Parlavo, nei giorni scorsi, con una giovane psicanalista a indirizzo freudiano. Chi conosce il mio pensiero sa che provo qualche diffidenza verso la categoria, per quanto mi sforzi di comprendere, quindi di avvicinarmi a un discorso clinico che continuo a trovare attuale e fecondo, in taluni casi persino eversivo. Non assicuro in ogni caso la piena neutralità – ammesso che questa possa mai esistere – in ciò che proverò ad indagare nelle prossime righe. Anche perché la realtà, come nell’esperienza di una persona particolarmente gelosa, possiede questa tendenza a generare scarti, residui di narrazione. Che in via del tutto arbitraria ricomponiamo per leggere poi come segni, tracce del passaggio di un medesimo animale. E naturalmente non a conferma del vero ma dei sospetti conficcati nel nostro sguardo.
Snocciolato questo
precauzionale bugiardino, veniamo alla conversazione con la mia conoscente
psicanalista. Si parlava della comunicazione mediata dalle nuove tecnologie, in
particolare internet e i social forum, tra cui quei siti dove è possibile
entrare in contatto e chattare con degli sconosciuti. La mia tesi, per nulla
originale e in buona parte derivata da rimasticazioni scolastiche, è che non
esiste, letteralmente, alcun mezzo di comunicazione. Piuttosto, abbiamo ogni
volta a che fare con la comunicazione stessa, che nasce da un insieme spurio di
compromessi, non sempre controllati e controllabili, tra la sua prassi concreta
e l’intenzione dei suoi attori.
Detta con filosofica
prosopopea, la comunicazione è contemporaneamente in sé e fuori da sé. O provando ad abbassare
il concetto dentro una metafora pop: la comunicazione è sia l’indiano navajo
che invia un messaggio di fumo da uno sperone di roccia arsa, sia il vento, il temporale e l’avvoltoio che si mescolano allo stessa nuvoletta di fumo bianco, modificandola a vari livelli. In seguito, sorvolando canyon e serafici cactus, raggiungerà lo sguardo vagamente ebete di Tex Willer, che a sua volta
risponderà per vaporosi accenni.
E’ dunque proprio la
comunicazione attraverso internet – dove il “fumo” è molto più invadente e
opaco che altrove, poiché gli interlocutori manifestano un grado di presenza e
di storicità biografica, se così posso dire, ridotta ai minimi termini – a
risultare maggiormente impastata con le proprie modalità espressive. Se
volete, potete continuare a chiamare internet un mezzo. Comunque ci siamo
capiti: è quella cosa lì, internet, che non è buona né cattiva ma neppure
neutra, come postula la prima legge di Kranzberg. Per tale ragione, proprio su
internet avremo il massimo grado di interferenza significativa dovuta al "mezzo",
al punto da azzardarci a rispolverare l’antica e felice intuizione di McLuhan: “the medium is the message”.
La mia interlocutrice era
perplessa e scuoteva la testa. Ma no, ma no, internet è uno strumento come
tutti gli altri, ribatteva al pedante ragionamento con cui cercavo di avvolgerla. Ciò che fa la
differenza sono i contenuti che noi siamo in grado di offrire, e la piena
umanità che vi trasferiamo. Però, nonostante la premessa vagamente ottimistica,
anche lei ammetteva che le relazioni telematiche possiedono con maggior
frequenza un elemento vagamente patologico, dai lei attribuito a un’altrettanto
diffusa patologia sociale. Siamo tutti un po’ peggiori di una volta, detto in
soldoni.
Peggiori, sì, è verosimile… Ammesso
che si trovi un accordo significativo sulla nozione opposta di migliore: un
concetto comparativo che ci trova appesi alla coda guizzante di un’epoca
morente, mentre il corpo della lucertola sta già disteso sotto a un sole che non scorgiamo ancora. In ogni caso non ti pare, sono intervenuto io assaporando una ghiotta occasione
argomentativa, che questo “peggioramento”, questa patologia di
relazione che riscontri nella tua attività, anziché una premessa possa essere
interpretata come conseguenza dello strumento più diffusamente utilizzato per comunicare (il mezzo è il
messaggio, again)?
Se però le cose stanno a
questo modo – il mezzo che si mette in mezzo, assumendo se stesso come sorta di
presente assoluto tra il prima e il poi –, chi è che dirige la tecnica
informatica che fa da tramite nei nostri rapporti? Non sarà che la tecnica, priva
per definizione di intenzioni estrinseche e strategiche, proprio per ciò
finisce col svuotare di significato anche le nostre relazioni, come ci ha
insegnato il buon vecchio Heidegger con i suoi ottimi pensieri e la sua pessima
prassi…
Mmmm, la psicanalista scuoteva nuovamente
la testa perplessa. Ed è in quel preciso momento che mi è venuto in mente un esempio concreto
e sperimentato sulla mia pelle. Ma non lo sai, le dico, non sai che ci sono persone che
chattano contemporaneamente con tre o quattro interlocutori? Io ne ho
conosciute, ti giuro!
