Tavelli" mi corregge la Cozzini, accompagnando la frase con un’occhiataccia che supplisce allo sguardo dell’Acquistapace, a vagare azzurrissimo oltre ai finestroni con vista sui castagneti delle Orobie. A-c-q-u-i-s-t-a-p-a-c-e, un cognome sillabato chissà quante volte prima di addormentarmi.

"Tavelli, te la senti di sfondare la porta?", riprende il preside con tono solenne. E da quel giorno penso che se John Wayne fosse nato in Italia avrebbe avuto quella voce lì, la voce del preside Puglia.

Tavelli, lo stesso Tavelli Ezio che ora fa il necroforo a Zurigo, sfondò la porta con una spallata, l’Acquistapace ne fu molto colpita e noi andammo finalmente a casa, aprendo la porta anche all’estate del 1980. Sulle spiagge i capezzoli delle donne non erano più un rebus da risolvere con l'immaginazione, e, mentre alla stazione di Bologna spalavano le marcerie, dai jukebox sgorgava la voce in falsetto di Alan Sorrenti (Non so che darei, per fermare il tempo, per averti al mio fianco…) e l’esordiente Gianni Togni si rivolgeva direttamente alla luna, insinuando l’idea che anche un mezzo brocco come lui potesse intercettare per un istante la bellezza.

Eppure, da quel giorno, si è fatta strada in me l’idea che esista una bellezza che nemmeno Gianni Togni ci potrà mai restituire, una bellezza che davvero si trova all'altro lato della luna, dove le cose stanno sonnacchiose (cazzi scarabocchiati sulla formica dei banchi e gomme americane appiccicate sotto la seduta della sedia, gesso bianco in sospensione, minuti che non passano mai quando si tratta di dare valore numerico a una X) e perciò perfette nel loro essere in potenza, fiori ancora in bocciolo.

Nessun piccolo passo per un uomo, nonostante le corse forsennate scandite dal fischietto di un professore di ginnastica con l’occhio destro di vetro, si trattava, in realtà, di una simulazione tra le altre, un tapis roulant che lasciava il mondo intonso e cosparso da una polverina fosforescente. Nessun balzo per l’umanità. E dunque quella porta, con buona pace del preside Puglia, avrebbe dovuto rimanere chiusa.

sabato 19 ottobre 2024

Mi ricordo 15


Mi ricordo di una Ford Taunus marrone metallizzato. La tinta rappresentava un optional cromatico ancora poco diffuso, veniva riservato alle auto di cilindrata superiore e sigla L, surrogato del lusso per un paese che cercava di dimenticare le ristrettezze della guerra. Nel frattempo le abitazioni avevano guadagnato il riscaldamento a radiatori, eppure la memoria porta con sé un brivido di freddo, il buio recalcitra nel cedere il testimone al nuovo giorno, e si precisa nelle mattine invernali che seguivano a un’intensa nevica notturna. Era solamente allora che i due palazzi affiancati, civico 8 e civico 10 di via Parolo, si popolavano di sguardi dalle finestre spalancate e dai balconi, tutti puntati al cortile ricoperto da un velo bianco e soffice e intonso. Chi stava lavando i denti si affrettava, e raggiungeva gli altri dopo avere indossato un indumento pesante. Prima o poi si sapeva che, alla guida della sua Ford Taunus marrone metallizzato, sarebbe comparso il signor Pittino.

Il signor Pittino era il padre di un mio amico, il Pittino: tanto lungo e secco lui quanto espanso il genitore, ne sembrava la radiografia. Il signor Pittino aveva anche una figlia (capelli a caschetto e forme già da donna, i tre o quattro anni più di noi rendevano il desiderio a senso unico: il nostro), per indicarla bastava sottrarre il titolo di cortesia riservato al padre e mutare di genere l'articolo determinativo del fratello, e infine una moglie che si risolveva in quel vincolo benedetto dal parroco, o in alternativa nella funzione di madre, madre dei Pittino. Nessuno ha mai conosciuto i loro nomi di battesimo.

Ecco, arriva! Qualcuno giurava di aver sentito rombare un motore nei garage. Il più delle volte si trattava di un'anticipazione illusoria, ma l’attesa, potevi scommetterci, veniva sempre ripagata dall’apparire del frontale squadrato della Taunus. Alla guida un omone serissimo, quasi corrucciato, che tentava di risalire le due rampe che separano dal cancello d'entrata, condiviso dagli edifici. Parallelepipedi un po’ anonimi, funzionali li si definiva per nobilitarli, sbocciati da un giorno con l’altro attraverso l’impollinazione del boom economico, e abitati da quella piccola borghesia per cui la parola futuro possedeva ancora un senso.

Due rampe, due rampe... due rampe solamente, si ripeteva il signor Pittino per caricarsi. Un'operazione semplice montando delle normalissime catene, soluzione adottata dai più. Oppure si poteva confidare nei condòmini più laboriosi e altruisti, i quali a metà mattinata scendevano a spalare la neve, poi spargendo il sale in grani. Un gesto identico alla semina, di cui rappresenta il corrispettivo mutato di segno: generare la vita e cancellarne la possibilità, curiosamente la stessa figura. Una figura da cui veniva esonerato il signor Pittino, che forse considerava entrambi i gesti poco virili, le cose si ottengono in un agone senza dilazioni e strategie, muso a muso con gli intralci del fato. Uomo asburgico, dai baffetti rossicci e il riporto dello stesso colore, parlare non era il suo forte. Iniziava così lo spettacolo.

