Giulio Mozzi è un bravo scrittore. Ma forse dovrei mutare il tempo
verbale, già che Giulio Mozzi, pur continuando a essere bravo in ciò che fa, da
molto tempo non scrive più. Narrativa, almeno. Eppure il suo semplice ma
puntiglioso registro sintattico, dal tono un po’ introverso che vira spesso
nello stralunato, per raggiungere bizzarre e inquietanti epifanie con ritmo
sempre più lento, bradicardico, e però implacabile come la pedalata di Fausto
Coppi, tutti questi elementi sono ancora riconoscibili in ciò che pubblica.
Testi perlopiù legati alla sua attività editoriale – prefazioni, ad esempio,
quarte di copertina – o di animatore culturale sui social network, dove si
dedica con successo alla didattica narrativa. Ma come potremmo chiamare questa
felice costellazione di segni, che vanno a formare un vero e proprio stile?
Ci ho pensato un po’, e alla fine continua a tornarmi
un’espressione che avrei magari preferito evitare, vista la grande stima che
provo verso l’autore padovano: lo stile, alla Mozzi, è
quello dell’antipatia.
Provo a spiegarmi. Prima della comparsa, intorno alla metà degli
anni novanta, degli scrittori della generazione di Giulio Mozzi, in effetti non
era così. Pensiamo al caso emblematico di Baricco, che pur avendo quasi la
stessa età di Mozzi ha raggiunto il successo con anticipo. In ogni cosa che
scrive o, più in generale, che fa, compreso soffiarsi il naso e arrotolarsi le
maniche della camicia, sempre e rigorosamente bianca, Baricco cerca di essere
simpatico. Ad esempio utilizzando un idioletto giovanile di derivazione
salingeriana (Holden, non a caso si chiama la sua scuola di scrittura),
ammiccando al lettore, sorridendo e ravvivandosi la folta chioma con mani che
seguono a braccia sempre nude, per via delle maniche ravvolte della camicia
bianca di cui sopra. Baricco, insomma, mette simpatia in tutto quello che fa, e
il fatto che a molti sia antipatico è forse perché ce ne mette troppa…
Bene, prendiamo Baricco e facciamogli fare tutto il contrario –
via la camicia bianca, i boccoli, il sorriso sornione, la zeppola, i monologhi
compiaciuti e i dialoghi buffi, via anche e soprattutto lo slang giovanile
misto a citazioni dotte –, e abbiamo Giulio Mozzi. Uno scrittore antipatico, ma
davvero tanto antipatico a partire dalla postura del corpo nelle foto che lo
ritraggono (le mani conserte abbondano), fino al modo pedante e brusco con cui
risponde agli interlocutori. Ricorda, in questo, certi nostri insegnanti di
religione quando venivano incalzati dalle obiezioni ingenue degli alunni. Ma
come, sembravano comunicare con la loro aria pretesca, io parlo tutti i giorni
con Dio e tu al massimo col poster di Chinaglia, che cazzo voj capì…
Eppure questa sua antipatia sempre un po’ burbera e ironica – sì,
si può essere burberi e allo stesso tempo ironici – alla fine conquista il
lettore, che è avvinto dal suo particolare modo di periodare per spirali
avvolgenti e immaginifiche, come un boa che parte dai piedi per raggiungere
infine la testa, in cui il ragionamento si distilla quasi sempre limpido e
chiaro. E’ forse tutto qui, lo stile alla Mozzi: togliere quando ti aspetti che
uno metta, e mettere, continuare a mettere, ma non ha ancora finito? quando ti
aspetti che uno tolga. Uno come Baricco, almeno
Per molto tempo i giovani scrittori italiani alla ricerca di una
lingua che ne rendesse riconoscibile la voce, hanno guardato proprio a lui.
Baricco. Essere simpatici, a tutti i modi, leciti e illeciti, diventò dunque la
loro strategia retorica. Ora però mi sembra che le cose stiano cambiando. Più
che dai romanzi, me ne accorgo dagli interventi rilasciati a getto continuo sui social network. Da baricchiani – leggi, simpaticoni – gli scrittori si stanno
infatti trasformando in mozziani – leggi, antipaticissimi. Non tutti,
naturalmente, ma la percentuale mi sembra significativa, e merita forse una
riflessione supplementare. Proviamoci.
Io trovo che la simpatia somigli alla felicità. Tolstoj
l’attribuiva, nel perfetto incipit di Anna Karenina, alle famiglie con poca
fantasia, già che “tutte le famiglie felici si
somigliano”. Così mi pare che anche gli scrittori simpatici al fondo si
somiglino, e questo è in qualche modo naturale. Al contrario, l’antipatia si
basa su una particolare forma di differenza, non
si può essere tutti antipatici allo stesso modo, pena l’uscita dall’antipatia
per entrare in un diverso sentimento. La noia. Secondo lo stesso schema
tolstojano, l’antipatia ricorda piuttosto l’infelicità, per cui ogni famiglia
infelice – continua nel suo capolavoro lo scrittore russo, non troppo
simpatico neppure lui – è disgraziata a modo suo. E così lo dovrebbe essere ogni antipatico, che deve
trovare il modo di differenziarsi non solo dai simpatici, come hanno saputo
fare Tolstoj e Giulio Mozzi, ma da tutti gli altri antipatici.
