venerdì 7 settembre 2018

200, o sui popoli e le parole

L’italiano è una lingua che comprende circa 250.000 vocaboli. Tanti, pochi… Beh, il francese arriva a malapena a 100.000 e l’inglese a quasi 500.000; senza naturalmente contare il linguaggio tecnico, difficilmente quantificabile. Stiamo insomma in una condizione intermedia, che non tiene però conto della presenza, nella nostra lingua, dei diminutivi e dei vezzeggiativi, i quali incrementano il lessico in modo significativo e l’inglese non contempla. Ad esempio casa, casina, casetta, casupola, casotto, casona, casaccia… E siamo già a sette, per una sola radice.
Ma ci serviranno poi davvero, tutte queste parole?
Nel 1976 deve esserselo chiesto anche Tullio de Mauro, e ha così indagato la competenza linguistica di un ventenne tipo; non di un bracciante lucano, per intendersi, un ragazzo che ha seguito studi regolari, senza magari brillare. Dopo aver campionato oltre 50.000 giovani italiani, ha concluso che il numero di vocaboli padroneggiati si aggirava intorno a 1600. E sembrano pochissimi, lo 0,6% del totale, al punto che dopo vent’anni a Tullio de Mauro sorse probabilmente qualche dubbio – mi sarò sbagliato? – e rifece l'indagine. Con suo stupore, il numero era però sceso a 640. Ma poco prima di morire, nel 2017, il famoso linguista si mostrò ancora più pessimista, e a un intervistatore dichiarò che il capitale lessicale dei ragazzi si era a suo avviso ridotto ulteriormente, lo stimava ora attorno ai 200 vocaboli. Duecento, ho riletto bene, non ci credevo, e cosa ci fai con duecento vocaboli?!
Ordini un panino da McDonald's, d’accordo, ma mi raccomando non gli si chieda se desidera salsa tartara oppure tabasco, già che il ventenne 2.0 conoscerà al massimo la parola maionese o se va di lusso ketchup; non ci scommetterei però, probabile che chiami quest’ultima salsa rossa. Quindi avrà in memoria qualche termine elementare, quelli che ti fanno studiare alle prime lezioni dei corsi di lingue – il cane è sotto il tavolo, il libro è sopra il tavolo – e davvero poco altro. Di leggere un giornale, con duecento vocaboli, non se ne parla proprio, tutt'al più ci fai un cappellino di carta. A stento riesci a comprendere il telegiornale, ma giusto perché ti aiutano le espressioni del viso del conduttore e il suo tono di voce, oltre alle immagini del servizio. Poi basta, finita qui.
Dunque totale incapacità di dar forma verbale alle proprie emozioni, e a maggior ragione di sviluppare un pensiero civile, collegando fatti concreti a principi etici astratti e generali; ma bisognerebbe conoscerlo l’aggettivo etico, anche in forma di sostantivo, che dubito essere presente nel minimo corredo lessicale dei nostri cuccioli. Allo stesso modo della parola afasia, la cui a privativa impedisce alla voce di articolarsi in forma, e quindi in senso. Quel che rimane è il suono introverso e gorgogliante di certi frigoriferi nel cuore nella notte, che sembra vogliano dirci qualcosa. Ma quando infine ti alzi, li raggiungi, ok, dimmi, cosa c'è, ci trovi solo il Tetra Pack di un succo di frutta aperto, da cui prendi una sorsata prima di tornare a letto ciabattando.
Un filosofo austriaco del secolo scorso, Ludwig Wittgenstein, avrebbe chiosato il tutto con un suo celebre motto: the borders of my language are the borders of my world. Sì, i confini della mia lingua sono i confini del mio mondo. Il problema è che i confini della lingua dei ragazzi che incontri quando prendi l’autobus, il tram, o in ascensore come quel tipetto col ciuffo che scende sempre al terzo piano e ti sfila davanti ascoltando musica con le cuffiette del telefonino, i confini linguistici anche di tuo figlio e di tuo nipote sono diventati piccoli, ormai ben più piccoli di quelli geografici, tanto che non riescono neppure ad avventurarsi oltre la soglia del proprio gruppo su un social network. Mi spiegava un amico che ora Instagram sta spodestando Facebook, già che non c’è nemmeno più bisogno di scrivere “ehi raga come butta”, basta postare una foto con espressione tra il languido e il corrucciato e attendere il fiorire dei consensi.
Fosse anche solo per questa ragione, se ne ricava che l’immigrazione da altri paesi non è più arrestabile, perfino quella cosiddetta selvaggia. Ma siamo sicuri che sia una brutta notizia, e non ci convenga invece fare come i banditori dei circhi che spuntano in provincia a primavera, insieme ai primi giaggioli? Massì, venghino siori, venghino, le gabbie sono aperte ma pochissimi gli animali autoctoni che abbiano il sacrosanto impulso della fuga. Lo sapete, ad esempio, quanti caratteri, non vocaboli, dico proprio caratteri, contiene la lingua cinese? Ve lo dico io: 56.000. Certo, anche loro non li conoscono tutti, ma è stato stimato che un bambino cinese di sei anni padroneggia già 2.500 caratteri, che salgono a circa 3.500 nell’adolescenza, e cioè a un’età equivalente a quella in cui i somari italiani arrivano a stento a 200 parole. Per non dire degli africani che sbarcano qui già parlando due o tre lingue (francese, inglese e quella del paese di provenienza), a cui si aggiunge in breve tempo l’italiano, con una quantità di termini che di certo supera la taglia nostrana. Un'extra small, naturalmente.
Nella sequenza di un film dei primi anni sessanta, Pasolini faceva pronunciare a Orson Wels una desolata considerazione sullo stato deisuoi connazionali – “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa” –, ma cosa dovremmo dire adesso? La contrazione linguistica in corso ci porta a dover appaltare ad altre voci il nostro Paese. Qualcuno, magari proprio quell’Ali dagli occhi azzurri, uno dei tanti figli di figli che invocava lo stesso Pasolini in una lirica tardiva, qualcuno che sappia ancora dire mare, costa, chiesa, basalto, tripode, bellezza. Soprattutto bellezza.
Uomini e donne dunque, che insieme fanno bambini 
 non solo figli unici  e i bambini parole. Non importa chi e quale sarà il colore della loro pelle, ma bisogna fare presto. Dai navi allora, gommoni, remi, presto! A sbarcate altri popoli alle prime luci dell’alba, gente ossuta intrisa di salsedine, in quel silenzio che non è fine ma principio, inizio di ogni vocabolario. Perché prima di parlare, prima della voce, vengono i denti, per mangiare oppure per mordere. Non importa. Nemmeno se saranno barbari, cinesi, guerrieri masai o arcieri ostrogoti. Venga chiunque abbia ancora parole per nominare le cose, già che i nostri figli, le stesse facce ottuse delle madri,  quando escono rilassate e sempre più belle dal corso di yoga, la stessa Fred Perry dal collo rialzato presa dall’armadio di papà, non le sanno più dire.


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