Stefano Brugnolo, critico letterario capace di speleologia ma anche di ironiche pattinate sulla superficie dei testi, nei giorni scorsi ha scritto su internet un intervento contro Bret Easton Ellis, e ciò a partire già dal titolo che riprendo.
Non è del tutto chiaro se nella circostanza prevalga la prima o la seconda delle sue disposizioni, ma mi sento in totale sintonia con quanto scrive. Anche a me BEE non piace, e come lui non ho letto l'ultimo celebrato romanzo, Le schegge, Giulio Einaudi editore, attenendomi ai pregiudizi che ho maturato.
Eppure non è stato sempre così. Quando per la prima volta incrociai le pagine di American Psycho rimasi colpito, di più, entusiasta, il cui etimo rimanda alla presenza di un dio dentro di noi (en-theós). Ma ai successivi romanzi la potenza irradiante di quel dio ha cominciato a decrescere, fino a tornare a essere un fantolino dentro la paglia di una mangiatoia.
Cosa diavolo era successo?
La risposta che mi sono dato, ma dopo molto tempo, è che ci sono opere dell'ingegno umano il cui piacere è condizionato dalla novità, venendo vanificate dalla ripetizione. L'esempio forse più illuminante è quello di Duchamp: prendere un orinatoio e metterlo in una galleria d'arte fu un gesto rivoluzionario, mostrandoci come il contesto contribuisca a definire la percezione dell'opera.
Ma tu guarda, non me ne ero mai accorto... Quanto sono belle le linee aggettanti di quell'ammasso di ceramica in cui negli autogrill pisciamo accanto a un camionista bulgaro, senza prestarvi alcuna attenzione. La bellezza si mostra – emerge proprio, in un moto opposto al flusso delle nostre deiezioni – solo cambiando arbitrariamente funzione all'oggetto, in un'anticipazione figurale della celebre formula di McLuhan: the medium is the message.
Il problema è che l'effetto si realizza solo la prima volta, one shot, e chi volesse riposizionare nuovamente un orinatoio in una galleria d'arte otterrebbe solo disinteresse, la meraviglia verrebbe convertita in sbadiglio. È il limite dell'arte concettuale: passata la festa, gabbato lo santo.
Ciò che ha fatto BEE è qualcosa di simile. Ha
preso il male assoluto, incarnato da un serial killer, e l'ha stornato da
un'altra parte, dallo scaffale dell'etica a quello dell'estetica. Un'operazione
perfettamente riuscita, ottenuta per il tramite di una scrittura oggettiva che
Brugnolo giustamente associa a Hemingway e Carver: un behaviorismo letterario
che non lascia spazio ad approfondimenti motivazionali, psicologia, l'umano
insomma così come è stato inteso da Agostino in poi, il quale per primo vi
associò il concetto di anima inventato da Platone. Tutto lumeggia in superficie
come i resti di un naufragio.
Ma in quella superficie, e in quei resti, più che
tracce biografiche del suo protagonista si mostra molto di noi come comunità,
anche se magari individualmente non strapperemmo neppure una piuma al canarino
dello zio. Le marche dei vestiti, degli occhiali da sole, automobili sportive
dove sniffare cocaina, "sono le cose che parlano" cantava Lucio
Battisti. E ciò che le cose dicono è che in luogo dell'anima si è annidata nei
corpi una caricatura glamour del mondo. Non il male, ma neppure il suo argine.
Piuttosto il contesto da cui muove – fusione perversa di Tecnica e Capitale – alla
maniera dello spazio artistico che ci consente di guardare con occhi diversi
l'orinatoio.
Il guaio è che BEE ha perseverato in ciò che
Duchamp si è invece guardato bene dal fare: ha replicato la sua formidabile
intuizione, rendendo ozioso il gioco. Ok, saremo anche una società tossica e
fatua, disanimata, ma ciò in cui la letteratura è massimamente attrezzata è
immergersi nel flusso psichico e biografico dei personaggi, istituendo delle
relazioni di senso. La meccanica dei comportamenti viene restituita molto
meglio dal cinema, per dire.
Ecco, l'impressione è che BEE abbia scoperto il cinema con quasi un secolo di ritardo. E se la prima volta, replicando lo shock degli spettatori dei Lumière, leggendolo siamo balzati sulle poltroncine all'arrivo della locomotiva, adesso ci chiediamo: da dove viene quel treno, dove va, perché i passeggeri sono saliti a bordo?
Tutte domande a cui lo scrittore non risponde, e pare anzi beffarsi, come fece con David Foster Wallace, di chi provi a offrire una risposta sensata; sarà pure discrezionale ma è intimamente legata alla pratica narrativa, scaturita dalla consapevolezza delle potenzialità di un'azione che si è andata definendo nei secoli. Ciò che invece fa è riproporci il suo orinatoio ormai ingiallito, in uno scarto dalla norma che è improprio chiamare trasgressione, essendo divenuto nel frattempo maniera. Perciò ha smesso di sorprenderci. E dunque di piacerci.
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