venerdì 6 novembre 2009

Nicoletta, su arte e cultura



Nicoletta, un'amica di Torino, mi invia una mail di risposta al post precedente, in cui si parlava di arte e di cultura. Considero il suo intervento di grande importanza, competenza e compiutezza formale. In altre parole mi sembra bellissimo. Avendo molti difetti ma non quello dell'avarizia, mi pare giusto non tenere questo straordinario intervento tutto per me, assegnandogli uno spazio pubblico e autonomo in questo blog. Con ciò inaugurando una nuova sezione aperta agli ospiti, in cui in futuro verranno ospitate anche altre voci.

gh

Ciao Guido,

mi sono goduta, davvero, la tua rivisitazione di un dialogo socratico in salsa - posso dirlo? - postmoderna (nel senso che mescoli i campi visivi, se non i registri, i temi generali ed i minuti vissuti individuali, il tutto con il tuo lieve, e spesso felice tocco di disincanto. Se non posso dirlo, fammelo capire e ritiro).

Vediamo. Che tema.
Inutile procedere con ordine. Non ce l'ho ancora in mente. Procedo, quindi, per reazioni.
- giustamente, tu inizi col dire che la cultura è ciò che è condiviso, connette, è scambiato. In questo senso, ammetterai, non si tratta soltanto di un insieme di "conoscenze", ma anche di modelli, procedure, comportamenti, stili e dunque ci avviciniamo ovviamente ad un concetto antropologico di cultura, in cui, provo a dire, il valore totale è sempre pari alla media, perché il concetto di cultura in questo senso corrisponde al ritratto di una collettività e contiene i suoi opposti, i suoi positivi e negativi e ne calcola la sommatoria totale. Non, quindi, un "sistema immunitario", in questo primo senso - ché, un sistema immunitario, avrebbe comunque una finalità più specifica, vettoriale, evolutiva, mentre quel primo concetto olistico ha in sé semmai tutte le funzioni di un sistema organico vivente, tendente all'equilibrio dinamico.
(mi sto divertendo, se sono poi troppo tronfia fammelo notare).
In questo primo senso, quindi, non mi sembra possibile pensare ad un modello vettoriale e trainante di cultura verso qualche positività data.
Tuttavia, ai miei occhi resta comunque un senso, in questa definizione di cultura, che è tra l'altro molto affine a diverse giustificazioni che oggi si danno a sostegno della promozione culturale. Anzi, a ben pensarci sono forse le più numerose. La cultura corrisponde, in questo senso, ad uno strumentario, possedere elementi del quale aumenta la capacità dei singoli e dei gruppi di accedere o di avvicinarsi ai gradi ed ai meccanismi più complessi del sistema, condizionarli, controllarli e trarne dei benefici individuali. L'elemento determinante è la ricchezza e la complessità. Oggi, ben più che in passato, anche in forma trasversale ad ogni gerarchia, purché funzionale agli scopi dell'individuo o del sistema, che si presentano di volta in volta come la posta in gioco a seconda di dove si appunta l'attenzione.
E' chiaro come questo tema intersechi quello della democrazia, intesa come pari opportunità di accesso alle leve di crescita e di controllo di una collettività. Questo sì che è un tema che mi interessa. Probabilmente più che a te, ma sai, sono egualitaria sul mio fronte morale (e mistica, agnostica su quello privato, intrapsichico). Nella mia esperienza a scuola, puoi capire. Fornire elementi di complessità rappresenta un primo tentativo di risposta ad una impressionante deriva cognitiva dei giovanissimi, di cui cerco di fare, come primo passo, degli individui più competenti in termini di codici, logiche e scenari del presente.
- quando si parla di cultura, però - nell'"altro" senso, quello orientato, quello che raccoglie in sé e tenta di spostare, di soddisfare una domanda di senso - riferirsi ad un concetto di "sistema", soprattutto se assestato a prescindere da un orientamento di senso può fare piuttosto schifo. A me fa piuttosto schifo, anche se sto leggendo con interesse di teoria della complessità che su di esso si/ci incardina (se per caso non lo conosci: M. Taylor, Il momento della complessità).
Qui... beh, qui il discorso si fa davvero... complesso, per l'appunto. Credo ci vorrebbero una sintesi di Adorno Baudrillard Debord (che ho conosciuto grazie a te, già..) Bauman e Jean Clair per spiegare come, nella seconda metà del Novecento, si è frantumato lo spettro delle teleologie/ideologie storiche olistiche e in campo artistico dei codici e delle pratiche accreditati, fino a creare questo distacco che tu descrivi tra "corpo collettivo" e visioni artistiche.
Oggi, quindi, non soltanto siamo di fronte ad un corpo sociale frantumato, ma ad un insieme di "pratiche" culturali che si accreditano ciascuna in risposta a bisogni variegati, molti dei quali semplicemente (anche se magari non consapevolmente) fungibili al presente, ad obiettivi sociali, oppure come dici tu alla fuga dal senso, al "non sentire". L'individuo è rimasto al centro della domanda di senso, assai più delle collettività - anche se questo non avviene senza eccezioni, va detto. Tra le forme più stimolanti di mediazione di una ricerca di senso collettiva ci sono le committenze artistiche di comunità (o anche collettive. Tipo il Memoriale della Shoah, a Berlino http://www.holocaust-denkmal-berlin.de/ (purtroppo solo in tedesco). Mi sembra un luogo potente in cui simbolo e domanda si incontrano, e più pubblico di così...)
