sabato 14 novembre 2009

Tra poesia e poetico


(Sabato 14 novembre ho inviato a Tellusfolio una riflessione a margine di un testo di Maeba Sciutti, che si interrogava sulle categorie di giudizio nella poesia contemporanea. La redazione di TF, in via del tutto discrezionale, ha quindi deciso di stornare le mie parole dal post dei commenti per presentarle quale intervento autonomo, con un'attenzione per cui li ringrazio. Di seguito il testo in questione, disponibile anche qui, in cui cerco di avventurarmi nell'insidiosa promiscuità tra poesia e poetico.)

Vorrei aggiungere un elemento ulteriore di riflessione sull'intervento di Maeba Sciutti, sui commenti al seguito, ed anche sul testo del poeta e critico Stefano Guglielmin in Blanc de ta nuque. Dall'ottimo testo di Maeba, a mio avviso non emerge con sufficiente chiarezza la distinzione tra “pratica” e “virtù”, se così posso dire. Ossia la definizione di una prassi, il far poesia, pare nel nostro tempo anche sinonimo del valore di quel gesto, se non di virtù in generale.
Poesia, insomma, è un termine utilizzato spesso in luogo di bello: c’era come una poesia nell’aria ... quella mezz'ala sinistra quando colpisce di tacco è una vera poesia ...
Tale abitudine ha fatto sì che il sostantivo si sia infine aggettivato. Un ragazzo dona un fiore alla sua fidanzata e lei gli risponde: Come sei poetico. Attenzione, non come sei gentile, educato, sensibile ... No, come sei poetico.
Questo primo spostamento, una metonimia ossidata nella consuetudine verbale, volge la poesia da un campo eminentemente formale ad uno cognitivo. Poetico, in altre parole, diventa sinonimo di gentilezza d'animo, patos emozionale, trasognato stupore. Insomma, tutto ciò che con impropria semplificazione assumiamo nella categoria del sentimento.
Abbiamo a questo punto una doppia sovrapposizione: poesia come sinonimo di bellezza e poetico come equivalente di sentimentale.
Ma se è vero che poetico è l’aggettivo che sta a indicare ciò che possiede le qualità della poesia, per retroazione anche la poesia diventa il campo di espressione del poetico: il luogo delle sensibilità, della zuccherosa condiscendenza.
Ora è interessante notare come queste accezioni derivate, se così le posso chiamare, hanno finito con l'oscurare il gesto originario di natura pratica. Infatti se, incontestabilmente, la poesia è quel genere di scrittura espressiva (o non immediatamente referenziale) dove sia previsto l'andare a capo in modo discrezionale - prescindendo cioè dai vincoli imposti dalle consuetudini grafiche dell'interpunzione - se poesia da un punto di vista tecnico è ormai semplicemente questo, esiste anche un particolare tipo di poesia che viene chiamato prosa poetica, che alla normatività prosastica nuovamente si accorda.
Tutto ciò è apparentemente un paradosso, utile però nell’indicarci come dentro il vincolo promiscuo tra poesia e poetico ancora molto ci sia da indagare.
Su queste stesse pagine (Tellusfolio) ho provato ad avviare una riflessione su alcune figure che io trovo figlie di quest’equivoco, prima fra tutte il kitsch; che è una declinazione del poetico in una forma se possibile ancora più enfatica, de-semantizzata.
Ma senza voler tornare su quelle riflessioni che evidentemente hanno toccato qualche sensibilità (non dimentichiamo che poetico discende direttamente da “sensibile”, come Lupo de Lupis che è un lupo ma tanto buonino), mi farebbe piacere che la brava Maeba approfondisse maggiormente l’ultimo scenario da lei proposto: quello del talento.
Se il gesto poetico ha definitivamente perso ogni rigidità formale, la categoria cognitiva o spirituale del talento con quale strumenti ermeneutici può essere ora accostata?
Carmelo Bene amava ricordare una frase dell’amico Deleuze: "l’uomo di talento fa ciò che vuole, il genio ciò che può".

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