martedì 25 febbraio 2020

Agnizioni


Pochi minuti fa, mio padre, neofita un po’ impacciato ma assai attivo su Facebook, mi manda questa foto, a sua volta appena condivisa da un suo contatto che l'ha pescata chissà dove. Insomma, ha fatto un bel giro prima di ritornarmi dopo cinquant’anni, già che una delle persone immortalate sono io.
Un’immagine che mai avevo visto prima e neppure ricordo la circostanza vissuta; ero troppo giovane, forse quattro anni, massimo cinque. Inoltre mio padre non ha aggiunto alcun commento, e dunque avrei potuto accostarmi come a un quadro appena dipinto o a una mattonella di un bagno pubblico, del tutto ignaro.
E invece no, il riconoscimento di me stesso bambino è stato istantaneo – c’è un unico pischello, gli altri sono cronometristi in grisaglia Facis o Marzotto, il contesto fa pensare a una gara di motociclette. Quello seduto a sinistra è il babbo, l'espressione compiaciuta di chi ha la Legge dalla propria parte, la legge dei numeri fino ai decimali più remoti, il pollice teso e sul pulsante che separa i vincitori dai perdenti. E io sono il figlio del sovrano del tempo - che orgoglio!

Un po' in disparte e con aria curiosa, ci sono però anche due magnifici teddy boy; se le fotografie avessero la colonna sonora scommetterei sul quartetto di Liverpool; quindi, di spalle, un motociclista altrettanto datato nella foggia del casco, per quanto tra i centauri ci sia ora il riflusso dello stile vintage, che fa pendant con le lunghe barbe hipster.
Ma torniamo a quella strana funzione della mente che, in pochi decimi di secondo (si vede che nelle mie vene scorre sangue di cronometrista), mi ha portato a identificare una creatura quanto più lontana dal me attuale, ed esclamare il più abusato dei pronomi: io!
Un'affermazione certa, più sicura di una cassaforte, e ciò malgrado quel topino con i denti sporgenti e la frangetta tagliata dalla mamma, a guardar meglio ci accorgiamo che si tappa le orecchie per attutire il baccano delle moto da enduro e fissa il fotografo con raggrinzita diffidenza (o forse è solo il fastidio per il sole negli occhi), quell'io-lui ha nel frattempo compiuto un infinito ricambio di cellule, i capelli si sono prima imbiancati e poi diradati, e ho il sospetto che anche il pistolino non sia più arzillo come prima, quando il ritrovamento di una copia fradicia di Caballero era una vera e propria festa, da condividere con gli amici.
Magari l’ho presa un po’ alla larga, ma era l’unico modo per ricordare, innanzitutto a me stesso, che quando muore un anziano, ma anche ben più anziano di me, via, che in fin dei conti ho l’età di Jovanotti e tre anni meno di Brad Pitt e soprattutto molta voglia di vivere, in quei casi prima di dire "beh, aveva ormai i suoi annetti", oppure "in fondo era malato" e altri simili frasi di cordoglio, si dovrebbe sempre pensare che è morta anche una mente la quale di fronte alla foto di un bambino, fosse pure l'istantanea appesa all'intima bacheca del ricordo, incontrava ogni volta uno specchio, e su quello specchio indelebile la parola io. Ed era ogni volta un incontro reale, per nulla affettivo, illusorio, già che c’è una continuità obiettiva, per quanto misteriosa, tra quel corpo freddo e rugoso e il bambino che un giorno è stato.
O per dirla con le parole di Elias Canetti: "la morte di un vecchio è più tragica di quella di un bambino, perché muore più memoria."

(Ps - Ovviamente penso anche agli idioti che si rallegrano del fatto che per un virus – dai che riesco a non dirne il nome – stiano morendo quasi solo vecchi e malati. No, stanno morendo anche i bambini che furono, e da qualche parte sono ancora.)

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