
venerdì 28 settembre 2018
Un di nos, o sulla città piccola piccola dove sono nato e cresciuto io, tra due file lunghe e scure di montagne

giovedì 27 settembre 2018
Zanza, un eroe moderno

I nostri treni si sfiorarono trentatre anni fa alla discoteca Blow Up di Rimini, dove, insieme a un amico omonimo, stavamo stravaccati sul bancone a tracannare Gin Fizz (ma che fine ha fatto il Gin Fizz?) dopo aver superato gli esami di maturità per il rotto della cuffia. Ma all'improvviso apparve lui, la camicia nera aperta fino allo stomaco, i pendagli d'oro, seguito da un corteo di donne tutte giovani e carine. Così lo avvicinammo e gli rivolgemmo la parola, volevamo capire cosa facesse esattamente un butta dentro, come amava definirsi per contrapposizione ironica alla più comune professione del buttafuori. Ma mentre quelli sono omoni che cacciano i molesti e gli spacca maroni di ogni sorta, il mio lontanissimo conoscente, ci spiegò con distratta cortesia, col suo metro e settanta scarso di statura, i capelli lunghi e ossigenati e, insomma, la vera bellezza è altrove, intercettava le turiste straniere, per poi trascinarle all’interno del locale. Era però solo la prima tappa, continuò con accento romagnolo. La seconda consisteva nel scoparsele, e stiamo ovviamente parlando dello Zanza, al secolo Maurizio Zanfanti morto a Rimini la notte tra il 25 e 26 settembre 2018. Scopando, se a qualcuno fosse sfuggito.
Ricapitolando.
Un uomo di sessantatre anni che per tutta la vita non ha fatto altro che
scopare – da centocinquanta a duecentoventi donne diverse per stagione, almeno nei
tempi belli – muore scopando con una ventitreenne romena. Ma quante volte l’abbiamo
già ripetuto questo verbo? Scopare. E temo che dovremo ancora scriverlo, prima di
arrivare a un provvisorio congedo dallo spettro italico dello Zanza. Non vedo
infatti altra figura che meglio di lui possa ricapitolare lo spirito nazionale;
una natura tragica, per nulla gioiosa o giocosa, e ve lo posso confermare dopo
aver intercettato la traiettoria del suo sguardo al Blow Up, che si aggirava seguendo il moto fluttuante delle luci stroboscopiche alla ricerca di nuove conquiste. Uno sguardo mite, bonario, perfino
dolce e quasi timido, niente a che vedere col mattatore variopinto che metteva
in scena. Ma ogni tanto faceva capolino quel suo demone, e come negli occhi di Gatto
Silvestro iniziava a girare una scritta: scopare scopare scopare. Anche dopo trent’anni dal nostro incontro, ancora scopare. In auto. Con una ragazzetta rumena. Finché
il cuore dice basta.
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martedì 18 settembre 2018
La femmina non esiste, o sulla partita a calcio tra eros e civiltà

La donna non esiste. Anzi, la femmina, la
femme n'existe pas, come affermava Lacan con un sorrisetto sornione, dopo
essersi ravvivato la lunga zazzera bianca.
Una provocazione tra le altre buttata lì, con
distratta nonchalance, per vedere di nascosto l'effetto che fa, secondo la
felice formula di una canzone
di Jannacci? No, per il grande psicanalista francese la femmina non esiste
veramente, esplosa nello scontro tra treni che corrono in opposte direzioni. Ma
potremmo, magari con tonalità meno drammatiche, dire lo stesso degli uomini,
che somigliano a un iceberg dove a emergere è solo la settima parte della massa.
Quello è l'Io.
Ciò che reclama la specie è unicamente la
replica di sé, in una riproposizione infinita dell’identico solo minimamente
perfezionato a ogni giro. Siamo insomma ancora dalla parti di Darwin, con
l’umanità vista come una dea bendata che si muove un po’ a tentoni. Un cammino
accidentato dove non viene premiato il più giusto ma, come si dice, il più adatto, che sarà il più sano, forte,
bello, almeno a quel livello lì, che possiamo immaginare come privo di
volumetrie. Ed è così che la specie procede per vie cocciutamente orizzontali,
del tutto disinteressata a ogni verticalità dello spirito.
Ci penserà allora qualcun altro a introdurre
variabili meno materiali, quali ad esempio il potere, la giustizia, il peccato
e la virtù. Questo qualcuno si chiama appunto civiltà, e si occupa della
produzione di un’immagine per tutto ciò – chi coltiva rimpianti
marxisti può anche chiamarla sovrastruttura, o più
burocraticamente codice assiologico. Tra le varie immagini forgiate
dalla civiltà vi è naturalmente anche un prototipo del femminile; che non
coincide con la donna così com'è, attenzione, ma come dovrebbe essere!