Arrivato a metà della prima rampa o, nei tentativi più fortunati, alla seconda o perfino al culmine, il veicolo cominciava a scivolare indietro piano piano, l'effetto di una pellicola cinematografica a cui venga invertita la rotazione delle bobine. Si diffondevano allora mormorii di disappunto, ma i più cinici non nascondevano un sorrisetto divertito. "Dai Pittino, la prossima volta ce la fai!" gli urlava il ragionier Flematti sporgendosi pericolosamente, e lui ripartiva sempre più paonazzo in viso.

Non ricordo se sia mai riuscito nell'impresa, solo il tentativo, lo sforzo, la mosca che rimbalza sul vetro. Per quello che ne so, potrebbe essere ancora lì. A un certo punto bisognava rientrare in casa, c’era il latte tiepido nella tazza, una cucchiaiata di Nesquik e qualche biscotto da ingurgitare in fretta, la cartella già pronta accanto alla porta d'ingresso. Intanto, la radio comunicava che era scoppiata una bomba da qualche parte lontana, confusa, magari avevi capito male. Una sensazione simile allo schermo granuloso del televisore prima dell'inizio delle trasmissioni, all’improvviso compariva l'immagine di reti da pesca che calavano in un cielo grigio solcato da soffici cirri, accompagnata dalle note dell’overture del Guglielmo Tell di Rossini. Ma la vita vera era quel cortiletto imbiancato, come lo zucchero a velo sul pandoro.

Mi ricordo 14

Mi ricordo che al termine della messa la nonna mi acquistava Il Giornalino, si chiamava proprio così, con l’articolo determinativo: un foglio a fumetti nel quale erano comprese le strisce di Lucky Luke, un cowboy gavello con un cappellaccio bianco, la sigaretta perennemente in bocca di sguincio, talvolta sostituita da un filo d'erba. Il Giornalino veniva venduto all’interno della chiesa confidando nell’onestà dei parrocchiani, potevano prenderlo autonomamente da una bacheca sistemata in prossimità dell'ingresso (nel mio caso dell'uscita) dove era disposto accanto a Famiglia Cristiana e alla biografia di san Rocco, bastava infilare l'importo indicato nella fessura delle offerte. La messa la trovavo naturalmente noiosissima, ma il piacere della lettura di Lucky Luke compensava ampiamente i tre quarti d’ora della sua durata, la benedizione di don Saverio era il campanello che mi ridestava dal torpore, anticipandone la fine. Da allora trovo la parola benedizione bellissima. Non la benedizione dei soldati prima di andare in guerra, quella non è una benedizione ma una maledizione, e cioè un dire male la lingua del sacro, ma la benedizione verso ogni cosa che si conclude: un amore, un fallimento in qualsiasi campo, pazienza, è andata come è andata, ma se lo benedico può aprirsi una pagina nuova, su cui è impresso il corpo dinoccolato di Lucky Luke. Diversamente – ma questo l’ho imparato molti anni dopo, all’università – divento preda di ciò che Nietzsche chiamava malattia delle catene, dove il rimpianto o, peggio, il rancore vanno a costituire il più tenace dei lucchetti, fino ad arrivare all’odio che è una forma di legame tanto più forte dell’amore. Io mi figuro l'odio come una messa infinta, incubo di ogni bambino degno di questo nome. Mentre la benedizione è la festa del chi si è visto si visto, andiamo oltre, andiamo in pace. La messa è finita.

mercoledì 16 ottobre 2024

Mi ricordo 13

Mi ricordo l’emozione che accompagnava l’acquisto di ogni nuovo elettrodomestico. Li si andava a prendere in un negozietto dove il proprietario sembrava molto amico dei miei genitori, solo in seguito compresi che sembrava molto amico di tutti i genitori. Anche la lavatrice, o il frigorifero, erano motivo di un piacere contagioso, si diffondeva a partire dalla lettura commentata del libretto delle istruzioni, ma erano le primizie tecnologiche a produrre un vero e proprio stato di euforia; nel nostro caso si trattò dello spremi agrumi elettrico che chiamavamo arancia meccanica, e quando seppi del film pensai ci avessero copiato il titolo. Arrivò poi il momento di sostituire il vecchio televisore Telefunken con qualcosa che non impiegasse cinque minuti per accendersi – “A colori?” chiesi speranzoso. “Non esageriamo”, mi fu risposto. Ma dopo che l’amico di tutti i genitori ci mostrò numerosi modelli in bianco e nero, si optò, effettivamente, per un televisore a colori Grundig, sul suo schermo da 24 pollici la prateria in cui galoppavano i cavalli di Bonanza era davvero verde, e blu gli occhi di Carole André nel ruolo della Perla di Labuan. Dove le pratiche di consumo lievitavano in sentimento era però l’acquisto di una nuova automobile; e per nuova intendo proprio nuova: con le auto usate il sentimento risultava attenuato, come i tamburi di gomma su cui i batteristi eseguono gli esercizi per non fare incazzare i vicini. E così venne il giorno in cui la concessionaria comunicò che era finalmente arrivata la 500 per la mamma, adesso poteva andare a scuola senza pagare la benzina alle altre maestre, avrebbero fatto a turno per raggiungere Buglio in Monte, un paesino a diciotto chilometri da Sondrio. Andammo a ritirarla io e papà. Ora se c’è una cosa che caratterizza le automobili nuove è che sono identiche, una vale l'altra. E invece no. All’interno dell’autorimessa erano parcheggiate una decina di Fiat 500, tre erano bianche e del modello Super, che differiva dalla versione base per una carenatura tubolare applicata ai paraurti, altre differenze non mi sembra fossero presenti. Quando in quell'indistinguibile terzetto il venditore ne indicò una, scattò la stessa sensazione di riconoscimento che avviene con i cuccioli dei cani: anche loro, appena nati, sembrano tutti uguali, eppure nel momento in cui l’allevatore prende in braccio quello a cui infagotterai le merdine in un sacchetto nero ogni volta che lo porti ai giardinetti, giureresti di conoscerlo da sempre. E fu con uguale stato d’animo che strappai la plastica trasparente con la quale erano ricoperti i sedili anteriori, un inutile diaframma tra il nostro culo e la nostra auto, NOSTRA, potere degli aggettivi possessivi, mentre si diffondeva all’interno dell’abitacolo l’odore rilasciato dagli oggetti nuovi per sedurre, un trucco simile ai castori grazie a certe ghiandoline ricercate dai profumieri. Nel viaggio di ritorno prestavo attenzione solo alle altre 500, guarda dicevo ogni volta che ne incrociavamo una, anche loro hanno una 500, e mi sembrava un segno di appartenenza, la tacita complicità di una confraternita segreta. Raggiunta casa il papà parcheggiò in una posizione in cui l’auto potesse essere vista dal balcone, non so se per controllarla meglio o per mostrarla subito alla mamma; inutile aggiungere che io la intesi a questo modo, e varcata la soglia strillai: “È di sotto, è di sotto!” La mamma interruppe di cucinare e si unì a noi, eravamo appoggiati alla ringhiera e guardavamo giù, dal quarto piano fissavamo l'automobile di cui avevamo parlato a lungo nei mesi precedenti – "Non possiamo permettercela" obiettava la mamma, "ma se ci aiuta il nonno..." , discusso a pranzo e cena in particolare sulla tinta, infine scelto e ordinato dopo avere firmato un sacco di scartoffie, e forse ciò che scorgevamo dal balcone era l'intera famiglia riflessa in quella sagoma ricurva e opalescente, solo un riquadro nero al centro che in estate diventava cielo. Ora che ci ripenso, non trovo altre ragioni per usare il termine famiglia riferito a tre persone così diverse e non di rado ostili, se non la comune appartenenza al tempo in cui le cose non erano solo le cose, ma forma surrogata della vita.

