mercoledì 5 febbraio 2020

Sanremo 2020, o sull'arte ai tempi di Amadeus


Il Sanremo 2020 di Amadeus è pura arte!
Un momento, facciamo un passo indietro, e anche uno di lato. Iniziando col premettere che non ho ascoltato una sola bella canzone ieri sera; e anche Fiorello, più che essere davvero simpatico, fa il simpatico, contribuendo a quel senso di diffusa tristezza che aleggiava sull’intera manifestazione.
Eppure mi sento di ribadire l’affermazione iniziale: questo Sanremo, come le edizioni immediatamente precedenti ma in misura maggiore, condivide con l’arte una diversa disposizione al reale, che è ormai totalmente surrogata e vicaria, quando non caricaturale. Lo possiamo sperimentare con chiarezza soffermandoci sull'esibizione di Achille Lauro.
Il ragazzo è anche simpatico, più di Fiorello almeno, ma ricorda un’ipotetica imitazione di Crozza a un performer glam degli anni settanta, mettiamo David Bowie. La differenza sta appunto nel fatto che David Bowie, a parte l’evidente e diversa caratura musicale, possedeva la capacità mimetica di intercettare gli umori del presente, e di restituirli in forme ambigue, fantasiose e cangianti.
Nulla di tutto ciò in Lauro e negli altri cantanti dell’ultimo Sanremo, ciascuno, a modo suo, una copia di una copia di una copia. Ma perché dico allora che è arte? La risposta sta in questo movimento dalla realtà al suo doppio, a caratterizzare l’arte a partire da una data ben precisa: l’affermazione su larga scala del cinema, dunque gli anni trenta e quaranta, prima negli Stati Uniti e, con il dopoguerra, in tutto il mondo.
Da quel momento l’arte ha smesso di essere una sorta di specchio in cui una comunità umana si contempla e quindi riconosce, anche nella tensione al proprio trascendimento, in seguito chiamata arte sacra; ma è sempre l'uomo che si osserva nei suoi risvolti occulti e ulteriori. Poi e come anticipato è però arrivato il cinema, che ha iniziato a svolgere quella stessa funzione con maggiore credibilità, ossia immedesimazione emotiva, esperienza del simbolico, passando in seguito il testimone con a televisione e ora a internet e videogiochi, così togliendo definitivamente la sedia da sotto il culo all’arte, che ha dovuto iniziare ad arrabattarsi come può.
Perlopiù, l’arte ha cercato di replicare lo scherzetto subito dal cinema, occupando la sedia di qualcun altro, nella fattispecie della critica. Ed è per via di questo scambio di ruoli che l’arte contemporanea ha imboccato una direzione come si dice meta-artistica: non la rappresentazione e tantomeno la creazione della cosa in sé, ma ciò che in narratologia viene chiamato mise en abyme, sorta di sogno nel sogno in cui la realtà è sempre altrove e può essere evocata solamente di sbieco, come fa Andy Warhol quando stilizza le icone del proprio tempo. Non le fonda più, intendo, come avvenuto nel passato, ma ammette esplicitamente la propria funzione gregaria.
Qualcosa di simile abbiamo potuto vedere anche ieri sera all’Ariston, con giovani solo anagraficamente che recitano la parte di giovani veri, con tanto di slang e posture malmostose; oppure abbiamo cinquantenni, come Irene Grandi, che scimmiottano l’Irene Grandi degli esordi, la ragazzina sfrontata e un po’ maschiaccio che ti dice vuoi fare sesso, ok, facciamolo adesso! Ma l’adesso della Grandi è del tutto fasullo, come quello di Lauro e di tutto il carrozzone di nani e ballerine.
Poi, magari, qualcosa si sarà pure salvato, perché alle undici ho preso una pastiglia di Rivotril e sono sprofondato nell’ovattato mondo delle benzodiazepine. Sognando i tempi in cui l’arte era veramente arte, e Sanremo Sanremo. Con il volare nel blu dipinto di blu di Modugno che non era una pallida citazione, ma il sentimento, autentico, di milioni di italiani innalzati dal miraggio del boom economico. Ora precipitato negli incubi del coronavirus, da cui distogliamo lo sguardo volgendoci all’immensa macchina caricaturale allestita da Amadeus.

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