La donna reale, la femmina in carne e ossa, è tenuta da quel momento ad adeguarsi al modello, pena la svalutazione sociale sotto forma
di stigma infamante (puttana, cattiva madre, lazzarona), in seguito interiorizzato per il tramite di abili stratagemmi, tra cui quello religioso. Il senso di colpa sta in
fondo tutto qui, come anche il complesso di inferiorità – ho le tette troppo
piccole, ad esempio. Ma rispetto a cosa? Semplice: alla donna che dovrei
essere.
La sostanziale differenza tra uomini e donne
sta nella maggiore divaricazione, per le donne, tra le richieste della
civiltà e quelle che provengono dalla specie. Negli uomini vi è al contrario più allineamento, forse perché la civiltà è stata creata dagli stessi maschi, e non ostacola il piacere maschile al servizio della specie. Ma vediamo come ciò sia stato possibile.
In Occidente l'invenzione
del femminile ha seguito diverse fasi, ma l'esito più influente, e tutt'ora
operante, nasce nelle corti provenzali attorno all'anno mille. Sono stati i
poeti a sillabare il femminile moderno per la prima volta, quindi a precisarlo,
a infiorarlo con caratteri eterei e rarefatti che scontavano un eccesso di
idealizzazione, e ciò per via del fatto che quella donna il più delle volte non era accessibile; non
era insomma la loro fidanzata o moglie, ma la moglie di qualcun altro. Donna
angelicata, dunque, perché dalle mani che vorrebbero afferrarla vola via verso la testa, dove lievita nel sogno a occhi aperti.
Una genealogia
condivisa con il sentimento amoroso, così
come mostrato da Denis
de Rougemont nel suo capolavoro, L'amour
et l'Occident. Il problema è che l'altra parte immersa, quella che fa
capo alle specie, possiede idee del tutto differenti su ciò che debba essere
una femmina, ed è qui che si precisa l'enigmatica sentenza di Lacan. La femmina
non esiste perché, nella nostra tradizione almeno, la sua immagine pubblica è
stata generata da maschi adulti e desideranti, che non hanno però tenuto in
alcun conto delle esigenze concrete che fanno tana nel corpo di una donna. Tra
cui la principale è riprodursi sessualmente, seguendo gli appetiti del tutto
diversi della specie.
Sarà allora nel conflitto tra specie e civiltà che la donna smarrisce definitivamente la sua esistenza, già che le due
voci sono difficilmente compatibili: o ascolta le sirene letterarie dei poeti
provenzali, e diviene sempre più disincarnata, astratta e tanto buonina, come
Lupo de Lupis, oppure condiscende i richiami del suo ventre, che la portano a celebrare la
specie a danno della civiltà che ne ha prodotto l'immagine.
Nella grammatica lacaniana possiamo vedere
contrapporsi queste forze attraverso due altre nozioni, quella di immaginario e
di simbolico. Nella prima il femminile coincide ancora totalmente
con la femmina biologica, e il desiderio non subisce il limite della legge di
castrazione, che come noto è la categoria psicanalitica fondante: non cercare
l'intimità con il corpo della madre, pena l'evirazione da parte del padre.
Una legge che solo in seguito, con
l'accettazione e incorporazione del simbolico, ossia non solo del limite ma
anche delle forme, delle strutture positive che il limite viene a prendere
nell'incontro con il linguaggio, solo in seguito, dicevamo, può agire
dall'interno, trasformando attraverso l’interiorità psichica la femmina in
donna. Ma l'elemento femminile o, meglio ancora, sessuale, nella donna non può
mai venire superato e risolto in immagine pubblica e virtuosa, pena la vanificazione della specie.
Non sarà finissimo, ma nemmeno una forzatura individuare
l'ambiguità di questa condizione in una diffusa pratica erotica, in cui
l'oscillazione del significare prova a coniugare gli opposti, senza mai
trascenderli in dialettica. E si tratta ovviamente della fellatio.
Nell'accostarsi al fallo maschile, la donna, infatti, sembra onorare l'oggetto
simbolico per definizione, nel gesto genuflesso e subalterno del suddito che
bacia lo scettro del sovrano. Ma invece cosa fa, non arresta le labbra alla
superficie, non si ferma allo smagliante luccichio dell’oro zecchino o ai
diamanti che ricoprono l'asta della Legge, ma affonda la sua bocca fino a
incorporarla, a sbranarla, evirando idealmente il maschio e facendo proprio il suo potere, assieme al seme della vita che reclama tutto per sé.
Da questa immagine vietata ai minori di diciotto anni, si
potrebbe provare a sviluppare ulteriormente l'intuizione di Lacan. La
donna, in quel momento, esiste e non esiste allo stesso tempo, come la
particella quantistica nel celebre principio di indeterminazione di Heisenberg.