domenica 13 ottobre 2024

Mi ricordo 12

Mi ricordo di un furgone che vendeva baguette con saucisson sec in una piazzola sulla Avenue du Maréchal-Juin, tra Cannes e Cap d’Antibes. Non so per quale ragione non ci fossero anche la zia e i miei cugini, Paolo e Alessandra; probabilmente erano rimasti in campeggio, mentre Antonio (che aveva appena due anni) si era fermato a Rapallo assieme ai nonni. Sull'auto eravamo solamente io e lo zio.

Nel vedere il furgone mise la freccia, accostò la Fiat 125 con impianto a GPL, e ci dirigemmo entrambi verso il bancone; sporgeva di un paio di spanne ed era in legno tinteggiato, verde come il resto del veicolo. Suppongo che lo zio avesse bisogno di un’indicazione stradale, avevamo da poco pranzato, ma visto il trascorrere dei minuti ci scappò forse un pastis: “Vuoi qualcosa anche tu?” “Mmm… no, niente.”

Da grandi si finge di sapere sempre cosa si vuole, mentre da piccoli si accoglie l’indeterminatezza del desiderio con pragmatismo, le mani vagano prensili e si aggrappano alla prima cosa che trovano, per farne esperienza ed eventualmente scartarla. Si trattava, nella circostanza, dell’asta centrale di metallo che sosteneva il tendalino cerato; prima la sfiorai, poi iniziai a giocarci con maggiore convinzione: mi appendevo, facevo mezzo giro sollevando i piedi da terra, opplà, come fanno le ragazze mezze nude nei locali frequentati dagli agricoltori del Midwest.

Intanto, i due uomini continuavano a parlare; non che il francese dello zio fosse granché, ma si vede che voleva fare pratica. Lui parlava, e beveva il suo pastis, e parlava ancora, mentre io roteavo appeso al paletto del tendalino, che come prevedibile a un certo punto venne giù. L’uomo del furgone guardò allora lo zio, lo zio guardò me e io guardai a terra, dove il tendalino amaranto si era convertito in tappeto pieno di grinze.

Era uno di quei momenti di sospensione che si vedono nei film di Sergio Leone, avrebbe potuto durare, o essere durato, anche più di mezz’ora, mentre da una radiolina a transistor provenivano le note di una canzone francese; a posteriori, mi verrebbe da scommettere su Une belle histoire di Michel Fugain, che in quell'agosto del 1972 era in testa alle classifiche, e vent’anni dopo fu rifatta da Califano con il titolo Un'estate fa. E poi, ecco, con la stessa inattesa subitaneità del crollo, lo zio mi diede una sberla.

Una sberla, dallo zio?!

Fosse stata la zia tutto normale, sempre meglio dei manrovesci della mamma, o dei calci in culo di papà, ma una sberla dallo zio non era concepibile. Nemmeno ai miei cugini, pensavamo non ne fosse capace, come certi cani da caccia che non fanno la ferma. Il cacciatore alla fine se ne fa una ragione: "È fatto così" ti dice alzando le spalle, "non gli viene proprio." E invece lo zio era capace di dare le sberle, ma tu guarda…

L’uomo del furgone convertì il suo sguardo severo in soddisfazione – era ciò che attendeva, a parziale risarcimento del casino combinato – mentre lo zio si tolse gli occhiali, se li pulì, poi li rimise… Adesso era lui a non sapere dove mettere gli occhi e le mani.

Durante il viaggio di ritorno al campeggio continuava a farmi domande, hai fame Guido?, hai sete?, mi fermo a prenderti un gelato?, mentre io non la smettevo di singhiozzare. Un bello stronzo pure io, a fargliela pesare così. Avrei dovuto capire che ci sono cose che si fanno semplicemente perché vanno fatte, il mondo se le aspetta, e noi siamo nel mondo ma non siamo del mondo.

