lunedì 22 aprile 2019

La fabbrica del cacao, o sulla cittadinanza linguistica

Molti anni fa avevo un amico omosessuale. Come spesso accade ai gay, possedeva un linguaggio originale e irriverente, forse per il piacere, o il bisogno, di smarcarsi dal linguaggio comune, che è intimamente sessista. Ad esempio la parola gay, da me appena utilizzata con leggerezza, non è per nulla neutra e politicamente corretta, ma presuppone una disposizione garrula e perennemente gioiosa, come se un uomo attratto da un altro uomo non potesse avere il reflusso esofageo o essere triste per la morte del proprio cane; non a caso è di un omosessuale, Carlo Coccioli, il più struggente memoir sulla perdita di un animale amato. Sarà forse per questo che, tra di loro, gli omosessuali si chiamano froci, cecche, a volte perfino ricchioni.
Nel caso del mio amico, aveva parole corrosive anche per le donne, di cui definiva il sesso, il sesso femminile intendo, con una formula verbale senza scampo: “orrenda ferita”, e mi scusino le donne che stanno leggendo. Ma anche quando parlava dell’ano, in questo caso maschile, nel discorrere fluviale del mio amico si trasformava nella fabbrica del cacao, a dimostrazione del fatto che nemmeno il linguaggio omosessuale è neutro, nessun linguaggio lo può essere, e la verità è sempre nelle parole di chi la nomina, prima ancora che nei suoi occhi. 
D’accordo, non è una novità, e già Nietzsche aveva compreso che non esistono fatti ma solamente interpretazioni, per diventare interpretazioni inconsce con Freud e in particolare Lacan. Lo psicanalista francese intravede nel linguaggio una sorta di altro o, meglio, di Grande Altro, a definizione e misura della nostra provvisoria identità, che si riduce a un incessante brusio verbale dove non esiste parola senza chi la dica, ma nemmeno soggettività senza un codice alfabetico. Il linguaggio è insomma lo specchio in cui ci guardiamo. A volte confondendo, come Narciso, il riflesso per la sostanza.
Si potrebbe ripartire da qui, pensavo ripensando al mio vecchio amico e al suo buffo linguaggio, partire dalle parole per accostarsi all’annoso problema della cittadinanza agli stranieri, e in particolare ai loro figli. Se è vero infatti che ciò che oggi definisce un popolo, più che una terra, un suolo, è la relazione vissuta con quel suolo e quella terra – l’interpretazione che ne diamo, e che il linguaggio rivela –, si dovrebbe oltrepassare la retorica fintamente progressista dello ius soli (un concetto tematizzato al meglio dalla filosofia giuridica di Carl Schmitt, acutissimo pensatore ma inequivocabilmente nazista) con una sorta di ius lexis.
Non è complicato. Se una persona viene identificata dal proprio linguaggio, per mezzo del quale, più che parlare, viene parlata, l’appartenenza sarà con chi nomina il mondo allo stesso modo, attraverso parole che sono già di per sé un’ipoteca sul reale. Ad esempio un finlandese, per il semplice fatto di parlare in finlandese, possiede un’interpretazione del mondo diversa da quella di un francese, un russo, uno spagnolo. Interpretazioni verbali che, per quanto implicite, hanno una precisa e concreta ricaduta, se è vero che il matrimonio corrisponde alla trasformazione di una donna in madre e di un uomo in patri-monio.
E così si potrebbe pensare di agire anche nel caso dell’immigrazione: vuoi diventare cittadino italiano? Ok, sostieni un esame in cui dai prova di una conoscenza approfondita della lingua italiana. Negli Stati Uniti già esiste qualcosa di simile, anche se l’esame (a cui si ha diritto solo dopo molti anni di soggiorno) viene esteso alla storia nazionale; una materia di cui sono ignari gli stessi americani, e non vedo allora perché un portoricano debba conoscere vita morte e miracoli di Abramo Lincoln, quando, per un agricoltore Wyoming, il presidente assassinato resta un perfetto Carneade.
Ma se non sono più il suolo o la biografia nazionale, la bandiera, come si diceva un tempo, a costituire in epoca postmoderna gli unici possibili confini per un’identità collettiva, a questo punto estendiamo la verifica anche agli autoctoni. Non conosci il congiuntivo? Nessun problema, non voti. Il Parlamento italiano è infatti l’espressione di chi comunica attraverso la lingua italiana; se un senegalese parla l’italiano meglio di me, mi sembra giusto che abbia maggior diritto di rappresentazione. Lo specchio della lingua dice che è lui, e non io, il più italiano del reame.
Per concludere, aveva davvero ragione un altro filosofo poliglotta, Ludwig Wittgenstein, quando affermava: the borders of my language are the borders of my world. Al limite, poi facciamo un bel referendum per decidere se il sedere vada inteso come buco del culo oppure fabbrica del cacao…

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