Nel nostro caso, attribuiremo il collasso della funzione d'onda a un osservatore esterno che coincide con l'intera storia umana, come un enorme occhio in cui oscillano le pupille di tutte le persone venute al mondo, portando la particella
subatomica a dover scegliere tra eros e civiltà, tra specie e società, in
un'infinita fellatio dagli esiti mai conclusi. Quindi attenzione, quando una donna
si china su di voi…
Certo, ci sono state epoche, come l'Ottocento
vittoriano, in cui la specie sembrava stesse per capitolare a vantaggio della
civiltà, e le produzioni astratte e culturali, gli ideali di grazia, di
bellezza, informavano delle loro invenzioni le smanie sommerse della vita. Ma
ora le cose non stanno più a questo modo, e anche le donne, come gli uomini,
come le baccanti di Euripide, si stanno liberando della gabbia simbolica
della civiltà. Ed è il ritorno del rimosso o, più prosaicamente e di frequente, lo smuoversi del capriccio: una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte: ferma restando la salute, come ammoniva Nietzsche dalle pagine dello Zarathustra.
Nel dispiegarsi di un desiderio senza più il
limite contenitivo di alcuna legge, le donne, le femmine, le indeterminate di
genere femminile, hanno così iniziato a sbarazzarsi di quegli orpelli che erano stati
cuciti loro addosso dalla civiltà, stracciando le pudiche gonnelline a riparo delle gambe oscene dei
comò. Abbiamo quindi assistito a un'evirazione su larga scala, via, a morte tutto ciò che prova frapporsi tra le donne e il principio puro
del piacere, e non possiamo non riconoscere che si siano riprese ciò che era loro. E’ come una partita di calcio in cui, dal 1968 in poi, la specie è in vistosa
rimonta sulla civiltà, che ormai vaga in campo del tutto attonita e incapace di
reagire.
E allora bye bye femmine angelicate, Laure, Beatrici, adesso le donne non ricercano ideali estetici o morali, ma estratti conto belli grassi. Oppure cartelle cliniche che certifichino una sana e robusta costituzione, per vivere in un eterno presente fatto di bellezza, forza e gioventù, da coltivare con cure estetiche e sfiancanti sedute di stepping in palestra. Ma è un minimo corredo che richiedono, anzi reclamano anche e soprattutto nei maschi, in una perfetta e realizzata democrazia del desiderio: ci volete fighe per gratificare, oltre al vostro uzzolo, la specie di una progenie degna del dott. Mengele, e noi vi vogliamo fighi. Tutto il resto non ci interessa. Facciamocene dunque una ragione, tanto già sappiamo che la femmina non esiste...
E allora bye bye femmine angelicate, Laure, Beatrici, adesso le donne non ricercano ideali estetici o morali, ma estratti conto belli grassi. Oppure cartelle cliniche che certifichino una sana e robusta costituzione, per vivere in un eterno presente fatto di bellezza, forza e gioventù, da coltivare con cure estetiche e sfiancanti sedute di stepping in palestra. Ma è un minimo corredo che richiedono, anzi reclamano anche e soprattutto nei maschi, in una perfetta e realizzata democrazia del desiderio: ci volete fighe per gratificare, oltre al vostro uzzolo, la specie di una progenie degna del dott. Mengele, e noi vi vogliamo fighi. Tutto il resto non ci interessa. Facciamocene dunque una ragione, tanto già sappiamo che la femmina non esiste...
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domenica 9 settembre 2018
Perle ai porci, o sul fantasma di seduzione
C'è una famosa massima che personalmente e da sempre
detesto. Negli ultimi tempi sto però iniziando a conciliarmi, fuochino direi se si trattasse di un indovinello, se non proprio fuoco, fiamma, incendio. Non dare perle ai porci, dice la massima che detestavo e ora detesto un po' meno.
sabato 8 settembre 2018
Giulio Mozzi, o sull’antipatia come stile letterario
Giulio Mozzi è un bravo scrittore. Ma forse dovrei mutare il tempo
verbale, già che Giulio Mozzi, pur continuando a essere bravo in ciò che fa, da
molto tempo non scrive più. Narrativa, almeno. Eppure il suo semplice ma
puntiglioso registro sintattico, dal tono un po’ introverso che vira spesso
nello stralunato, per raggiungere bizzarre e inquietanti epifanie con ritmo
sempre più lento, bradicardico, e però implacabile come la pedalata di Fausto
Coppi, tutti questi elementi sono ancora riconoscibili in ciò che pubblica.
Testi perlopiù legati alla sua attività editoriale – prefazioni, ad esempio,
quarte di copertina – o di animatore culturale sui social network, dove si
dedica con successo alla didattica narrativa. Ma come potremmo chiamare questa
felice costellazione di segni, che vanno a formare un vero e proprio stile?
Ci ho pensato un po’, e alla fine continua a tornarmi
un’espressione che avrei magari preferito evitare, vista la grande stima che
provo verso l’autore padovano: lo stile, alla Mozzi, è
quello dell’antipatia.