Mettiamo tua nonna, la
incalzo. Secondo te, per tua nonna sarebbe stato normale parlare con tre o
quattro persone nello stesso tempo? E non mi sto riferendo a un colloquio di
gruppo, ma a tre o quattro scambi che, distintamente, si sovrappongono e intersecano di continuo senza mai produrre un dia-logo, ossia un Tu e un Io che si integrano e fronteggiano dialetticamente. Ma ciò che si realizza non coincide nemmeno con la nozione di con-versazione, dove il verso condiviso è quello del pronome Noi, con cui la contrapposizione verbale, non senza qualche attrito e scossone, si ricompone in sintesi comunitaria.
Ed è qui che, bum,
avviene il botto. Con lei che mi risponde: Cosa c’entra, anche a me capita di
chattare contemporaneamente con più persone, e con questo? E’ semplicemente un
gioco.
Bene, avrete capito che anche
il nostro scambio di opinioni, con quest’ultima uscita, si stava avviando verso
il fischio finale. Un gioco che è un gioco possiede un principio, uno
svolgimento e una conclusione. Che nella fattispecie corrisponde con la consapevolezza dell’esaurimento di ogni slancio e reciproca curiosità. Certe
frasi, una volta pronunciate, segnano un punto di non ritorno. Come in quei
telefilm dove il criminale pensa di averla fatta franca e sta lì a ridere e
scherzare con il tenente Colombo. Poi però, in genere prima di andare
via e girandosi lentamente, questi gli fa una domandina noncurante, e il criminale
capisce che tra lui e l’altro ci sarà sempre un abisso, che si chiama Legge.
Ecco, dopo l’affermazione della psicanalista io ho compreso che se fossimo
stati bambini che giocano a guardie e ladri, beh, dopo quelle parole non
avremmo mai più potuto darci di gomito dentro la stessa squadra.
Eppure questa sua dichiarazione
schietta e per ciò, almeno entro certi limiti, ammirevole, non arrestava per
nulla i miei pensieri al riguardo, ma in qualche modo li rilanciava. Premesso
che ho sempre creduto che solo un mostro decerebrato potesse trascorre il
tempo chattando con una molteplicità di interlocutori, scoprire che è anche il
normale passatempo di una donna che stimo e rispetto – dimenticavo: oltre a essere psicanalista possiede due lauree, una in filosofia e una in psicologia – non limitava affatto il flusso
dei miei pensieri dentro argini vagamente stereotipati, ma li faceva tracimare dentro
la laguna del dubbio. Uno spazio informe in cui, seppur a malincuore, tocca
sporcarsi le mani con qualcosa di più generale e incalzante, che è esattamente
ciò di cui mi preme ora scrivere.
E dunque cosa intendeva dire
la giovane psicanalista mentre pronunciava, chissà quanto volutamente, la
parola gioco? Gioco è un termine particolarmente sdrucciolevole, che può
caricarsi di significati diversi e perfino opposti. Con gioco, ad esempio, noi
possiamo riferirci a un sistema di regole codificate e certe, che serve a
contenere, come appunto nel gioco del calcio, gli impeti agonistici entro un
sistema formale di rapporti. Dal punto di vista sportivo il gioco non si
costituisce allora quale spazio di massima libertà espressiva, che si oppone ai solidi margini della realtà. Piuttosto, e per converso, rimanda a un’ipertrofia di
tali ostacoli contingenti. Il gioco è insomma qualcosa di molto serio, perché
seriamente noi assumiamo delle norme discrezionali – non prendere la palla con
le mani, ad esempio, a meno che tu sia il portiere –, con ciò estendendo i
vincoli del reale al dominio del fantastico.
Ma un gioco può rappresentare
anche la condizione opposta, in cui la realtà viene come alleggerita nello
scherzo – maddai, non prendertela, si dice: era solo un gioco. Con gioco si
viene dunque a significare anche un’attività o un gesto privi di conseguenze, di
effetti dentro la catena meccanica degli accadimenti reali. Per dirla ancora con metafora:
è come una partita di tennis senza pallina, messa mirabilmente in scena da
Antonioni nella scena finale di Blow-Up. Per tale ragione io tenderei a
prendere molto sul serio anche la dichiarazione della nostra psicanalista: “E’
solo un gioco”, già. Ma a che gioco stiamo giocando?