Ho sempre pensato che lo zio fosse l’incarnazione di questo passo evangelico, e anche nel darmi uno schiaffo il suo spirito era rimasto ad aleggiare altrove. Un luogo solo apparentemente concreto, del mondo conservava l'involucro composto da tornei di boccette, Sambuche Molinari con la mosca, macchine fotografiche Nikon, viaggi da ripercorrere di notte sull’atlante, discese sugli sci. Un mondo buono, un’belle histoire. Dove le sberle ai bambini sono lo scotto da pagare per far parte del gioco. 

venerdì 11 ottobre 2024

La voce degli ebrei

Quando, nel decennio scorso, ci furono le stragi islamiste in Francia e Inghilterra, si chiese ai mussulmani presenti in quei paesi – ma fu fatto anche qui – di scendere in piazza e manifestare il proprio dissenso, ottenendo risposte perlopiù tiepide e levantine, nelle quali prevalevano i se i ma e i però. 

Ora è venuto il momento di porre quella stessa richiesta a tutti gli ebrei, e ho detto proprio ebrei, non israeliani, ovunque essi vivano: dissociatevi pubblicamente da una guerra parzialmente giusta nelle premesse difensive (ma forse non si dovrebbe mai parlare di guerre "giuste", e solo di guerre legittime), quanto criminale nei modi. Guerra combattuta da Israele, guerra di sterminio, guerra con una proporzione di vittime civili e di minori inaudita, guerra in cui per la prima volta si spara intenzionalmente contro le truppe dell'Unifil, come a dire dell'unica agenzia di pace (l'ONU) di cui l'umanità è riuscita a dotarsi, con tutti i limiti che l'impresa comporta. Guerra per dirla con un solo aggettivo, vergognosa.

È importante che gli ebrei lo facciano per due ragioni: la prima etica, e non occorre spiegarne i motivi, mentre la seconda è strategica, perfino utilitaristica. Senza una loro piena e tempestiva condanna della guida politica israeliana, si andrà infatti ad alimentare anche in Occidente quell'antisemitismo non più strisciante ma che rialza il capo orgoglioso, come nelle manifestazioni pro palestinesi dei college americani, o nelle farneticanti dichiarazioni di Chef Rubio e altri oltranzisti di una pseudo virtù. E non valgono, di nuovo, i se i ma e i però.

Che gli ebrei del mondo facciano sentire la propria voce, come qualcuno – penso in Italia a Moni Ovadia, o a Gad Lerner – già sta facendo. È solo un consiglio amichevole, sia chiaro, a loro carico nessuna responsabilità, ma piuttosto il rischio che tramite il silenzio si alimenti la confusione tra ebraismo e israelismo, che è cosa diversa ancora dal sionismo. Ma se decidono di spezzare questo vincolo vizioso, devono essere in tanti ad esprimere la condanna delle politiche militari di Israele con chiarezza, prima che il mondo torni a condannare gli ebrei.

giovedì 10 ottobre 2024

Mi ricordo 11

Mi ricordo la mia cagna Baruzza, un bobtail che aveva imparato ad andare in motorino; d'accordo, guidavo io, ma prima delle curve disponeva il corpo peloso alla piega, come fanno i piloti della Moto GP. Era un pomeriggio di fine novembre dal cielo terso e la portai a fare una passeggiata nel bosco dei Bordighi – niente motorino oggi? sembrava dirmi con i suoi occhi castani –, dove da piccolo andavo alla ricerca di fragole selvatiche e trovavo preservati afflosciati accanto al sambuco, pagine strappate dai giornaletti porno, siringhe; ma a cercare bene, qualche fragola la si trovava comunque. Nel frattempo, mio nonno, con cui ci eravamo precedentemente accordati, sopprimeva nella fontana gelata quattro dei suoi sette cuccioli. Una notte in cui era in calore era riuscita a sfuggire dalla clausura imposta, e aveva combinato la frittata; chissà quale cagnetto randagio era il padre, quando la riacciuffai il giorno dopo gliene ronzavano attorno una decina. Non possiamo tenerli tutti, aveva sentenziato la mamma. Non sono nemmeno di razza. Non possiamo tenerli tutti, avevo convenuto io. Il guaio è che nessuno di noi possedeva il coraggio per farlo. L’unico coraggioso in famiglia era il nonno Francesco, detto Cechin, e a lui fu appaltato il lavoro sporco. Al ritorno, Baruzza corse subito al pagliericcio nella stalla, dove aveva lasciato al caldo i suoi cuccioli: le palpebre ancora sigillate, pura vita che si dibatte per tentativi dentro un'ipotesi di mondo; cercò qualche minuto i quattro mancanti, ma se ne fece presto una ragione. Non so dove il nonno abbia poi gettato i cadaveri, il pelo a chiazze bianche e nere diventato una spugna fradicia e immota, non ho mai voluto indagare. Nell'accennare alla cosa diceva soltanto: "L'è mestè ch’i me ruga", sono mestieri che mi danno fastidio, e scuoteva la testa. Quanto a me, negli anni – ne sono passati più di trenta – il senso di colpa non si è mai attenuato, ma si è trasformato in colpa senza senso. Karma. Vergogna per la propria oscena nudità. Dove non è l’esposizione dei genitali a turbare la vista, i cazzi e le fiche che, nel bosco dei Bordighi, intravedevo sulle pagine incrostate dalla pioggia di Caballero e Le Ore Mese, ma la coscienza di appartenere a una specie proterva, che va alla ricerca di fragoline e poi scrive nel suo testo più sacro: “il timore e terrore in voi sia in tutti gli animali della terra e in tutti gli uccelli del cielo; tutto ciò che striscia al suolo e tutti i pesci del mare sono dati in vostro potere” (Genesi, 9-2).

