domenica 28 aprile 2019

Il canto della neve rumorosa, o sulla differenza e la relazione

Canto della neve silenziosa. È il bellissimo titolo di un racconto, altrettanto bello, di Hubert Selby Jr, che dà il nome anche alla silloge in cui è contenuto, pubblicata in Italia da Feltrinelli. Oltre al potere evocativo, la sua efficacia viene rafforzata dalla presenza di una strategia retorica sottile: quella dell'ossimoro, che attraverso l'accostamento di termini opposti – silenzio e canto, nella fattispecie – produce effetti spiazzanti.
Ci pensavo rileggendo il racconto. Parla di sofferenza e depressione, con cui lo scrittore americano ha sempre convissuto, ma anche di possibile riscatto, forse si potrebbe azzardare un termine religioso: redenzione. Nella vicenda narrata coincide con la percezione di pace e identificazione, quasi mistica, con tutto ciò che è, sperimentata dal protagonista durante una passeggiata. All'improvviso comincia a nevicare. I fiocchi cadono senza far rumore, anche il paesaggio sembra ammutolire, le pene si acquietano, per accorgersi che tra fuori e dentro non c'è più alcuna differenza. Ma se nel bianco tutto risuona, anche il silenzio non è più una sensazione acustica, ma musica, canto. 
Una caratteristica della grande letteratura è quella di funzionare come uno specchio, secondo una formuletta che i lettori conoscono bene: “questa cosa avrei potuto scriverla io, ma mi mancavano le parole”. A maggior ragione nel mio caso, in cui, oltre a una consuetudine con gli antidepressivi, si unisce l’origine alpina, un luogo dove in inverno nevica spesso e con implacabile abbondanza, o almeno così era un tempo. Ma più procedevo nella lettura, più mi accorgevo che il mio pensiero stava virando in un'altra direzione.
Quando ero bambino a Sondrio, in via Parolo 10, per capire se aveva nevicato non c’era bisogno di fare una passeggiata, in fondo neppure di alzare la tapparella e guardare fuori, era un altro senso ad annunciarlo. L’udito, appunto. Il suono e non il silenzio.
Ancora rincucciato sotto a numerose coperte, lo capivo, ad esempio, dallo sferragliare dello spazzaneve, che poco prima dell'alba passava a ripulire le strade. Era seguito a breve dal rumore dei badili – toc, da principio, quando la porzione da rimuovere viene delimitata come una fetta di torta; poi trrr, ed è la pala che si carica sfregando sul porfido ghiacciato; quindi tunf, da cui si riconosce il lancio a margine, dove la neve si accumulava e rimaneva fino agli ultimi giorni di febbraio, quando si scioglieva incalzata dal galanthus nivalis, più comunemente detto bucaneve.
Il condominio la Gioiosa, che si era coricato nel buio punteggiato dai televisori, Carosello e poi Canzonissima sul minsucolo schermo in bianco e nero (i transistor impiegavano un interminabile minuto prima di restituire l’immagine di Topo Gigio, che volteggiava malizioso attorno all’ombelico di Raffaella Carrà), si risvegliava come un villaggio tribale, i ruoli ben distinti per genere ed età anagrafica; mentre le donne gettavano il sale, erano i maschi adulti a ripulire la rampa dei garage, con i bambini ad ascoltare tutto ciò. Ed era anche quello un canto, un canto rumoroso.
Più che cancellare i suoni, la neve ha infatti il potere di isolarli, rimuovendo il brusio di fondo, la tappezzeria sonora, per lasciar spiccare le linee
 del quadro. Nella circostanza, ciò che potevo scorgere in quell'immagine acustica era una comunità viva e operosa, che si stava occupando anche di me; dalla rampa sarei risalito con la mia bicicletta Gloria rosso cromato, sulle strade ripulite avrei raggiunto la scuola, per fermarmi, al ritorno, all'edicola Zarucchi, dove acquistare l'ultimo albo di Zagor e le figurine dei calciatori.
La capacità di individuare le differenze, non solo acustiche, insieme alle relazioni, in un depresso (parlo per esperienza) è ciò che va perduta, e il paesaggio emotivo finisce col somigliare non al fioccare della neve, ma a quello della città al secondo o terzo giorno dalla nevicata; una poltiglia grigia e indistinta, un sorbetto fetido, che ha il solo potere di insinuarsi nelle cuciture della scarpe, per gelare le dita.
Il canto a cui mi aggrappo quando la depressione ancora prova a cancellare i contorni delle cose, non è dunque un canto silenzioso, ma allo stesso tempo nemmeno fragoroso, il volume a palla, il cuore in affanno, che è un altro modo per fare del molteplice uno. Cerco piuttosto di ricordarmi il suono ovattato dello spazzaneve sul manto nevoso (il trunk trunk delle grandi gomme imbrigliate dalle catene, a cui si accompagna, ratratra, la lastra d’acciaio sagomata che gratta l’asfalto), oppure dei badili con cui mio padre, insieme al signor Alessi, il signor Ciccozzi, il signor Ottonetti, i grandi erano sempre dei signori, ripulivano la rampa, per restituire la pedalata della mia bicicletta al mondo.
Un mondo che era davvero piccino piccino, come quello delle bocce di vetro con all’interno le miniature e la neve finta, quando le ribalti inizia a fioccare, ma era pur sempre il mio mondo, anzi il nostro. E come tutti i mondi era fatto di differenze e relazioni, che grazie a quel canto potevo finalmente sentire.

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