Provo a spiegarmi. Prima della comparsa, intorno alla metà degli
anni novanta, degli scrittori della generazione di Giulio Mozzi, in effetti non
era così. Pensiamo al caso emblematico di Baricco, che pur avendo quasi la
stessa età di Mozzi ha raggiunto il successo con anticipo. In ogni cosa che
scrive o, più in generale, che fa, compreso soffiarsi il naso e arrotolarsi le
maniche della camicia, sempre e rigorosamente bianca, Baricco cerca di essere
simpatico. Ad esempio utilizzando un idioletto giovanile di derivazione
salingeriana (Holden, non a caso si chiama la sua scuola di scrittura),
ammiccando al lettore, sorridendo e ravvivandosi la folta chioma con mani che
seguono a braccia sempre nude, per via delle maniche ravvolte della camicia
bianca di cui sopra. Baricco, insomma, mette simpatia in tutto quello che fa, e
il fatto che a molti sia antipatico è forse perché ce ne mette troppa…
Bene, prendiamo Baricco e facciamogli fare tutto il contrario –
via la camicia bianca, i boccoli, il sorriso sornione, la zeppola, i monologhi
compiaciuti e i dialoghi buffi, via anche e soprattutto lo slang giovanile
misto a citazioni dotte –, e abbiamo Giulio Mozzi. Uno scrittore antipatico, ma
davvero tanto antipatico a partire dalla postura del corpo nelle foto che lo
ritraggono (le mani conserte abbondano), fino al modo pedante e brusco con cui
risponde agli interlocutori. Ricorda, in questo, certi nostri insegnanti di
religione quando venivano incalzati dalle obiezioni ingenue degli alunni. Ma
come, sembravano comunicare con la loro aria pretesca, io parlo tutti i giorni
con Dio e tu al massimo col poster di Chinaglia, che cazzo voj capì…
Eppure questa sua antipatia sempre un po’ burbera e ironica – sì,
si può essere burberi e allo stesso tempo ironici – alla fine conquista il
lettore, che è avvinto dal suo particolare modo di periodare per spirali
avvolgenti e immaginifiche, come un boa che parte dai piedi per raggiungere
infine la testa, in cui il ragionamento si distilla quasi sempre limpido e
chiaro. E’ forse tutto qui, lo stile alla Mozzi: togliere quando ti aspetti che
uno metta, e mettere, continuare a mettere, ma non ha ancora finito? quando ti
aspetti che uno tolga. Uno come Baricco, almeno
Per molto tempo i giovani scrittori italiani alla ricerca di una
lingua che ne rendesse riconoscibile la voce, hanno guardato proprio a lui.
Baricco. Essere simpatici, a tutti i modi, leciti e illeciti, diventò dunque la
loro strategia retorica. Ora però mi sembra che le cose stiano cambiando. Più
che dai romanzi, me ne accorgo dagli interventi rilasciati a getto continuo sui social network. Da baricchiani – leggi, simpaticoni – gli scrittori si stanno
infatti trasformando in mozziani – leggi, antipaticissimi. Non tutti,
naturalmente, ma la percentuale mi sembra significativa, e merita forse una
riflessione supplementare. Proviamoci.
Io trovo che la simpatia somigli alla felicità. Tolstoj
l’attribuiva, nel perfetto incipit di Anna Karenina, alle famiglie con poca
fantasia, già che “tutte le famiglie felici si
somigliano”. Così mi pare che anche gli scrittori simpatici al fondo si
somiglino, e questo è in qualche modo naturale. Al contrario, l’antipatia si
basa su una particolare forma di differenza, non
si può essere tutti antipatici allo stesso modo, pena l’uscita dall’antipatia
per entrare in un diverso sentimento. La noia. Secondo lo stesso schema
tolstojano, l’antipatia ricorda piuttosto l’infelicità, per cui ogni famiglia
infelice – continua nel suo capolavoro lo scrittore russo, non troppo
simpatico neppure lui – è disgraziata a modo suo. E così lo dovrebbe essere ogni antipatico, che deve
trovare il modo di differenziarsi non solo dai simpatici, come hanno saputo
fare Tolstoj e Giulio Mozzi, ma da tutti gli altri antipatici.
Se da lettore non provavo particolare entusiasmo nell'imbattermi in tutti questi scrittori simpatici, avverto dunque un imbarazzo
persino maggiore quando adesso leggo dei testi scritti alla maniera di Giulio Mozzi. Va bene, siete
corrucciati, tortuosi, attraversati da travagli metafisici e pure un po’ stronzetti
(Mozzi sa essere generosissimo, per inciso e a differenza vostra), ma la
ripetitività di questa postura mi allontana dalla pagina. Con Mozzi, quello vero, con il bollino blu come la banana Ciquita, non
è stato così, dal momento che la sua antipatia possedeva un tratto inaugurale. Da cui la sensazione, vivificante, di mostrare le cose da un punto di vista alternativo, dove a essere
illuminato era il lato oscuro della luna di Baricco.
