mercoledì 5 settembre 2018

Calcio e filosofia, o sui travestimenti del nichilismo



La figura del tamarro, da macchietta diffusamente collocata nelle periferie urbane del nord Italia, per virare a Roma il suo nome in coatto, con Maradona, negli anni ottanta, guadagna il riverito centro della scena pubblica, inaugurando l'inversione sociale delle polarità esterno e interno. Quel che prima stava all'esecrato margine del giudizio, diventa così accettabile e perfino virtuoso. 
Più tardi è il turno di Bobo Vieri, il quale assume la stupidità irriverente e baldanzosa – un tipo umano che alle medie era incarnato dal pluriripetente, lo si può visualizzare appoggiato allo stipite della porta dei bagni con una Marlboro che pende spenta al lato della bocca – per convertirla in nuovo modello di comportamento giovanile, di cui passerà in seguito il testimone a Mario Balotelli. Ora è il turno dello sdoganamento del narcisismo, attraverso la tartaruga addominale di Cristiano Ronaldo, e dell’anaffettività introversa e un po’ tignosa, che con tutta evidenza ci comunica l’espressione vacante di Leo Messi.
Potremmo dire che il calcio sia il moderno lenzuolo con cui si traveste il fantasma tardo ottocentesco del nichilismo; Nietzsche lo faceva coincidere con la trasvalutazione di tutti valori, aggiungendo che con ciò si realizza la “vittoria della morale degli schiavi”. Non è difficile, lo sport rende la filosofia molto più semplice e accessibile: Maradona, senza il calcio, sarebbe rimasto una sorta di schiavo del sistema di produzione post industriale, confinato in un barrio vagamente equivoco di Buenos Aires, dove si sarebbe prodotto in spacconate sempre più logore e autolesionistiche. E così Messi, Vieri, Ronaldo, Balotelli. Tutte persone che, per ambiente familiare, cultura, atteggiamento, in una società tradizionale verrebbero confinate all’orlo irrilevante della vita, e ora invece ne guadagnano la piazza centrale. 
Se ne ricava che il calcio rappresenti l’ultima utopia rivoluzionaria sopravvissuta agli scossoni della storia, in grado di trasformare il rospo in principe, e il brutto anatroccolo in cigno.
Ma a questo primo dato umanamente progressivo – in fondo il talento e l'estro calcistico non si ereditano per continuità dinastica –, si accompagna un effetto perlopiù trascurato. Con il loro esempio amplificato dai ripetitori televisivi e largamente seguito, o meglio inseguito, senza venire mai raggiunto, i nuovi miti sportivi trasformano infatti anche l’idea platonica di cigno e di principe, sempre più simile a un rospo. Facendo passare l’illusione che non solo ogni scarafone sia bello a mamma sua, ma bello in quanto scarafone, e ogni rospo abbia così diritto a una principessa. Cosa purtroppo non vera.

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