Se da lettore non provavo particolare entusiasmo nell'imbattermi in tutti questi scrittori simpatici, avverto dunque un imbarazzo
persino maggiore quando adesso leggo dei testi scritti alla maniera di Giulio Mozzi. Va bene, siete
corrucciati, tortuosi, attraversati da travagli metafisici e pure un po’ stronzetti
(Mozzi sa essere generosissimo, per inciso e a differenza vostra), ma la
ripetitività di questa postura mi allontana dalla pagina. Con Mozzi, quello vero, con il bollino blu come la banana Ciquita, non
è stato così, dal momento che la sua antipatia possedeva un tratto inaugurale. Da cui la sensazione, vivificante, di mostrare le cose da un punto di vista alternativo, dove a essere
illuminato era il lato oscuro della luna di Baricco.
Ora però l’effetto sorpresa si è esaurito e prevale una vaga percezione di fastidio, come quando il tormentone dell’estate precedente viene riproposto dal disc jockey poco esperto. In anni ancora recenti si è sperimentato qualcosa di simile con l’espressione signora mia. Promossa, con estrosa mimesi, da Arbasino, e poi finita in logoro cliché neoavanguardistico. No, non se ne può più di signora mia, signora mia basta! E così pur continuando a considerare Giulio Mozzi un antipatico di talento, comincio a non poterne più dei suoi numerosi cloni, che spadroneggiano sempre un po’ scostanti e presupponenti sul web, anche in versione femminile. Ridatemi piuttosto Baricco e la sua innegabile simpatia, se non riuscite a darmi la vostra unica e insostituibile voce.
Ora però l’effetto sorpresa si è esaurito e prevale una vaga percezione di fastidio, come quando il tormentone dell’estate precedente viene riproposto dal disc jockey poco esperto. In anni ancora recenti si è sperimentato qualcosa di simile con l’espressione signora mia. Promossa, con estrosa mimesi, da Arbasino, e poi finita in logoro cliché neoavanguardistico. No, non se ne può più di signora mia, signora mia basta! E così pur continuando a considerare Giulio Mozzi un antipatico di talento, comincio a non poterne più dei suoi numerosi cloni, che spadroneggiano sempre un po’ scostanti e presupponenti sul web, anche in versione femminile. Ridatemi piuttosto Baricco e la sua innegabile simpatia, se non riuscite a darmi la vostra unica e insostituibile voce.
Sai, Guido, condivido in buona parte il tuo intervento, ma non sono sicuro che “lo stile dell’antipatia” sia stato inaugurato – quanto agli ultimi decenni – da Giulio Mozzi (lo affermo da una posizione un po’ scomoda: sono amico di Giulio e sono anche stato un suo allievo).
RispondiEliminaÈ però possibile, anzi probabile – perché si tratta di sfumature difficili da possedere razionalmente – che io non abbia capito bene cosa intendi per “stile dell’antipatia”.
E credo anche che l’antipatia declinata nella letteratura sia altra cosa rispetto a quella che riguarda lo stile di relazione, quindi, ecco, mi riferisco più che altro alle opere.
E mi sembra che nelle opere di molti scrittori degli ultimi decenni sia presente il rifiuto della postura del seduttore: ad esempio mi sembra formulato chiaramente in quasi tutti i libri di Antonio Moresco; Aldo Busi ne ha sempre fatto il suo punto di forza, direi (e mi riferisco ai testi, anche se le apparizioni pubbliche del Busi-televisivo rispecchiano questo suo lato, diciamo, antipatico); ma insomma, ce ne sono proprio tanti.
Per come funziona la mia intelligenza, mi è utile distinguere, più che fra simpatia e antipatia, tra stile del seduttore e stile del persuasore: il seduttore è il buon bugiardo che le conta su, e si adatta al proprio interlocutore smussando almeno inizialmente i propri spigoli così da conquistarsi la vittima attraverso il piacere; il persuasore è invece brutale, non si sforza di produrre leve retoriche “ad hominem” e anzi immobilizza la propria vittima grazie alla forza del linguaggio vincendone in tal modo l’incredulità.
Come dicevo, questa distinzione è utile a me e potrà non dire nulla a intelligenze che funzionano in modo diverso. Ma sono certo che mi è molto utile per capire come leggere e come scrivere. E, lateralmente, per interpretare le tendenze commerciali del mondo editoriale, ovviamente sempre alla ricerca di seduttori e poco aperto ai secondi).
La mia non è un’obiezione, dico semplicemente come io la vedo e delineo le differenze rispetto a come la vedi tu : )