Ora però l’effetto sorpresa si è esaurito e prevale una vaga percezione di fastidio, come quando il tormentone dell’estate precedente viene riproposto dal disc jockey poco esperto. In anni ancora recenti si è sperimentato qualcosa di simile con l’espressione signora mia. Promossa, con estrosa mimesi, da Arbasino, e poi finita in logoro cliché neoavanguardistico. No, non se ne può più di signora mia, signora mia basta! E così pur continuando a considerare Giulio Mozzi un antipatico di talento, comincio a non poterne più dei suoi numerosi cloni, che spadroneggiano sempre un po’ scostanti e presupponenti sul web, anche in versione femminile. Ridatemi piuttosto Baricco e la sua innegabile simpatia, se non riuscite a darmi la vostra unica e insostituibile voce.
Ora però l’effetto sorpresa si è esaurito e prevale una vaga percezione di fastidio, come quando il tormentone dell’estate precedente viene riproposto dal disc jockey poco esperto. In anni ancora recenti si è sperimentato qualcosa di simile con l’espressione signora mia. Promossa, con estrosa mimesi, da Arbasino, e poi finita in logoro cliché neoavanguardistico. No, non se ne può più di signora mia, signora mia basta! E così pur continuando a considerare Giulio Mozzi un antipatico di talento, comincio a non poterne più dei suoi numerosi cloni, che spadroneggiano sempre un po’ scostanti e presupponenti sul web, anche in versione femminile. Ridatemi piuttosto Baricco e la sua innegabile simpatia, se non riuscite a darmi la vostra unica e insostituibile voce.
venerdì 7 settembre 2018
200, o sui popoli e le parole

Ma ci serviranno poi davvero, tutte queste parole?
Nel 1976 deve esserselo chiesto anche Tullio de Mauro, e ha così indagato la competenza linguistica di un ventenne tipo; non di un bracciante lucano, per intendersi, un ragazzo che ha seguito studi regolari, senza magari brillare. Dopo aver campionato oltre 50.000 giovani italiani, ha concluso che il numero di vocaboli padroneggiati si aggirava intorno a 1600. E sembrano pochissimi, lo 0,6% del totale, al punto che dopo vent’anni a Tullio de Mauro sorse probabilmente qualche dubbio – mi sarò sbagliato? – e rifece l'indagine. Con suo stupore, il numero era però sceso a 640. Ma poco prima di morire, nel 2017, il famoso linguista si mostrò ancora più pessimista, e a un intervistatore dichiarò che il capitale lessicale dei ragazzi si era a suo avviso ridotto ulteriormente, lo stimava ora attorno ai 200 vocaboli. Duecento, ho riletto bene, non ci credevo, e cosa ci fai con duecento vocaboli?!
Ordini un panino da McDonald's, d’accordo, ma mi raccomando non gli si chieda se desidera salsa tartara oppure tabasco, già che il ventenne 2.0 conoscerà al massimo la parola maionese o se va di lusso ketchup; non ci scommetterei però, probabile che chiami quest’ultima salsa rossa. Quindi avrà in memoria qualche termine elementare, quelli che ti fanno studiare alle prime lezioni dei corsi di lingue – il cane è sotto il tavolo, il libro è sopra il tavolo – e davvero poco altro. Di leggere un giornale, con duecento vocaboli, non se ne parla proprio, tutt'al più ci fai un cappellino di carta. A stento riesci a comprendere il telegiornale, ma giusto perché ti aiutano le espressioni del viso del conduttore e il suo tono di voce, oltre alle immagini del servizio. Poi basta, finita qui.
Dunque totale incapacità di dar forma verbale alle proprie emozioni, e a maggior ragione di sviluppare un pensiero civile, collegando fatti concreti a principi etici astratti e generali; ma bisognerebbe conoscerlo l’aggettivo etico, anche in forma di sostantivo, che dubito essere presente nel minimo corredo lessicale dei nostri cuccioli. Allo stesso modo della parola afasia, la cui a privativa impedisce alla voce di articolarsi in forma, e quindi in senso. Quel che rimane è il suono introverso e gorgogliante di certi frigoriferi nel cuore nella notte, che sembra vogliano dirci qualcosa. Ma quando infine ti alzi, li raggiungi, ok, dimmi, cosa c'è, ci trovi solo il Tetra Pack di un succo di frutta aperto, da cui prendi una sorsata prima di tornare a letto ciabattando.
Un filosofo austriaco del secolo scorso, Ludwig Wittgenstein, avrebbe chiosato il tutto con un suo celebre motto: the borders of my language are the borders of my world. Sì, i confini della mia lingua sono i confini del mio mondo. Il problema è che i confini della lingua dei ragazzi che incontri quando prendi l’autobus, il tram, o in ascensore come quel tipetto col ciuffo che scende sempre al terzo piano e ti sfila davanti ascoltando musica con le cuffiette del telefonino, i confini linguistici anche di tuo figlio e di tuo nipote sono diventati piccoli, ormai ben più piccoli di quelli geografici, tanto che non riescono neppure ad avventurarsi oltre la soglia del proprio gruppo su un social network. Mi spiegava un amico che ora Instagram sta spodestando Facebook, già che non c’è nemmeno più bisogno di scrivere “ehi raga come butta”, basta postare una foto con espressione tra il languido e il corrucciato e attendere il fiorire dei consensi.
