sabato 21 ottobre 2023

È stato solo un sogno, o sulle domande che spaccano il cuore

Questa mattina avevo il richiamo della vaccinazione anti Covid. Ore 10.00, presentarsi alla 9.50 con codice di prenotazione UNLXNSBIFRMRMYC, stava scritto sull’SMS di conferma. Si ricorda di portare un documento identificativo in corso di validità e la tessera sanitaria.

Vado a dormire tardi dopo due puntate di Twin Peaks, la prima stagione. Nonostante la pasticca di Rivotril ho il sonno un po’ agitato. Sogno. Al mattino i ricordi sono confusi, ma potrei giurare che una mia compagna di scuola faceva parte del sogno; siamo stati nella stessa classe sia alle elementari che alle medie, sempre nella sezione effe. Sì chiama Silvia. Da quanto tempo non la vedo? Saranno quindici anni, forse venti...

Probabile. Ma se voglio ritrovare un'immagine nitida devo risalire al Carnevale del 1975, quarta elementare. Io mi ero presentato a scuola vestito da direttore del circo – avevo fatto un po’ di fatica a recuperare la tuba, la giubba rossa con i bottoni dorati apparteneva a mia nonna – mentre Silvia da damina del Settecento.

La gonna conteneva un’anima di metallo, se provava a sedersi faceva leva sulla sedia e si sollevava la parte anteriore, mostrando a tutti le mutande. Corrado Lapsus veniva mandato ogni tanto in avanscoperta per sollevare il grembiule scuro alle bambine, e farci vedere il candore delle mutande. Ma così era troppo facile.

Alla fine, dopo alcuni tentativi, Silvia decise di rimanere in piedi. Noi con i gomiti appoggiati sui banchi di formica verdina a sbranare chiacchiere e tortelli; lei al centro della classe come un monumento, un’installazione artistica, un capolavoro. Bella è sempre stata bella, per quanto, a volte, il tempo somigli ai fanatici religiosi. Gente barbuta che abbatte le statue di un dio disallineato al presente. Mi piacerebbe rivederla.

Quando è il mio turno (numero 24 chiamano a voce alta e non più con il microfono, ormai a vaccinarsi siamo rimasti in quattro gatti), entro nel box e trovo l’infermiera di spalle; sta aspirando con la siringa un intruglio che già immagino scorrere minaccioso nel mio sangue. Si gira e mi chiede: “Spalla destra o sinistra?”

“Sinistra direi, ma tu…?”

“Si, sono io. Con queste cose sulla bocca", e indica la mascherina, "non ti avevo riconosciuto subito nemmeno io. Come stai, Guido?”

“Bene, sì, insomma… E tu, abiti sempre a Sondrio, ti sei sposata, hai figli?”

Non presto attenzione alle risposte, mentre parla – sono proprio un cialtrone – sto pensando se dirglielo o meno, e nel caso come.

“Silvia lo sai che questa notte ti ho sognata” la interrompo in una sola rapidissima emissione di fiato, si ingolfa in quella cosa che tengo anch'io sopra la bocca. Replico allora il suo gesto di indicare la mascherina, fingendo di giustificare così la mia goffaggine. Sembra l'inizio di una canzone di Luca Carboni.

“Davvero?!”, risponde lei con un tono di sorpresa che appare accentuato e artificioso, quasi a nascondere una notizia che già conosceva. 

“Sì, ma non preoccuparti: non facevamo cose strane… Eravamo vestiti. Non ti si vedevano le mutande, come quella volta a Carnevale.”

Speravo di farla sorridere ma resta seria, concentrata sulla siringa, non si ricorda dell’episodio. Provo a raccontarglielo ma mi anticipa: “Fa lo stesso, andava bene uguale."

Finalmente sorride, e dopo avermi invitato, sempre a gesti, ad abbassare la spallina della maglia di caldo cotone, continua: "Quello che facevamo facevamo. Tanto si trattava di un sogno, solamente un sogno, no?”

Annuisco.

Mi infila l’ago nella spalla senza preavviso, poi preme lo stantuffo con una delicatezza che sembra contraddire l'impeto iniziale, i ballerini nel tango fanno qualcosa di simile. Non sento nulla. Preferisco quando le iniezioni fanno male, mi sembra che per stare bene si debba soffrire un po', non tanto, solo un po’. Al termine mette un cerottino come quelli che ricoprivano le ginocchia dei bambini degli anni Settanta. “Posso andare?” dico io.

“Sì, sì.”

“Allora ciao, Silvia.”

”Ciao Guido.”

“…”

“Aspetta” mi dice quando sono già arrivato alla tenda del box, “nel sogno eravamo come adesso, sì, insomma, vecchi… o come una volta?”  

1 commento:

  1. gli incontri a distanza di tanto tempo tra un uomo e una donna sono sempre pericolosi o quanto meno imbarazzanti: smemoratezze, mancata sintonia, rievocazioni equivoche, invecchiamento, sono mine vaganti che spesso sabotano le buone intenzioni. Lei ha salvato l'incontro all'ultima battuta.
    bella narrazione.
    massimolegnani
    (orearovescio.wp)

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