sabato 7 novembre 2009

Should I Stay or Should I Go, in risposta a Nicoletta


Rispondo, o meglio ci provo, al recente intervento di Nicoletta su arte e cultura, pubblicato su Fontana con soldino nei giorni scorsi - è possibile leggerlo qui.
Intanto, quello di Nicoletta più che un ragionamento era una sventagliata di mitra. Che nel muro su cui poggiava la labile figura delle mie riflessioni in forma dialogica (mi riferisco a un mio testo precedente, da cui lei prendeva spunto) incide tanti minuscoli forellini. Finendo così con l'evocare la figura del colabrodo ...
L'argomentato pensiero di Nicoletta, rende insomma evidenti le incompletezze del mio intervento; ma come non esserlo, rispetto a una materia tanto vasta. Vorrei dunque provare a sintetizzare alcuni elementi ulteriori, da lei così bene indicati.
Comincerò con un tentativo di precisazione della materia, partendo dal suo lessico. Ossia dalla definizione di cosa sia arte e cultura. La prima, trova nella prassi del concreto gesto espressivo la propria radice semantica. Infatti arte è dal latino “ar-tem”, a sua volta discendente dalla radice ariana “ar”, che in sanscrito ha il senso principale di andare, mettere in moto, muoversi verso qualcosa. Insomma, già l’ars latina conteneva l’orizzonte mobile di un gesto pregresso, una dinamica di popoli e migrazioni. E secondo me questo è molto importante: l’arte si può solo agire, l’arte è risposta fisica ad uno scacco della presenza.
Cultura, differentemente, viene dal latino “cultus”, a sua volta dal verbo “còlere”, coltivare. Da cui anche civiltà, erudizione. Una civiltà sarebbe insomma il prodotto di un progettualità agro-alimentare, prima ancora che spirituale. E per quante capriole fenomenologiche si voglia fare, qui tira un venticello marxiano, puro materialismo storico, c'è poco da aggiungere.
L’orizzonte della cultura - sia nella sua accezione materiale sia in quella simbolica, "spirituale" - è insomma stanziale, come le civiltà contadine. Mentre la prospettiva dell’arte è mobile, migrante. Costitutivamente eretica.
Nei secoli l’utilizzo di questi termini - arte e cultura - è stato però spesso sovrapposto. Perdendo la profonda lacerazione contenuta nelle diverse radici semantiche: andare versus stare. Eppure questa sovrapposizione spuria è possibile che contenga una logica, perfino una sua saggezza.
Un sapere stanziale, agricolo, culturale, ha infatti necessità di un sistema di conoscenze condiviso – la nozione sociologica di cultura media a cui si riferisce Nicoletta – che possiamo retrocedere nel tempo fin che vogliamo (tradizione), ma che al suo principio incontra il gesto sorgivo di un’esperienza inaudita: uno slancio verso l'ignoto, una partenza. O per dirla in sanscrito, un’ “ar”.
Dalla minima ricostruzione che ho tratteggiato, per altro molto libera e vagamente naif (non sono un glottologo e nemmeno un antropologo), si può dunque ipotizzare che arte e cultura siano legate da un rapporto non tanto di conflittualità, ma di consequenzialità. In altre parole la cultura sistematizza, rende canonico, consumabile da una comunità allargata, l’esperienza limitata di un’avanguardia ardimentosa.
L’artista, in tale peculiare prospettiva, diventa così una sorta di esploratore alla ricerca di nuove pietanze; ma solo il collaudo "intestinale" dell’esperienza diffusa e della critica dotta, decreterà se funzionali alla comunità di riferimento.
Siamo così al tema che vede la sottile distinzione tra mappa e territorio; dove l'arte si preoccupa di fornire nuove mappe, al vaglio della verifica territoriale (sempre si torna alla terra, con la cultura). Una dialettica che impreziosisce anche la funzione dell'errore, potenzialmente sempre attuale nello slancio estrinseco dell'arte.
Ma provo a chiarirlo con un esempio concreto. A mio avviso certi esiti dell’arte letteraria neoavanguardistica – penso al gruppo ’63 – sono da rubricare alla voce "atti mancati". Eppure non mi sentirei mai di liquidare un poeta come Edoardo Sanguineti quale fallimento. Al contrario Sanguineti è stato un grande poeta proprio nell'aver indicato un sentiero senza sbocco, un gesto che conduce all’abisso. Che come abbiamo intravisto, è pure uno dei compiti insostituibili dell’arte: portare notizie dall'ignoto, mettere in guardia.