Fosse anche solo per questa ragione, se ne ricava che l’immigrazione da altri paesi non è più arrestabile, perfino quella cosiddetta selvaggia. Ma siamo sicuri che sia una brutta notizia, e non ci convenga invece fare come i banditori dei circhi che spuntano in provincia a primavera, insieme ai primi giaggioli? Massì, venghino siori, venghino, le gabbie sono aperte ma pochissimi gli animali autoctoni che abbiano il sacrosanto impulso della fuga. Lo sapete, ad esempio, quanti caratteri, non vocaboli, dico proprio caratteri, contiene la lingua cinese? Ve lo dico io: 56.000. Certo, anche loro non li conoscono tutti, ma è stato stimato che un bambino cinese di sei anni padroneggia già 2.500 caratteri, che salgono a circa 3.500 nell’adolescenza, e cioè a un’età equivalente a quella in cui i somari italiani arrivano a stento a 200 parole. Per non dire degli africani che sbarcano qui già parlando due o tre lingue (francese, inglese e quella del paese di provenienza), a cui si aggiunge in breve tempo l’italiano, con una quantità di termini che di certo supera la taglia nostrana. Un'extra small, naturalmente.
Nella sequenza di un film dei primi anni sessanta, Pasolini faceva pronunciare a Orson Wels una desolata considerazione sullo stato deisuoi connazionali – “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa” –, ma cosa dovremmo dire adesso? La contrazione linguistica in corso ci porta a dover appaltare ad altre voci il nostro Paese. Qualcuno, magari proprio quell’Ali dagli occhi azzurri, uno dei tanti figli di figli che invocava lo stesso Pasolini in una lirica tardiva, qualcuno che sappia ancora dire mare, costa, chiesa, basalto, tripode, bellezza. Soprattutto bellezza.
Uomini e donne dunque, che insieme fanno bambini – non solo figli unici – e i bambini parole. Non importa chi e quale sarà il colore della loro pelle, ma bisogna fare presto. Dai navi allora, gommoni, remi, presto! A sbarcate altri popoli alle prime luci dell’alba, gente ossuta intrisa di salsedine, in quel silenzio che non è fine ma principio, inizio di ogni vocabolario. Perché prima di parlare, prima della voce, vengono i denti, per mangiare oppure per mordere. Non importa. Nemmeno se saranno barbari, cinesi, guerrieri masai o arcieri ostrogoti. Venga chiunque abbia ancora parole per nominare le cose, già che i nostri figli, le stesse facce ottuse delle madri, quando escono rilassate e sempre più belle dal corso di yoga, la stessa Fred Perry dal collo rialzato presa dall’armadio di papà, non le sanno più dire.
Nel 1976 deve esserselo chiesto anche Tullio de Mauro, e ha così indagato la competenza linguistica di un ventenne tipo; non di un bracciante lucano, per intendersi, un ragazzo che ha seguito studi regolari, senza magari brillare. Dopo aver campionato oltre 50.000 giovani italiani, ha concluso che il numero di vocaboli padroneggiati si aggirava intorno a 1600. E sembrano pochissimi, lo 0,6% del totale, al punto che dopo vent’anni a Tullio de Mauro sorse probabilmente qualche dubbio – mi sarò sbagliato? – e rifece l'indagine. Con suo stupore, il numero era però sceso a 640. Ma poco prima di morire, nel 2017, il famoso linguista si mostrò ancora più pessimista, e a un intervistatore dichiarò che il capitale lessicale dei ragazzi si era a suo avviso ridotto ulteriormente, lo stimava ora attorno ai 200 vocaboli. Duecento, ho riletto bene, non ci credevo, e cosa ci fai con duecento vocaboli?!
Ordini un panino da McDonald's, d’accordo, ma mi raccomando non gli si chieda se desidera salsa tartara oppure tabasco, già che il ventenne 2.0 conoscerà al massimo la parola maionese o se va di lusso ketchup; non ci scommetterei però, probabile che chiami quest’ultima salsa rossa. Quindi avrà in memoria qualche termine elementare, quelli che ti fanno studiare alle prime lezioni dei corsi di lingue – il cane è sotto il tavolo, il libro è sopra il tavolo – e davvero poco altro. Di leggere un giornale, con duecento vocaboli, non se ne parla proprio, tutt'al più ci fai un cappellino di carta. A stento riesci a comprendere il telegiornale, ma giusto perché ti aiutano le espressioni del viso del conduttore e il suo tono di voce, oltre alle immagini del servizio. Poi basta, finita qui.
