venerdì 22 giugno 2012

Parole e musica, o sulla lettura come riconoscimento


Un’amica, nei giorni scorsi, faceva a questo blog il più bello forse tra i complimenti. Molte tra le cose che scrivi, mi diceva, è come se le avessi pensate da sempre anche io, ma mi mancavano le parole per dirle. Un pensiero non così inconsueto, senza nulla togliere alla mia amica, che con termini solo un poco più rarefatti viene espresso nei versi di una famosa canzone di Francesco De Gregori:

Alcuni hanno una musica nella testa, ma non gli piacciono le parole,
tutta la vita una musica in testa, in cerca d'autore…


Le canzoni, al loro meglio e secondo Francesco De Gregori, servono dunque a offrire una lingua a sostegno della musica che abbiamo in testa, ma più spesso anche il contrario: musica insufflata dentro i segni inerti di ogni codice di comunicazione, che prendono vita come Pandora. E così anche la poesia, la prosa, perfino la saggistica, oltre a proporre contenuti innovativi e forme inaudite, si offrono come un provvidenziale appiglio per l'intonazione di una misteriosa melodia, che si aggira nella nostra testa o in altre porzioni del corpo.

Il piacere della lettura, detta diversamente, nasce sempre da una qualche forma di riconoscimento. In cui a una premessa parziale (intellettuale, emotiva) si accorda l'universalità di un sentimento o di un concetto.

Provando allora a precisare l’intuizione della mia amica, a me verrebbe da dire che le parole da lei incontrate in questo blog –  parole che le pare di aver conosciuto e pensato da sempre – , in effetti erano state solamente provate, o meglio ancora sentite. Sì, proprio come si sente e si prova una musica, per definizione priva di significati verbali.

Quindi, è solo dopo aver seguito i pensieri nella loro articolazione sintattica, accompagnato i giri di frase, i punti, le virgole, che la mia amica ha riconosciuto tutto ciò come proprio. Leggere un testo è semplicemente questo: sovrapposizione tra una forma esterna, acquisita, e l'interno scorrere degli stati d'animo, producendo identità.

Un po' come avviene con il soldino ingoiato dal juke-box, che fa calare il disco e partire le note. A quel punto uno può dire: Ecco, senti, la nostra canzone!

Ed è così per il tramite di una nuova canzone che riusciamo a superare questa prima e provvisoria proposta, avvicinandoci a una visione più generale. Non una teoria, un modello, ma qualcosa che si avvicini a un mazzo di fiori, in cui far confluire e annodare il molteplice, che però tale rimane. Canta Lucio Battisti in Don Giovanni, dall’album omonimo:

Sono Don Giovanni
rivesto quello che vuoi
son l'attaccapanni…


Le parole sono di Pasquale Panella, enigmatico e beffardo poeta, uno dei maggiori nel nostro Paese. La grandezza della poesia – e dunque della canzone – consiste infatti nell’accostare termini apparentemente incongrui, a questo modo sviluppando una vertiginosa potenza di fuoco nel significare. E di Don Giovanni, il sublime seduttore, mai avremmo pensato che potesse avere qualcosa in comune con un attaccapanni, il più umile degli oggetti.

Eppure, senza un attaccapanni, al netto di un sostegno ben piantato, anche il più lussuoso degli abiti casca al suolo, trasformandosi in uno zerbino. Il rapporto tra pensiero ed emozione, tra musica e parole e infine tra lettore e testo, potremmo così vederlo come quello tra un abito e il suo attaccapanni. L’emozione è ciò che avvolge e sovrasta, ma senza la gruccia che la informa non riesce a farsi presente, tangibile, manifesta.

Somiglia alla parabola dell'airone, a cui non sono sufficienti le magnifiche ali dispiegate ma ha bisogno di lunghe e secche zampette, per far incontrare il cielo con la terra. Ciò che chiamiamo esperienza è esattamente la figura storica e concreta di quell'incontro: emozione + espressione, suono + significato.

Avere per tutta la vita una musica in testa, in cerca d’autore, significa quindi essere incapaci di mediare la nostra emozione dentro le forme mobili della vita, mancando l’appiglio certo di un linguaggio che faccia da tramite, traducendo la sensazione in esperienza. Ma ugualmente, il linguaggio non è ancora niente, è solo un misero attaccapanni, se non sa integrarsi con la bellezza che solo l’emozione riesce a consegnargli.

Per questo, ci suggerisce Pasquale Panella, Don Giovanni è il simbolo di tutti i seduttori. Perché è struttura senza emozione, forma che ha bisogno di vestirsi e rivestirsi ogni volta con un sentimento esterno, una trepidazione passeggera, ma che si affloscia appena smessi i panni della recita. Essendone egli definitamente privo.

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