Detto ciò, è evidente, come anche Nicoletta conveniva, che tra l’esplorazione artistica e la "coltura" sociale, ci sia ora qualche ingranaggio che si è inceppato. Come se fosse stato revocato il mandato esplorativo ai propri artisti. O all’inverso, come se gli artisti avessero troppe volte restituito dei dispacci nella forma del “al lupo al lupo”, così da perdere qualsiasi credito e riconoscimento civile. La funzione, cioè, di inaugurare mondi storici.
Dobbiamo concludere che l'arte sia diventata inutile, che abbia smarrito anche ogni altra funzione sociale?
Al contrario. Il progressivo discredito civile dell’arte si è accompagnato a una forma crescente di considerazione economica, perfino di lustro e prestigio. Insomma, se nel passato gli artisti erano degli esploratori con le pezze al culo, ora vestono Dolce & Gabbana o Caraceni. Curioso, no?
La mia idea è che ciò sia effetto di uno strano paradosso. Che deriva principalmente dal venir meno dei vincoli comunitari, a cui già si accennava. Contrariamente a quanto preconizzato dai filosofi, la deriva civile non ha però condotto a un diffuso nichilismo. Piuttosto alla costituzione di micro-comunità trasversali, le quali si riconosco in sistemi iconici di rappresentazione; comunità del gusto o del "godimento", per riprendere una categoria lacaniana rilanciata dal filosofo sloveno Slavoj Zizek. Di cui il sistema della moda è la sintesi più efficace.
La moda, che da un punto di vista sociologico è uno degli ingranaggi simbolici più complessi e sottili, tra le sue tante funzioni ha infatti quella di creare mappe di riconoscimento. Mappe operanti all’interno di una logica binaria, vagamente tribale, di inclusione\esclusione.
In pratica, la moda ha fatto proprio il detto latino: “divide et impera”.
Perché è evidente che al fondo del sistema simbolico della moda soggiacciano logiche di dominio, di discriminazione e gerarchia – ratificazioni visuali del censo, potremmo dire. Cosa che è sempre avvenuta, tocca aggiungere. L’elemento di novità storica – diciamo l’ultimo mezzo secolo, a spanne - è che l’arte moderna è probabilmente diventata oggetto di un tentativo di cooptazione da parte delle tribù sociali concorrenti, che attraverso l’imprimatur artistico cercano di legittimare il proprio status egemonico.
Bisogna quindi riconoscere che una simile dinamica, ancora, non rappresenta l’eccezione. Pensiamo all’importante funzione del mecenatismo, che in contraccambio ai suoi favori economici riceveva una piena legittimità simbolica. Ma nell’epoca presente tale rapporto promiscuo tra arte e poteri è diventato particolarmente pervasivo: l’azione centrifuga dell'arte serve insomma per marcare gli elementi che dividono, più che quelli che uniscono.
Soprattutto si fatica ora a scorgere quell'elemento "ulteriore", che paradossalmente il Potere, quando totalitario, temeva meno dei poteri policentrici, attenti solo a quell'elemento di bizzarria che distingue, rende visibili.
Aggiungo che ciò che qui sto chiamando ulteriore, è, nel dialogo da cui questo scambio con Nicoletta è partito, l'elemento che guarisce, o che cura. Una comunità agricola si ammala infatti quando le sue colture non vengono fatte ruotare. E nella rotazione, nel gesto innovativo dell'artista, è presente il germe della trasformazione. Guarire significa trasformare, aumentando l'orizzonte della mappa. Se il territorio saprà integrare la mutazione dello sguardo, avviene la metamorfosi civile. La guarigione.
Il fatto che ora l'arte non guarisca più, a mio modo di vedere è nuovamente un effetto della caduta dei vincoli comunitari. In altre parole è difficile svolgere una funzione civile, sia pure nel senso di una sua oltranza, in assenza di una “civitas”. Così che il mandato esplorativo assegnato all’arte, spesso finisce col coincidere con i codici autoreferenti del sistema della moda. Dove quanto più una cosa è distante dal senso comune (gli altri), quanto più riesce a legittimare una separazione qualitativa (noi).
Detto ciò, io penso che qualsiasi comunità presente, passata e futura non possa prescindere da un gesto esplorativo (arte) e da uno selettivo e conservativo (cultura). Ma, a questo punto, mi pare che la competizione non sia tanto tra diversi canoni espressivi o stili incursivi, quanto tra sopravvivenza o meno di una comunità di uomini e donne che si riconoscano negli stessi codici, coltivando e mietendo dentro un’uguale campagna.
Ma allora l’arte, al suo meglio, non potrebbe occuparsi proprio di questo: indicare un’uscita di sicurezza, una terra promessa?
(Ars longa vita brevis, già …)