Con la sua affermazione,
pronunciata dal pulpito implicito del suo ruolo sociale (non dimentichiamoci
mai che stiamo parlando di una psicanalista), la mia interlocutrice fa proprio un
sentire diffuso del presente, e gli conferisce una sorta di fondamento
epistemologico. La sua professione trova infatti collocazione all’interno di un rapporto significativo e dialettico tra esseri umani adulti e consapevoli. L’idea, obliterata
dal suo status, è dunque che le relazioni tra persone, e in specie quelle
mediate dai nuovi mezzi di comunicazione, non possiedono più alcun vincolo di
realtà, nessuna reciprocità vincolante. A me sembra che sia questo il gioco a
cui siamo convocati.
Il gioco della chat multipla,
proviamo allora a metterlo sotto la lente linguistica dei saperi dell'inconscio. Un gioco in cui uno può iniziare o
interrompere in qualsiasi momento, saltabeccare tra questo e quello, andare via. Magari dimenticandosi di
salutare gli altri giocatori, senza che ciò preveda alcuna sanzione sociale. E’ così, semplicemente,
è così e non diversamente perché a questo modo si imbastisce il nuovo tessuto
sfrangiato dei rapporti: senza un Tu, senza un Io e senza neppure un Noi.
Quel che si profila è solo il
fantasma immaginale degli interlocutori, che quando non è fondato sul semplice
svacco (ingannare i minuti nella più totale atarassia, nel dubbio che dall'altra parte possa esserci anche solo un computer o un criceto ammaestrato), fa perno sulla figura eterna
del desiderio, perlopiù svincolato anch’esso da un principio di realtà. Il
desiderio modernamente esperito – ossia ancora una volta intercettato, mediato
e diversamente configurato dai nuovi media – finisce così con il coincidere con
le figure ricorrenti nella narrazione spettacolare. Con la consueta acutezza
enigmatica, Jacques Lacan ha riassunto tale scivolamento nel termine Grand Autre. Ma se non sono più io, se non
siamo più noi a parlare, ciò che a questo punto si manifesta è solo un flusso
indistinto di parole. Un altro, appunto. Se non già un trans, un oltre, una
novità antropologica così grande che sta ancora cercando le parole per dirsi.
La prima conseguenza di tale smottamento all’opera nelle nostre conversazioni su internet, è la caduta,
come già abbiamo visto, di ogni prescritto galateo verbale. Ma se una risposta non è
più dovuta per sensibilità o semplice forma al nostro interlocutore, ciò che
otteniamo è un atteggiamento per nulla moderno e anzi antichissimo: si chiama irresponsabilità.
Irresponsabile, chi e quando
si diventa ir-responsabili? Semplice, quando si smette di sentirci in debito di una
risposta verso l’altro. E ciò perché l’altro, non quello grande di Lacan ma quello piccolo, quotidiano,
fondato sul riconoscimento delle specificità, i sentimenti e in ultimo anche i
diritti di chi si oppone al nostro soliloquio, non si è ancora costituito
nell’universo cognitivo dei parlanti. Ciò che fa difetto è insomma quella struttura
che lo stesso sapere psicanalitico ha chiamato Super Io, mentre filosofia e
religione hanno variamente coniugato con i termini ethos, moralità pubblica,
rispetto e amore verso il prossimo. E’ dunque questo l’orizzonte ulteriore che
ci attende: il ritorno a un prima in cui il soggetto umano non si è era ancora
costituito civilmente, e nessuna morale faceva da legante storico tra le
persone?
Ho il sospetto che anche le
nostre domande siano ormai andate troppo oltre, trascendendo quello che è stato
forse solo uno sfortunato inciampo nell’argomentare della nostra psicanalista. Non
è allora da mettere in contro alle sue intenzioni – sua responsabilità – il progressivo dileguarsi di strutture
biografiche certe, che facciano da argine alla deriva dei continenti della
significazione. Eppure, rimane il sospetto che l’evidente declino del potere
clinico delle psicanalisi derivi anche da questo: il venir meno della fiducia
degli analisti nelle premesse “morali” della loro attività. Fondata sulla
presenza di due soggettività identificate e in relazione, dove i due termini
sono evidentemente condizioni reciproche di sussistenza. Senza identità non
esiste infatti nemmeno relazione, e però anche senza una relazione pienamente
vissuta vengono meno le condizioni attraverso cui è possibile distinguersi
dall’altro, e dunque identità.
Ma se perfino gli psicanalisti
passano il tempo a chattare, contemporaneamente, con tre o quattro sconosciuti che
tali rimangono, e cioè privi di identità e di storia e di relazione,
come possiamo sperare che la psicanalisi si offra ancora come terapia
dell’anima? Anima che forse non nasce, come ha intuito un grande poeta, ma si costituisce nel riconoscimento reciproco tra le persone: "Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora scoprirete a cosa serve il mondo" (John Keats). Al limite, la psicanalisi potrà essere allora un gioco tra altri giochi. Qualcosa che sta fuori dal mondo. O se
preferite, uno scherzo.
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