(Ps – Nella fotografia, Pietro, il figlio di mio cugino, Baruzza e io. Mia madre ha voluto incorniciare l’immagine da tenere nel salotto buono, che però resta chiuso tutto l’inverno per risparmiare sul riscaldamento. Credo che in termini tecnici si chiami rimosso.)

mercoledì 9 ottobre 2024

Mi ricordo 10

 

Mi ricordo quando Cinzia accettò finalmente di mostrarci la sua cosa. Il luogo convenuto era il mio garage condominiale, dove i box non erano presenti ma solo linee bianche tracciate a terra, in una festosa promiscuità da autorimessa; così potevo fermarmi a rimirare la nuova Alfa Romeo Giulia GT del ragionier Ciccozzi, la stessa auto di Pasolini. Ci organizzammo a questo modo: Claudio, Federico e io avremmo osservato la cosa di Cinzia uno alla volta (Ma solo per cinque secondi e non si tocca, aveva premesso con un'assertività che non ammetteva repliche), mostrando a nostra volta il coso in simultanea. L’accordo parve a tutti equo. Le due persone non coinvolte avrebbero sorvegliato, l’uno, la scala di accesso dall’atrio condominiale, l’altro la saracinesca da cui entravano i veicoli. Poi ci saremmo naturalmente dati il cambio, con eccezione di Cinzia che sarebbe rimasta al centro del garage come una fruttiera sulla tovaglia di pizzo. Si fece la conta per decidere chi sarebbe stato il primo fortunato, risultò essere Claudio. Dalla mia postazione defilata potei scorgere solo il gesto, un po’ meccanico, con cui Cinzia sollevava la gonna plissettata a stampa tartan, sotto indossava lunghe mutande di lana beige e sotto ancora – ma qui comincio ad andare per induzione – degli slip di cotone quale sipario della cosa. Una volta spalancato, lo spettacolo fu tutto per Claudio, il quale a sua volta faceva scorrere la cerniera che chiudeva la patta dei pantaloni, altrimenti detta bottega. Quindi fu il turno di Federico, identica procedura: gonna tartan, mutande di lana, bottega, sipario e infine… Già pregustavo il mio momento, dovevano provare un simile stato d'animo gli emigranti all'approdo del vapore a Long Island, chissà che la cosa non somigli alla Statua della Libertà. Ma che succede?! Il rombo dell’Alfa Romeo Giulia GT del ragionier Ciccozzi, sta scendendo la rampa che conduce ai garage. Cinzia emette un urletto e si abbassa la gonna, comincia a correre in direzione opposta, corriamo tutti, anche Federico con la bottega ancora aperta. Toccò aspettare quasi dieci anni per vedere per la prima volta una cosa, se come giusto stralciamo la cosa di mia cugina con cui si giocava a dottore e infermiera.

(PS - Lo so e me ne scuso: la cultura woke prevede anche una versione del gioco con dottoressa e infermiere, infermiera infermiera, dottore dottore etc. Ma, negli anni Settanta, eravamo ancora cuccioli del patriarcato.)

martedì 8 ottobre 2024

Mi ricordo 9

Mi ricordo di un tema che ci fu assegnato in quarta elementare. La traccia dettata dalla maestra Maccarone, a ogni nuova parola l’alito di Pocket Coffee si espandeva tra i banchi, era tra le più classiche: scrivi di una persona che conosci bene. Io scelsi Carlino. Il diminutivo non si riferiva all’età – di lui conservo memoria da sempre, e da sempre mi sembrava già anziano – ma alle dimensioni fisiche più congeniali all'ippica che al basket, l’aspetto mite e vagamente intimorito, in particolare da possibili catastrofi nella carne. Diciamolo chiaramente: Carlino era ipocondriaco. Un termine di cui ovviamente non comprendevo ancora il significato, ma esistono le storie proprio per restituire vita alle parole difficili. 

Questa storia inizia con Carlino che va dal medico, ormai era un habitué e l’altro lo prendeva un po’ in giro. “Come siamo eleganti oggi” gli disse vedendolo entrare con un giubbetto color vinaccia, riluceva alla maniera delle auto appena uscite dal concessionario, la cerniera chiusa fino al collo. Carlino ne era orgoglioso al punto di levarselo solamente per dormire, ma è possibile facesse anche da pigiama. L’aveva acquistato poche settimane prima in un negozietto frequentato da quelli che allora venivano chiamati capelloni. A differenza del nonno, Carlino aveva ancora tutti i suoi capelli giallastri in testa, ma non poteva certo essere definito un capellone. Da quando qualcuno gli aveva detto che vivere in altura poteva comportare danni alla salute – non che provenisse da Lhasa, ma da Primolo, 1270 metri sul livello del mare – era sceso a fondovalle senza un preciso progetto, solo un vago ma determinato intento di salvarsi la pelle. Fu quello lo spirito con cui bussò alla porta della fattoria dei miei nonni. “Avete dei lavoretti da farmi fare?”

Credo fu la disposizione compassionevole di mia nonna (lei la chiamava carità cristiana) a far sì che alla fine adottassero quel bambino un po’ cresciuto, consentendogli di abitare in due locali ricavati dalla legnaia, condivideva con loro i pasti e perfino le puntate di Canzonissima sul televisore; le gambe delle gemelle Kessler erano troppo lunghe e scoperte per la nonna, ma non c'erano molte alternative alle precoci sere invernali. Per sdebitarsi, Carlino portava le tre o quattro mucche al pascolo, e quando il sabato andava a Sondrio acquistava dei piccoli regali; in genere si trattava di novità tecnologiche, come l’accendifuoco elettrico da sostituire agli zolfanelli con cui avviare la cottura del minestrone. Poi passava in erboristeria e infine si soffermava di fronte alle vetrine dei negozi di abbigliamento, dove aveva adocchiato il giubbetto per il quale stava ricevendo i complimenti dal medico.

