sabato 1 febbraio 2020

L'epidemia dell'identità, o su chi dice io


Il coronavirus. In questi giorni molte parole, immagini, parerei illustri e meno, perlopiù di carattere strettamente medico o giornalistico, non di rado in una sovrapposizione terroristica tra i piani. Mi sembra che vi sia un versante però ancora poco indagato, che potremmo anche chiamare filosofico.
Stando ai dati che ho raccolto in questo profluvio di informazioni, la mortalità associata alla contrazione della malattia è del 2%; ma il 2%, è forse inutile ricordarlo, tra chi è stato infettato dal virus, quindi non più di un quinto della popolazione, come avviene per una normale influenza. In altre parole, la probabilità statistica di morire a causa del coronavirus equivale al 2% del 20%, una percentuale che oscilla effettivamente attorno a un (quasi) trascurabile 0,5%. Viceversa, la probabilità di morire nel corso della vita per un tumore è stata stimata intorno al 30%, mentre quella di morire per un male a caso, per dirla con Ivano Fossati, è del 100%.
Ciò che ci fa tanto preoccupare – e io sono tra i primi a farmela sotto, non voglio chiamarmi fuori – non è dunque la paura di morire tout court, ossia di morire un giorno, chissà quando, chissà come, ma di morire di polmonite nei prossimi mesi, in cui si presume dilagherà in tutto il mondo la malattia partita dalla provincia cinese di Wuhan.
Questo dato emotivo ci indica che l’identità non è qualcosa estesa nel tempo, già che l'elastico mentale ha sempre un radicamento nell'adesso: il giovane che si immagina sposato alla più carina della classe 
 nel mio caso si trattava di una certa Simona, che nell'immaginario proto televisivo dell'epoca io associavo a Maria Giovanni Elmi, la fatina bionda che annunciava Carosello  o l'anziano che ricorda, con rimpianto, le scorribande giovanili, sono entrambi pensieri che si pensano a partire da un qui e un'ora.
E così anche il corpo con cui mi identifico e verso il quale provo preoccupazione, è sempre questo corpo qui, di cui ho esperienza nel momento presente, e anche quando si allontani dall’ideale (il vecchio che si guarda allo specchio e non si riconosce più) ci rode il culo doverlo lasciare, lasciare entro un orizzonte di tempo limitato, intendo. Diversamente il corpo di quell’altro, quel tizio che porta il mio nome e possiede le chiavi del mio appartamento, tra venti, trenta e fossero pure cinquant’anni, non sarà più il mio corpo, non sarò io, ma una persona che vagamente ancora mi rassomiglia, ma che con me ha in comune solo una manciata di ricordi.
La domanda a questo punto diventa: ma davvero quella vocina interna che dice io, a volte spesso a sproposito – io di qua, io di là… – coincide con la memoria e la proiezione, come tanti letterati e filosofi hanno suggerito nella storia?
L’epidemia drammatica di questi giorni pare risponderci negativamente, per quanto rimane aperta la domanda. Con tutti gli scongiuri del caso, che muoia dunque quel lui con in tasca i miei documenti anagrafici, che muoia in un giorno che si presume sempre remoto e piovoso, che muoia di tumore o di un altro infido agguato. Tanto, più mi allontano dall'esperienza, dalla presenza, meno sarò. Ma col cazzo che io voglio lasciarci le penne dopodomani, per lo stramaledetto coronavirus.

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