venerdì 26 luglio 2024

McGuffin, o sul processo creativo

 

Nei giorni scorsi ho pubblicato due micro racconti, a pochissimi giorni di distanza li ho inseriti qui e anche su Facebook. Entrambi sono passati un po’ in sordina, ma va bene così, non ne rivendico il valore; in fondo li ho scritti solo per poter arrivare al ragionamento che sto per fare. Oltretutto, nemmeno 3000 like ti assicurano della bontà di un testo, altrimenti Fedez sarebbe meglio di Dostoevskij.

Ma torniamo ai due racconti, che in realtà erano la medesima storia. La prima versione narrava una vicenda realmente accaduta (il corvo di due miei conoscenti imitava le voci degli operai intenti nei lavori di ristrutturazione della casa dei vicini), restituita attraverso un lavoro di scrittura limitato alla forma, e cioè alla selezione dei vocaboli, al loro rapporto, ordine cronologico dei fatti, in questo caso del tutto lineare. Nella retorica antica avrebbero detto che si era saltata la fase dell'inventio, passando direttamente alla dispositio e all'elocutio.

Nel secondo racconto quella stessa vicenda viene rielaborata e mescolata con altri eventi reali, fino al punto di occultarla agli occhi del lettore. Si tratta, in parte, di materiali personali (avevo un amico che negli anni Ottanta andava in vacanza a Sanremo, e quando tornava diceva Diofà) e in parte collettivi (Portobello). La loro fusione fa imboccare al racconto una strampalata direzione onirica, del tutto opera di finzione.

Lo sceneggiatore Angus MacPhai chiamava questo espediente compositivo McGuffin, un termine, poi ripreso e reso popolare da Alfred Hitchcock, che non sta a significare nulla di definito, e piuttosto un generico evento che ha funzione di innesco, da cui la trama successiva si può anche svincolare. Tradotto in metafora, abbiamo un seme piantato nella terra, che da lì in poi prende a generare: può essere un fiore, una carota, un albero stortignaccolo o una maestosa sequoia. Ma fermiamoci qui, non entriamo nel complesso problema della qualità artistica, del gusto, anche del talento.

Ciò che voglio arrivare a dire è che come esiste un McGuffin drammaturgico – quello utilizzato da Hitchcock  probabilmente esiste anche un McGuffin mentale, connesso all'invenzione di cui già abbiamo accennato. Può essere qualcosa che abbiamo vissuto oppure letto, sognato, copiato, manomesso, ingerito, annusato, intravisto dal finestrino di un treno in corsa, ma si deve sempre partire da un'esperienza affinché l’impulso creativo venga attivato, la pura fantasia non esiste. Possiamo guardare alla terra come alla mente, senza semi la mente è un deserto di sabbia, o come diceva il mio compagno di scuola Corrado Lapsus un deserto di piastrelle, in quarta elementare sosteneva che nel deserto ci fossero le piastrelle.

A tutto ciò viene dato il nome di processo creativo, ci sono molte teorie al riguardo, io prediligo la versione di un altro regista. Jim Jarmush la vede così: “niente è originale. Ruba da tutto ciò che suscita l’ispirazione o che alimenta la tua immaginazione. Divora vecchi film, nuovi film, musica, libri, dipinti, fotografie, poesie, sogni, conversazioni casuali, architettura, ponti, segnali stradali, alberi, nuvole, distese d’acqua, luce e ombre. Delle cose da cui rubare, prendi solo quelle che parlano direttamente alla tua anima. Se lo fai, il tuo lavoro (e furto) sarà autentico. L’autenticità è inestimabile, l’originalità non esiste. E non preoccuparti di nascondere il furto.”

Di seguito i due micro racconti a cui ho fatto riferimento.

1) The Raven, a true story

Avevo un'amica che aveva una sorella che aveva un marito che aveva un corvo. Il marito parlava, il corvo no. Un'estate, nella casa accanto alla casa della sorella della mia amica dove viveva con il marito e con il corvo - ma il corvo stava fuori, una spaziosa voliera lo ospitava in giardino - fecero dei lavori di ristrutturazione. La sorella della mia amica e il marito e il corvo abitavano in Valtellina, e non si capisce per quale ragione (ammesso che ve ne sia una) i vicini si affidarono a una squadra di muratori bergamaschi. Probabilmente perché sono più bravi dei muratori valtellinesi, e anche di quelli mantovani, varesotti, livornesi, bolzaneti o bolzanini o bolzanesi, non so come si scrive. Insomma i muratori bergamaschi sono più bravi, non c'è storia per nessuno. Così dicono almeno. Al termine dei lavori, che coincise con il termine dell'estate, i muratori bergamaschi se ne andarono. Avevano fatto un buon lavoro, onorato la loro fama. Tutti gli altri rimasero: i vicini, la sorella della mia amica, suo marito e pure il corvo, che all'improvviso si era messo a parlare. Diceva porco di qua, porco di là, per lo più riferendosi a santi e madonne e con inequivocabile accento bergamasco. Diceva anche pota pota pota. A me sembra una bella storia, peccato solo che sia vera. Avrei voluto inventarla io.

2) Portobello, o sull'happy end

Penso a una storia con protagonista un uomo nato intorno alla metà degli anni Sessanta, ha un sogno ricorrente. Tutte le notti sogna Portobello, il pappagallo dell'omonima trasmissione condotta da Enzo Tortora tra il 1977 e il 1983, e poi per un'unica stagione nel 1987, dopo le tristi vicende giudiziarie.

Il sogno compare nel suo teatro onirico alle 2.47, un orario che per la cabala ebraica e la numerologia significherà forse qualcosa, ma non per questa storia. 2.47 precise precise, lo sa perché alle 2.48, puntualmente, si sveglia. E dice: “Diofà!”

Un tipico motto di sorpresa piemontese, strano perché il nostro personaggio non è piemontese, probabilmente ha sentito l’espressione da ragazzo a Sanremo, dove si ritrovava con un gruppo di coetanei di Asti. Tornato a Sondrio al termine delle vacanze (il nostro personaggio è dunque valtellinese) la ripeteva con gli amici del Bar Sole, compiacendosi per l’esotismo del suono. Ma ci voleva, allora come adesso, una ragione per sbottare.

In questo caso coincide col fatto che Portobello ha finalmente parlato – un evento che ha dell'inverosimile, accaduto una sola volta con Paola Borbone. Peccato che nel sogno non abbia detto Portobello, come richiesto dal programma, ma anch'esso Diofà. Cosa fare…?

Enzo Tortora si consulta con gli autori, in studio è presente un notaio, sentono il suo parere e poi decidono di assegnare comunque il premio al concorrente, un bel gruzzoletto in gettoni d’oro. Alle 2.49 il nostro personaggio può così riprendere a dormire. Sì acciambella come un gattone sul lato sinistro, un mezzo sorriso a baciare il cuscino. Perché questa è una storia che finisce bene.

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