Carlino incassò soddisfatto l'apprezzamento, ma subito prese a esporre la nuova terribile minaccia che pendeva sul suo capo, anzi sul suo petto. Era infatti lì che gli doleva, dottore, è grave…? Il medico lo auscultò, gli provò la pressione con lo sfigmomanometro (con un coso, stava scritto sul mio tema), già che c’era gli fece pure cacciare la lingua e dire trentatré, ma sembrava tutto in regola. Nel dubbio, gli prescrisse delle lastre toraciche e un elettrocardiogramma. Solo che anche quelli, quando ritornò sempre più allarmato con i referti, non rivelavano alcuna alterazione.

Eppure Carlino continuava a stare male, se possibile i dolori al petto erano perfino peggiorati: “Dottore, non mi nasconda nulla! Anzi, no, se sto per morire non me lo dica…” Non riusciva a mettersi d’accordo con sé stesso. Il medico scosse la tessa, gli diede una pacca sul suo bel giubbetto di pelle, e gli disse che non aveva niente di cui preoccuparsi. Rassicurato Carlino uscì dallo studio, ma dopo pochi giorni era di nuovo lì.

A quel punto il medico ebbe un’intuizione. “Senti Carlino” gli disse, “prova a stare una settimana senza indossare il giubbetto. Poi ripassi e mi dici.” “Dottore, dottore: sto bene!” esclamò nel rivedersi alla scadenza prevista, “ma come ha fatto a guarirmi?” “Lo immaginavo”, disse il medico con un sorrisetto malizioso. Spiegandogli poi che la prossima volta doveva prendere indumenti di taglia più abbondante: “Sarà anche elegante, ma il giubbetto che hai acquistato va bene per un ragazzino di otto o nove anni”, la mia età quando scrissi il tema su Carlino. E fu così che lui me lo regalò, e non ebbe più dolori al petto.

lunedì 7 ottobre 2024

Mi ricordo 8

 

Mi ricordo la prima volta che mi masturbai sfogliando, con l'altra mano, la sezione intimo femminile del Postal Market. Mi ricordo anche la seconda volta, in questa circostanza mi concentrai su di un'unica modella: capelli lunghi, lisci e ossigenati, gli occhi azzurri delle ragazze di Stoccolma, sulla cui disinvoltura amorosa si fantasticava; avevo strappato la pagina per future evenienze, ma poi la mamma aveva lavato i jeans in cui l'avevo ripiegata. Somigliava vagamente a Maria Giovanni Elmi, la fatina bionda che annunciava i programmi su Rai 1, ma un po' più in carne, l'espressione dolce e mite di chi non mira a diventare una top model, ma si accontenta di posare per un catalogo di vendite per corrispondenza; volendo esagerare, la speranza, confidata alla sola amica del cuore, di ottenere una parte da segretaria in un fotoromanzo. Indossava mutandine e reggiseno bianchi trapuntati da piccole ciliegie rosse – erano presenti anche una versione con orsetti e una con fiorellini di campo, ma le trovavo meno eccitanti delle ciliegie. Il Postal Market apparteneva a mia nonna, il postino glielo consegnava ogni tre mesi assieme a una copia di Famiglia Cristiana, poco utile ai miei scopi. La terza volta che cercai di masturbarmi non se ne fece nulla: mi guardavo in giro, aprivo cassetti, setacciavo cumuli di vecchie riviste ma accidenti, non si trovava... "Cerchi qualcosa?" mi chiese la nonna con tono distratto. "No, niente." Da quel giorno non seppi mai dove aveva iniziato a nascondere il suo Postal Market, ma appresi la sottile arte dell'immaginazione.

venerdì 4 ottobre 2024

Mi ricordo 7

Mi ricordo di due pullman e un autorimorchio. Il primo pullman prendeva avvio da piazzale Valgoi: puntuale, alle 13.15, tutti i mercoledì a partire da dicembre fino ai primi tiepidi pomeriggi di marzo, quando la neve comincia a sciogliersi anche in altura. Una mezz'ora di viaggio scarsa, si approfittava per mangiare il panino con la frittata preparato dalla mamma, a Caspoggio si scendeva. Essendo piazzale Valgoi a poche decine di metri da casa mia, ero l'unico bambino che, con passo strascicato, raggiungeva il pullman direttamente con gli scarponi di plastica sagomata ai piedi, tutti gli altri indossavano i Moon Boot da sostituire durante il tragitto, mentre i genitori li accompagnavano portando in spalla gli sci. Nel mio caso facevo tutto da solo, cosa che mi dava l'illusione di avere già agganciato lo skilift che mi avrebbe condotto alla vetta dell'età adulta, senza pensare che sarebbe poi cominciata una lenta discesa. Ad attenderci alla seggiovia un maestro di sci dal volto arso dal sole, su cui spiccavano denti bianchissimi; se si toglieva gli occhiali a specchio con un galletto impresso sulla montatura in corrispondenza del sesto chakra, anche l'incarnato attorno agli occhi rivelava un inatteso candore, ricordando i seni delle attrici famose che posavano su Playboy.

