venerdì 21 febbraio 2020

E' arrivata la bufera, è arrivato il temporale...


Il coronavirus è arrivato in Italia. Il coronavirus è arrivato. E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale, chi sta bene e chi sta male e chi sta come gli par… cantava Renato Rascel nel 1939, alzando la gambetta di lato.
Ma è lecito scherzarci su?
Nei giorni scorsi il filosofo sloveno Slavoj Žižek, per molto meno, è stato quasi linciato dalla stampa liberale. La sua provocazione è che il coronavirus rappresenta una pausa preziosa del sistema economico mondiale, o meglio un inciampo degli ingranaggi di quella macchina, sempre in funzione, che con gergo marxiano lui chiama capitalismo; pausa e inciampo di cui dovremmo tutti profittare.
Proviamo a ragionarci sopra, partendo ovviamente dal rispetto dovuto a chi soffre per questa moderna piaga, e della paura che inizia a sollecitare quei muscoletti che si nascono all’interno dell’ano, almeno il mio è sempre più stretto.
Ma fatto ciò, dobbiamo riconoscere che, come ogni esperienza umana, il coronavirus è tante cose insieme, e il risvolto filosofico suggerito da Žižek non era forse fuori luogo. Non c'è infatti alcun dubbio che l'albero della cuccagna finanziaria con le su ramificazioni internazionali, le radici nel terreno concimato dal privilegio, stia patendo la condizione presente, e anche quelli che Diego Fusaro a ogni occasione e con l’occhietto azzurro che cerca la camera chiama turbocapitalisti, siano messi in grave difficoltà dall’invisibile avversario.
Eppure la ricerca scientifica non è mai stata attiva come adesso, ed è ragionevole pensare che, in tempi ragionevolmente brevi, forse e come dicono un anno, saranno disponibili delle terapie e dei vaccini per contrastare l’epidemia. Tutto questo apparentemente c’entra poco con la crisi del capitalismo – saranno, al contrario, profitti enormi per le multinazionali del farmaco –, ma io mi sento di rimarcare comunque l’avverbio apparentemente, che bene si intona con questi giorni di carnevale.
Bisogna però fare un piccolo passo indietro, e tirare in ballo un altro gigante del pensiero filosofico scomparso di recente. Mi riferisco a Emanuele Severino, per il quale l’identità tra capitalismo e tecnica è, parole sue, “situazionale”; quando a guardar bene i due soggetti perseguono finalità diverse.
Il capitalismo mira per definizione all’arricchimento privato, e dunque si giova di una disponibilità per così dire mediana delle risorse, indispensabile alla creazione del plus valore nei processi di trasformazione e di scambio.
Pensiamo all’aria. E’ troppo diffusa, c’è troppa aria, almeno al momento, per poter essere venduta. Ma sul versante opposto, anche qualcosa di cui la disponibilità sia troppo bassa non può assumere lo statuto di merce – non a caso di alcune opere d’arte si dice che il valore è inestimabile, non esiste un valore di mercato per la Cappella Sistina. E’ un unico. E dove si manifesta l’unicità scompare il mercato.
Al contrario, si possono vendere aringhe, lampadine, bignè, magliette di Cristiano Ronaldo e vibratori alla fragola: si può vendere tutto ciò che non è a immediata portata di mano, ma nemmeno irraggiungibile.
Diversamente la tecnica – è sempre Severino a suggerirlo, ma seguendo una lunga tradizione filosofica che ha in Heidegger la voce più autorevole – la tecnica coincide con il gesto originario di coordinare mezzi in vista di un fine. Ma non è lo stesso del mercato, che assembla pezzi di plastica e poi vende la Barbie?
Sì e no. Perché il mercato trae beneficio dall’apparato tecno-scientifico solo in una situazione circoscritta nel tempo (da qui il minaccioso aggettivo situazionale), nella quale quest'ultimo si concede a soddisfare ogni capriccio operativo che gli venga richiesto, come nel caso della celebre bambola. Ma a guardare con maggiore scrupolo, quel gesto inaugurato dall'homo faber e sfruttato oggi per far quattrini, in verità mira alla replica indefinita di sé stesso, al punto che così possiamo riassumerne la natura: potenza, potenza del processo di manipolazione di ciò che in filosofia vengono detti essenti, e noi più umilmente chiameremo le cose, il mondo.
E’ allora qui, seguendo sempre Severino, che tecnica e capitale configgono: la prima tende naturalmente alla dimensione dell’illimitato (quello appunto della potenza, il potere di plasmare la materia per realizzare nuovi fini, fini senza fine come in un'altra canzone di Gino Paoli), mentre il capitalismo è nemico dell’indefinito, ha bisogno di quella già anticipata condizione intermedia e dunque limitata delle risorse, attraverso cui imbastire i suoi piccoli o grandi affari. O detta diversamente: tutto l'oro del mondo diventa un minerale come un altro, se non hai nessuno con cui scambiarlo.
L’abbiamo presa un po’ alla larga, ok, ma ora arriviamo al punto. Se la tecnica medica, come credo e tutti auspicano, riuscirà a debellare il coronavirus, è verosimile intuire un cambio di passo, un’inversione di gerarchia tra tecnica e capitale, più che come vuole Žižek una pausa all’interno della struttura capitalistica. La tecnica, una volta sconfitto il nemico pubblico numero uno, potrà infatti smarcarsi da questo ruolo ancillare, e rivendicare con voce finalmente trionfale, prometeica, quel primato sul bios a cui aspira da sempre.
Siamo così testimoni, oltre che di una colossale sfiga, anche di una contrapposizione decisiva, in cui la tecnica non solo sta sfidando lo stramaledetto virus COVID 2019 che non vediamo l’ora di levarci dalla palle, ma anche l’ordine economico e sociale così come l’abbiamo fino a ora conosciuto.
Possiamo ricavare la conclusione di essere alle soglie del post umano, o di ciò che Severino chiamava lo smascheramento della follia dell’Occidente? Non lo so, e purtroppo, come un grande profeta biblico, l’unico che avrebbe potuto rivelarcelo se ne è andato prima dell’avverarsi della propria profezia. Quanto a noi, noi speriamo che ce la cavo…

Nessun commento:

Posta un commento