martedì 16 aprile 2019

Notre-Dame, o sul dolore e il suo limite


Sono a casa. Sono a letto e nonostante l'orario, per la precisione. Mentre mi rincantuccio sotto le coperte e guardo una macchia scura sul soffitto, dalla cucina, dove mia madre tiene la radio perennemente accesa, il volume proporzionato al degradare senile dell’udito, arrivano gli aggiornamenti sull'incendio della cattedrale di Notre-Dame.
Adesso è il momento delle interviste. Esperti, gente comune, tuttologi. Percepisco una grande afflizione nelle parole che ascolto, un dolore che mi sembra sincero. Cerco, a quel punto, lo stesso dolore nella mia pancia, trovando solo qualche sporadico gorgoglio; immagino un riflesso psicosomatico, ma temo sia solo perché non ho ancora fatto colazione.
Mi viene in mente un articolo di psicologia, letto su un vecchio inserto culturale stropicciato. Il dolore umano, stava scritto, è come una bottiglia, una grossa bottiglia di vetro in cui riversare tutte le nostre afflizioni. Ma oltre una certa misura non entra più nulla, strabocca, finisce in terra per esubero. Esiste forse il "plusamore" (l'espressione, geniale, appartiene a Giorgio Gaber), ma non il plusdolore. Mente e corpo si difendono da un eccesso di sofferenza.
Al contrario, quando si sta molto bene la natura umana ricerca un poco di tormento – non tanto, giusto quel cicinino per portarsi a livello, in una sorta di aristotelismo emotivo che contradistingue la nostra specie, sempre alla ricerca del giusto mezzo. Più che una bottiglia, ricordiamo in effetti l'olio del motore di un'automobile. Come va il dolore? E il meccanico, dopo aver controllato l'asticella bisunta: Tutto ok, c'è abbastanza dolore per altri ventimila chilometri!
Evidentemente, io devo aver accumulato già troppo dolore, sono ingolfato, avrei bisogno di uno spurgo. Sarà forse la mia depressione cronica, l'allergia ai pollini (nocciolo e betulla), rogne di salute, soldi, cazzi vari, ma di Notre-Dame davvero non riesce a importarmi. Non più della macchia sul soffitto e di una minuscola ragnatela accanto.
Potremmo rubricare il tutto come l'ennesimo post ombelicale, in fondo qui siamo nel luogo giusto. Eppure non credo sia solamente questo. Esiste infatti anche un risvolto comune, addirittura politico, civile, in gioco non è solo la mia rozza insensibilità, per la quale non reclamo scusanti.
Intendo: se la macchina umana funziona a questo modo, una società giusta e solidale potrà darsi solo tra persone mediamente soddisfatte, in cui empatia e piacere si riflettono come nel nuoto sincronizzato, rendendo il mondo simile a un musical di Esther Williams.
Gli americani hanno allora visto giusto, quando hanno inserito la felicità tra i diritti costituzionali. Ma quando la tua bottiglia di dolore è colma, la spia impallata sul rosso, la mente altrove, anche la più verticale delle spinte dell'ingegno umano finisce per essere vista per ciò che ora è: una vecchia stamberga bruciacchiata, ossia davvero poca cosa.

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