Il secondo pullman si presentava in una sola occasione per ogni anno scolastico, in genere in autunno quando i più piccoli erano ancora all'abecedario – A come albero, B come banana, C come cane etc. –, parcheggiava di fronte alle scuole elementari intitolate a Ezio Vanoni, e le classi lo raggiungevano una per volta accompagnate dalla maestra e dal bidello che emanava un singolare odore di caldarroste, per poi frazionarsi ulteriormente in unità: quando scendeva l'alunno che precedeva nella coda saliva il successivo, quindi si toglieva, con un po' di apprensione, maglia camicia canottiera ma innanzitutto la blusa (quella dei maschi era nera, bianca a grembiulino per le femmine, a cui le più vezzose aggiungevano un fiocco rosa), e infine sempre più intimorito poggiava il petto gracile dietro a uno schermo simile a quello della tivù in bianco e nero, solamente Ciccozzi la possedeva già a colori. Dall'altra parte, invece di Zorro, c'era un medico taciturno assistito da un'infermiera che offriva sorrisi e caramelle Rossana, ma non prima di aver proiettato lo spettacolo pulsante dell'interiorità, in un'accezione molto più letterale delle vaghezze di Freud; credo si chiamasse fluoroscopio, una sorta di radiografia in versione live che emetteva una quantità di raggi X pari all'atollo di Mururoa. Ma poco male, in fondo si trattava di un compito scolastico tra gli altri, e io, anonimo corpo tra corpi, immaginavo che avrei ottenuto un punteggio da uno a dieci. Come a Miss Italia danno il voto alle gambe a noi l'avrebbero dato ai polmoni.

L'autorimorchio aveva un cassone lunghissimo, come minimo ventidue metri, la misura dichiarata di Goliath, a cui era stata aggiunta una postilla sul manifesto giallo che tappezzava la città: "la balena più grande del mondo." Arrivò a Sondrio nella primavera dei primi anni Settanta, rimanendo una decina di giorni ai piedi del monumento in bronzo di Garibaldi, quando la piazza a lui dedicata non era ancora pedonale. Fu il nonno Pinin a insistere per andarla a vedere, forse in conseguenza del fatto che Goliath  così stava scritto all'interno del dépliant  era stata abbattuta al largo di Trondheim, in Norvegia, il 6 giugno del 1954, paese nel quale il fratello del nonno era stato console, e da cui a Natale provenivano i maglioni a disegni geometrici inviati dai cugini norvegesi di papà. Non ci volle però molto a capire che il cetaceo era una semplice ricostruzione, della vera Goliath aveva mantenuto solo la fitta schiera dei fanoni giallastri, oltre a un vago sentore di pasta d'acciughe, la tristezza nello sguardo vitreo di chi eccede la misura assegnata dai mediocri, pagandone lo scotto secondo il terribile monito del katà métron. Ma allora queste parole difficili non le conoscevo ancora, e fu tristezza e basta.

giovedì 3 ottobre 2024

Mi ricordo 6

Mi ricordo di un idrovolante che sorvola il mare color asparago di fronte alla spiaggia di Rivabella. Scende di quota. Si avvicina minaccioso e, quando è sopra la testa dell'uomo che strilla COCCOBELLO!, sgancia qualcosa; sembrano coriandoli, ma non è Carnevale. Saranno allora banconote, gli oggetti si fanno più vicini e sfarfallanti, la porzione di cielo coinvolta ne è satura, e si fa strada questa ipotesi; la gente esce dal perimetro d'ombra del proprio ombrellone, guarda in alto speranzosa. Macché, grida il bagnino con accento romagnolo, siete proprio dei patacca: si tratta infatti dei buoni del formaggino Susanna, al fortunato possessore un materassino gonfiabile con la sagoma della stessa Susanna. Uomini e donne e bambini interrompono ogni attività – chi la lettura di Grand Hotel, chi il colpetto d'indice a una biglia di plastica con impresso il volto di Gimondi, chi ancora consulta il dizionario italo\svedese per formulare la frase sei molto bella – e si precipitano in direzione del punto di caduta che muta di continuo, replicando l'enigmatico volteggiare perturbato dai moti d'aria; un refolo di Scirocco li fa virare a destra, poi, seguendo l'intuito di un geometra di Cisano Bergamasco, volgono di nuovo a sinistra, si corre, ci si sgomita, si inizia a saltellare per acciuffare al volo i buoni prima che finiscano nelle mani dei più alti, privilegiati i giocatori di basket e pallavolo. Il tutto visto dalla prospettiva dell'idrovolante, ricorda ragazze nubili quando la sposa si gira di spalle e lancia il bouquet.

mercoledì 2 ottobre 2024

Mi ricordo 5

Mi ricordo quando la donna che assisteva di notte il nonno telefonò dall'ospedale, erano circa le ventuno e trenta. La prima cosa che feci fu montare sull'R4 rossa e raggiungere la nuova abitazione di mio padre; si era separato dalla mamma da pochi mesi e ora viveva in un bilocale in affitto, il telefono non era ancora stato collegato. Suonai il citofono, e quando rispose dissi soltanto: "È morto il nonno." Durante il tragitto verso la camera mortuaria rimanemmo in silenzio, era la prima volta che non inserivo un audiocassetta nell'autoradio – in quel periodo ascoltavo più che altro Bruce Springsteen, ma dopo un paio di Ceres non disdegnavo Kid Creole & The Coconuts – e comunque il silenzio era una disposizione non nuova nella nostra famiglia. O non avevamo nulla da dirci o, al contrario, ne avevamo troppe, che però stridevano tra di loro e dunque meglio chiudere il becco. Se esistesse un reparto figli all'Ikea, io non ero probabilmente il figlio ideale che mio padre avrebbe messo nel carrello, con tutto che avrebbe poi dovuto montarmi seguendo i disegnini dello schema; lo stesso avrei naturalmente fatto io, al reparto padri. E mio nonno? Si sarebbero acquistati mio nonno e mio padre, oppure anche loro erano stati accoppiati dal caso dentro un salottino troppo stretto, poco importa se Art Deco o di scandinavo minimalismo? C'è un detto popolare che lo sottolinea: i parenti non si scelgono. Arrivati di fronte alla stanzetta dove giaceva il corpo del nonno interamente ricoperto da un lenzuolo, papà entrò con passo risoluto, mentre io preferii attendere fuori. Trascorsero cinque o dieci minuti, un tempo che mi apparve enorme; per riempirlo prestavo attenzione ai dettagli sensoriali, come l'odore terroso dei crisantemi, il ronzio dell'aria condizionata utile a non fare deteriorare i corpi privi di vita, il gusto della pasta e ceci che avevo mangiato la sera a cena. Quando mio padre uscii con gli occhi umidi (ma nemmeno quella volta vidi una lacrima scorrere sulle sue guance ben rasate) lo riaccompagnai a casa con The River a bassissimo volume, come all'andata senza scambiarci troppe parole. Le strade sondriesi erano deserte malgrado il mite clima di un settembre inoltrato, dalle finestre chiuse il baluginare dei televisori accesi, da lì a pochi giorni sarebbe iniziata la raccolta delle mele, a cui sarebbe seguita quella dell'uva. Di norma un bambino gioca con i balocchi ricevuti in dono a Natale la prima settimana, poi tende progressivamente a scordarsene: o li scassa, o finiscono in solaio accanto a un vecchio paio di sci. Con i padri, pensavo, forse avviene l'opposto. Li si vede risplendere nella vetrina solo quando sono irrimediabilmente rotti.