Dunque totale incapacità di dar forma verbale alle proprie emozioni, e a maggior ragione di sviluppare un pensiero civile, collegando fatti concreti a principi etici astratti e generali; ma bisognerebbe conoscerlo l’aggettivo etico, anche in forma di sostantivo, che dubito essere presente nel minimo corredo lessicale dei nostri cuccioli. Allo stesso modo della parola afasia, la cui a privativa impedisce alla voce di articolarsi in forma, e quindi in senso. Quel che rimane è il suono introverso e gorgogliante di certi frigoriferi nel cuore nella notte, che sembra vogliano dirci qualcosa. Ma quando infine ti alzi, li raggiungi, ok, dimmi, cosa c'è, ci trovi solo il Tetra Pack di un succo di frutta aperto, da cui prendi una sorsata prima di tornare a letto ciabattando.
Un filosofo austriaco del secolo scorso, Ludwig Wittgenstein, avrebbe chiosato il tutto con un suo celebre motto: the borders of my language are the borders of my world. Sì, i confini della mia lingua sono i confini del mio mondo. Il problema è che i confini della lingua dei ragazzi che incontri quando prendi l’autobus, il tram, o in ascensore come quel tipetto col ciuffo che scende sempre al terzo piano e ti sfila davanti ascoltando musica con le cuffiette del telefonino, i confini linguistici anche di tuo figlio e di tuo nipote sono diventati piccoli, ormai ben più piccoli di quelli geografici, tanto che non riescono neppure ad avventurarsi oltre la soglia del proprio gruppo su un social network. Mi spiegava un amico che ora Instagram sta spodestando Facebook, già che non c’è nemmeno più bisogno di scrivere “ehi raga come butta”, basta postare una foto con espressione tra il languido e il corrucciato e attendere il fiorire dei consensi.
Fosse anche solo per questa ragione, se ne ricava che l’immigrazione da altri paesi non è più arrestabile, perfino quella cosiddetta selvaggia. Ma siamo sicuri che sia una brutta notizia, e non ci convenga invece fare come i banditori dei circhi che spuntano in provincia a primavera, insieme ai primi giaggioli? Massì, venghino siori, venghino, le gabbie sono aperte ma pochissimi gli animali autoctoni che abbiano il sacrosanto impulso della fuga. Lo sapete, ad esempio, quanti caratteri, non vocaboli, dico proprio caratteri, contiene la lingua cinese? Ve lo dico io: 56.000. Certo, anche loro non li conoscono tutti, ma è stato stimato che un bambino cinese di sei anni padroneggia già 2.500 caratteri, che salgono a circa 3.500 nell’adolescenza, e cioè a un’età equivalente a quella in cui i somari italiani arrivano a stento a 200 parole. Per non dire degli africani che sbarcano qui già parlando due o tre lingue (francese, inglese e quella del paese di provenienza), a cui si aggiunge in breve tempo l’italiano, con una quantità di termini che di certo supera la taglia nostrana. Un'extra small, naturalmente.
Nella sequenza di un film dei primi anni sessanta, Pasolini faceva pronunciare a Orson Wels una desolata considerazione sullo stato deisuoi connazionali – “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa” –, ma cosa dovremmo dire adesso? La contrazione linguistica in corso ci porta a dover appaltare ad altre voci il nostro Paese. Qualcuno, magari proprio quell’Ali dagli occhi azzurri, uno dei tanti figli di figli che invocava lo stesso Pasolini in una lirica tardiva, qualcuno che sappia ancora dire mare, costa, chiesa, basalto, tripode, bellezza. Soprattutto bellezza.
Uomini e donne dunque, che insieme fanno bambini – non solo figli unici – e i bambini parole. Non importa chi e quale sarà il colore della loro pelle, ma bisogna fare presto. Dai navi allora, gommoni, remi, presto! A sbarcate altri popoli alle prime luci dell’alba, gente ossuta intrisa di salsedine, in quel silenzio che non è fine ma principio, inizio di ogni vocabolario. Perché prima di parlare, prima della voce, vengono i denti, per mangiare oppure per mordere. Non importa. Nemmeno se saranno barbari, cinesi, guerrieri masai o arcieri ostrogoti. Venga chiunque abbia ancora parole per nominare le cose, già che i nostri figli, le stesse facce ottuse delle madri, quando escono rilassate e sempre più belle dal corso di yoga, la stessa Fred Perry dal collo rialzato presa dall’armadio di papà, non le sanno più dire.
mercoledì 5 settembre 2018
Calcio e filosofia, o sui travestimenti del nichilismo

Più tardi è il turno di Bobo Vieri, il quale assume la stupidità irriverente e baldanzosa – un tipo umano che alle medie era incarnato dal pluriripetente, lo si può visualizzare appoggiato allo stipite della porta dei bagni con una Marlboro che pende spenta al lato della bocca – per convertirla in nuovo modello di comportamento giovanile, di cui passerà in seguito il testimone a Mario Balotelli. Ora è il turno dello sdoganamento del narcisismo, attraverso la tartaruga addominale di Cristiano Ronaldo, e dell’anaffettività introversa e un po’ tignosa, che con tutta evidenza ci comunica l’espressione vacante di Leo Messi.