2 commenti:

  1. (prima parte)

    Questa volta quel che scrivi mi piace davvero moltissimo, la prima parte senza mie riserve, almeno per quanto una prima elaborazione mi suggerisce. Non so granché di etimologia, ma quanto meno sul piano metaforico il tutto rende un quadro che funziona.
    La seconda, che contiene la "diagnosi", forse potrebbe essere integrata da altre considerazioni.
    Che tristezza, intendo, nel constatare che l'"arte" sarebbe diventata (ma forse, chissà...) una funzione sulle mappe della moda - che sarebbero, a questo punto, l'equivalente attuale, più ibrido trasversale e multiplo dei meccanismi di distinzione/esclusione descritti da Bourdieu. Perché tra l'altro, nei meccanismi à la Bourdieu, comunque i percorsi di inclusione/esclusione avevano, al loro cuore, un nucleo ideologico, ovvero una pretesa di raccontare "il" mondo, e non di segmentare piccoli orticelli artificiali, mentre - e qui, sì, forse dissento - le mode attuali contengono e declinano un nucleo di nichilismo, nel senso che sotto il vestito ci sta la sussistenza individuale o di categoria, e il resto...non fa tema. Stona.

    Temo che ci sia molto di vero in quel che diagnostichi, ma i passaggi perché sia accaduto li vedo più complessi. Sono, sotto il profilo artistico, una dilettante semi-istruita e quindi esprimo poco più che impressioni. Tuttavia, mi pare che i linguaggi artistici e l'evoluzione del concetto stesso di "linguaggio" artistico, nel Novecento, abbiano avuto una parte. Da Kandinskij a Dada all'Informale e via, uno dei fils rouges più forti del secolo concluso è stato una critica radicale, una "negazione di status" ai linguaggi codificati ed alle tecniche come "luogo" nel quale si definiva e valutava la creazione artistica - e questo è un fenomeno senza precedenti nella storia delle teknai / artes / belle arti. Il "luogo" dell'arte è stato, quindi, spostato in un "altrove", più interiore e intrapsichico, nel caso delle grammatiche visivo-emozionali di Kandinskij, più concettuale, o intimo alle dinamiche di definizione / condivisione / revisione dei linguaggi stessi come fatto, in definitiva, sociale nel caso di Dada, Duchamp e compagnia, e in definitiva estraneo all'oggetto e al gesto stesso, nell'arte concettuale. Che richiede l'attivazione di una complessa catena inferenziale, associativa, coinvolgendo in essa tutto il contesto passato e presente, la storia e la persona e il vissuto dell'autore, senza di che l'"oggetto", di per sé, resta del tutto insignificante. Inerte.

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  2. (seconda parte)


    In altre parole, fino ai giorni nostri (con eccezioni, ovviamente, ma voglio semplificare) c'è stato un costante spostamento del focus, e anche del potenziale semantico delle opere d'arte al di fuori del luogo che si presterebbe ad una "comunicazione" quale tu poni al centro della tua descrizione del passaggio tra "arte" e "cultura" - perché se la cultura "rende canonico, rende consumabile da una comunità allargata" ciò che l'arte esplora, perché ciò possa accadere quest'ultima deve, però, porsi su di un terreno in cui la trasmissione simbolica, entro certi limiti, comunque si inneschi, funzioni, sia immediata. Il potenziale visivo di un'opera figurativa tradizionale era formidabile, per innescare una decifrazione. Per rendere possibile una comunicazione. Le catene semantiche di un'opera concettuale, beh... sfido a renderle invitanti, a partire da esili segni posati sulle patinate esperienze di minoranze che lo sono, spesso, anche in termini patrimoniali e sociali.
    Due processi, questo ha innescato, secondo me: la progressiva "sparizione" di ogni altro parametro critico che non sia (come Jean Clair ha colto mirabilmente) la corrispondenza, in termini di innovazione intra-linguistica e metalinguistica, ai codici accettati al momento - che è poi il parametro dell'"innovazione" ridotto a manierismo; e in secondo luogo, lo svuotarsi delle opere "artistiche" di ogni effettiva gara con la materia/forma, con il soggetto e con la comprensione del pubblico (mi piace, questa serie. Trovo che riassuma l'essenza degli sforzi di ogni sincero creatore). In altre parole, è oggi quasi inafferrabile il terreno sul quale si può esprimere un giudizio di valore su di un'opera, perché è remoto, nella catena degli interpreti (critici, curatori, galleristi, collezionisti, artisti..) che custodiscono il "segreto" delle sue inferenze tanto poco evidenti. E, al tempo stesso, dell'esilità comunicativa delle loro opere gli artisti si infischiano.
    Questo, secondo me, rappresenta in definitiva un grande alibi per riuscire a guardare niente più del loro ombelico. E nemmeno se ne accorgono. Ai miei occhi, sono spesso semplicemente insignificanti, o patetici.
    Un esempio parziale me lo fornisce, sarà perché mi è tanto antipatico quanto più è elegante (alla moda, precisamente) l'opera di Paolini. Ha deciso, Paolini, che al centro dell'espressione creativa del presente c'è il vuoto, unica risposta, chessò, alle catene dei vincoli linguistico/strutturali che presuppone ogni "testo" (ecco una parola che ami..) e voilà, su quest'unico assunto iniziale ci
    ha costruito sopra un'infinita sequenza di variazioni, minimaliste e assai noiose, se si osi, come mi viene spontaneo, pretendere che no, che invece se sei un artista ti devi sporcare le mani con il tuo tempo, con la lava rimescolata del presente, e semmai mi fai Il nome della Rosa o i Monty Python,
    ma significhi. Significhi, ovvero provi a rispecchiare qualcosa dei tuoi destinatari, non soltanto l'ombelico della prassi artistica o del tuo orticello linguistico. Provare ad entrare in sintonia profonda con l'umano in generale, l'umano che spinge fuori di sé, questo è poi, secondo me, l'unico terreno su cui può aprirsi un discorso di senso che interessi la collettività.
    Ho sbrodolato, come al solito. Un commento - monstrum.
    Nicoletta

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