martedì 1 ottobre 2024

Mi ricordo 4

Mi ricordo di avere bevuto una Caipiroska assieme a Enrica Bonaccorti. Un comune amico ci aveva presentati, era una sera tiepida di fine giugno, quando la Roma che conta o pensa di contare si dà convegno nel dehor del Caffè della Pace. Alla sua domanda di cosa mi occupassi (a Roma non si chiede che lavoro fai, a Roma ci si occupa, la differenza tra i due termini è sottile ma decisiva, come quella che passa tra fica e figa) avevo risposto che ero un pubblicitario. “Hai presente lo spot della Omsa” avevo aggiunto con tono confidenziale, “l’ho ideato io. Il claim Omsa che gambe! è stata la ciliegina sulla torta.”

In quell’estate trascorsa a Trastevere raccontavo balle in continuazione, a Sondrio tutti si conoscono e non potevo farlo. Anche a Roma, in effetti, tutti si conoscono, ma la mia provenienza barbarica mi conferiva il ruolo di jolly, buono per essere giocato in ogni circostanza. A un party a casa di Gil Rossellini, per il solo fatto di indossare una camicia color antracite mi ero presentato come seminarista; l’unica interessata a parlare con me di teologia era stata Fernanda Pivano, era seduta in disparte incastrata dentro un abito di lamé, nei tasselli color argento si riflettevano moltiplicati i volti di tutti quelli che le si accostavano per domandarle di Hemingway, e lei replicava con l’infinita pazienza di un disco rotto.

Più tardi, nello stesso bar, ero riuscito a rimorchiare una ragazza austriaca; attento a non essere udito da Enrica Bonaccorti, avevo prontamente generato una nuova versione di me: ora ero un membro in licenza premio della flottiglia aeronautica delle Frecce tricolore. “Frezie trikoloore… what does mean?”

La sera prima ero stato in una discoteca sotterranea, una specie di minuscolo eccentrico ipogeo frequentato da elettrauti punk, commesse agghindate come Christina Moser dei Krisma, e avevo proposto all’austriaca di tornarci nuovamente assieme. Radio Londra era il suo nome, non so se esista ancora e nemmeno in quale quartiere fosse. Negli anni Novanta dovevamo possedere un senso dell’orientamento animale, senza TomTom e Google Maps eravamo partiti fiduciosi a bordo del Boxer di mia cugina, ero ospite a casa sua mentre lei si trovava in Ungheria a curare i costumi per un film, io alla guida e l'austriaca aggrappata ai miei fianchi come Gregory Peck e Audrey Hepburn in Vacanze romane. A ogni buca che si apriva nei sampietrini esclamava qualcosa in tedesco con molte consonanti occlusive velari sorde, lo status di Freccia tricolore mi suggeriva di non indagare sul significato. In qualche modo eravamo comunque arrivati a destinazione.

Ovviamente non sapevo che quel giorno era dedicato alla serata gay, ma l’austriaca non sembrava turbata dalla cosa (niente più consonanti occlusive velari sorde) e si era messa subito a ballare, unica donna presente in pista se non nell’intero locale. Io avevo invece raggiunto il bancone e ordinato una Caipiroska, in quel periodo ero in fissa con la Caipiroska, che inaspettatamente mi era stata offerta da un giovane magrolino di New York; più o meno la mia stessa età, tra i venticinque e i trent’anni.

“So, she’s your girl?” aveva attaccato indicando la ragazza con cui ero entrato al Radio Londra, mentre scendevamo dalle scale continuavo a mimare con le braccia il volo di un jet per farle comprendere la mia occupazione, non lavoro sia chiaro. “Naah… do I look like the kind of guy who’s into pussy?” avevo risposto facendogli l’occhiolino. La nuova recita era già pronta e servita.

A un certo punto, il ragazzo newyorkese mi aveva sfiorato e, poi, decisamente afferrato la mano in un tentativo di approccio – dove e quando se no? –, ma io l'avevo ritratta per indicare un uomo muscoloso che si dimenava accanto all’austriaca, una specie di marcantonio in abiti di pelle nera e baffoni dello stesso colore; nel decennio precedente avresti giurato fosse un membro dei Village People. “Look at him” avevo detto simulando apprensione, “we’re kinda a thing, you know…” E dopo una lunga pausa teatrale: “He’s a very VERY jealous guy.” Quindi gli avevo raccontato, nel mio stentato inglese, di quando ero stato a letto con Elton John. Non ti sei perso niente, he has a small dick.