In questo secondo senso, l'accesso alla cultura significa per me soprattutto accesso alle sintesi originali, sorgenti da una domanda autentica e non alterata da preoccupazioni di mediazione sociale o mercantile. Alle "opere", come forse diresti tu. Alle arti, ma in un senso che per me è molto alto, come sai. E che non trovo, ad esempio, in buona parte delle arti figurative contemporanee - che non escono da una rappresentatività proprio molto individualistica e da una simbologia molto debole, secondo me.
Anche in questo secondo senso, per me l'accesso non è, necessariamente e soltanto, un fatto di ricerca e scoperta individuale. Intendo dire, che se non ci - anzi, diciamo mi, che è meglio - fosse successo di scoprire molto presto, in chi mi era accanto, la tensione verso un'esperienza potenziata, autonoma e competente della complessità delle domande del presente, e se non fossi stata orientata per tempo verso una ricerca di risposte fuori di me, nel passato, nei grandi testimoni, nel cammino compiuto da altri nelle loro solitudini; se non avessi investito per tempo sforzi nell'apprendere codici e superare soglie di alterità e di difficoltà, non mi sarei imbattuta in molto di ciò che è, poi, diventato parte cosciente di me stessa, che si è rivelato parte della domanda, prima ancora che della risposta.
Anche in questo caso, cioè, può farsi valere un'ottica perfino - lo dico irriverentemente, lo so, qui sono io ad irritarti - economicistica: quella che in economia della cultura, in Italia, si concentra sui "costi di attivazione" di un percorso di apprendimento, ovvero sul bilancio affatto personale che si è in grado di fare, all'inizio di un percorso e in condizioni di forte asimmetria informativa rispetto al finale, tra i benefici attesi e tutte le difficoltà che ci tocca attraversare. I benefici attesi... dell'esperienza di lettura, dell'arte, del teatro, eccetera, chi ce li rappresenta? è ben raro che si raffigurino da sé, nell'animo di un individuo. In genere, sono potenti le spinte dei familiari, dell'ambiente circostante, a dire "Vedrai... vedrai che poi ti piace... Intanto prova, perché va fatto... Quello, quello ti fa crescere..." e tu, intanto, assaggi. Poi, magari anni dopo, capisci che quello era anche parte della tua domanda, oppure svolti l'angolo e la metti a fuoco da te, in autonomia e in rottura magari, ma intanto hai alle spalle un'esperienza, hai acquisito strumenti e confidenza.
Come vedi, anche in questo caso, anche nel caso di esperienze culturali "formative" (nel senso della Bildung, o anche dell'educazione sentimentale/spirituale) mi sembra che il ruolo degli agenti culturali e sociali possa essere molto positivo, o molto negativo - cioè, sottraente, deprivante di possibilità.
Noi tutti abbiamo delle minchiate alle spalle, esperienze che ci hanno segnato senza averci aggiunto quasi nulla, e che siamo poi dovuti correre a riparare recuperando per altre vie il tempo perduto. Anche l'apprendimento che la cultura può veicolare consente di focalizzare e non disperdere per quanto possibile le energie - le energie spirituali, in particolar modo. Chiaramente, poi ci sono altre vie di apprendimento per esperienza che la cultura da sé non surroga. Lì anche le minchiate, purtroppo, servono.
In questo secondo senso, credo che l'incentivo alla fruizione di cultura sia, anche e soprattutto, una risposta al livellamento sul pensiero unico, su risposte preconfezionate, sul "consumo" rassegnato di surrogati prodotti e messi in circolo per il loro valore d'uso immediato.
- poi c'è il discorso che tu fai sul "consumo" di cultura come perdita di contatto con l'oggetto, con la realtà, con il "sentire". Discorso che mi è piaciuto molto e che condivido. Lo stesso lessico economicistico che si è adottato quando si parla di politiche per la cultura (e che, se va bene spesso come metafora, da tempo mi nausea) rivela di gran lunga come si rischino di confondere i piani, registrando "comportamenti", quasi che la cultura non fosse una faccenda di domande ( e non di "domanda", in senso economico). Lì... eh, lì le soluzioni sono davvero difficili. E però forse è sempre stato, abbastanza, così.
Cioè, così e non così, chiaramente - senza le odierne retoriche della democraticizzazione della cultura, senza i moderni rituali, ecc. ecc. Ma forse non era lo stesso rituale"de-catartico", ovvero de-esperienziale, distraente, disinfettante, che spingeva le folle ristrette del pubblico borghese nei Salons parigini, alle mostre della Royal Academy, oppure in viaggio con Baedeker alla mano, verso le mete non proprio originali del Grand Tour? Ma sì, dai... la differenza è che i codici artistici ammessi erano stabilti da giurie di accreditamento molto centralizzate e molto più severe. Ma l'arte autentica, quella ha sempre colpito esattamente allo stesso punto, in un'interiorità aperta alla conflagrazione, anche se spesso in ritardo di qualche generazione.

N.

ps - Ho di mia iniziativa omesso solamente saluti e salamelecchi vari tra me e Nicoletta, che immagino anche lei voglia rubricare alla voce "cazzi nostri". Grazie ancora Nicoletta, se fossi Berlusconi davvero farei fatica a decidere se sei più brava o più bella ... ;-)
gh

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