Potremmo dire che il calcio sia il moderno lenzuolo con cui si traveste il fantasma tardo ottocentesco del nichilismo; Nietzsche lo faceva coincidere con la trasvalutazione di tutti valori, aggiungendo che con ciò si realizza la “vittoria della morale degli schiavi”. Non è difficile, lo sport rende la filosofia molto più semplice e accessibile: Maradona, senza il calcio, sarebbe rimasto una sorta di schiavo del sistema di produzione post industriale, confinato in un barrio vagamente equivoco di Buenos Aires, dove si sarebbe prodotto in spacconate sempre più logore e autolesionistiche. E così Messi, Vieri, Ronaldo, Balotelli. Tutte persone che, per ambiente familiare, cultura, atteggiamento, in una società tradizionale verrebbero confinate all’orlo irrilevante della vita, e ora invece ne guadagnano la piazza centrale. Se ne ricava che il calcio rappresenti l’ultima utopia rivoluzionaria sopravvissuta agli scossoni della storia, in grado di trasformare il rospo in principe, e il brutto anatroccolo in cigno.
Ma a questo primo dato umanamente progressivo – in fondo il talento e l'estro calcistico non si ereditano per continuità dinastica –, si accompagna un effetto perlopiù trascurato. Con il loro esempio amplificato dai ripetitori televisivi e largamente seguito, o meglio inseguito, senza venire mai raggiunto, i nuovi miti sportivi trasformano infatti anche l’idea platonica di cigno e di principe, sempre più simile a un rospo. Facendo passare l’illusione che non solo ogni scarafone sia bello a mamma sua, ma bello in quanto scarafone, e ogni rospo abbia così diritto a una principessa. Cosa purtroppo non vera.
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Calvizie, o sulla memoria a lungo termine
Nei film storici dei
secoli a venire, ammesso che di film si possa ancora parlare, verremo
rappresentati, non senza un'affettuosa ironia, come l'ultima generazione con
gli occhiali da vista e i capelli radi e incanutiti o, peggio, la tonsura
clericale da calvizie, prima della scoperta di una cura definitiva a queste
arcaiche patologie. Non vedo molte altre ragioni per essere ricordati.
Parla come mangi, o sulla superbia

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martedì 4 settembre 2018
Happy wedding o vaffanculo...? Parliamone, con Andrea Colamedici

Mi è però capitato ieri – conversare da posizioni
antitetiche senza sbranarsi o ignorarsi, per quanto neppure convergere in una
pigra dialettica degli opposti –, e benché dovrei avere ormai imparato che una
rondine non fa primavera, l’attualità del tema mi suggerisce di ripubblicare
qui l’intera e conversazione. Che nasce dal seguente post su Facebook dell’editore
e filosofo Andrea Colamedici, a commento del matrimonio tra Fedez e Chiara Ferragni:
Cari
spin doctor e finissimi strateghi, voi che cercate idee per risorgere e mettere
al mondo discorsi nuovi, coinvolgenti e affascinanti, che spazzino via la rabbia,
il risentimento e l’odio tra esseri umani: studiatevi Chiara Ferragni. Passate
qualche giornata ad analizzare il suo matrimonio con Fedez, a guardare tanto i
numeri (di persone coinvolte, di sponsor, di ricadute economiche) quanto la
sostanza: di cosa è fatto quel matrimonio? Di felicità, di festa, di
spensieratezza, ma anche di cazzeggio, di gioco, di estetica, di studio. Una
narrazione perfetta che ha fatto dimenticare a tutti per tre gironi di seguire
la linea del risentimento. Implementate quel sogno nei vostri ideali e li
vedrete brillare. Senza l’entusiasmo e il desiderio non c’è speranza. Perché
soltanto il tempo della festa e dell’insurrezione, come spiegava Furio Jesi,
può opporsi alla religione della morte.
Commento, tra i molti, di Guido Hauser:
Trovo questo post
vagamente equivoco, in particolare per la confusione, per dirla con Lacan, tra
il piano del simbolico e quello dell'immaginario. Ciò che qui viene detta,
implicitamente spregiandola, "linea del risentimento", contiene
infatti un seme fecondo di realtà; fecondo perché in grado di maturare dal puro
risentimento, emotivo e dunque sterile, al riconoscimento del conflitto, da cui
derivare un gesto a cui seguano altri gesti, un sasso che squarci la tela opaca del consenso, o ancora meglio un comportamento strategico e finalizzato. Al contrario, nel matrimonio spettacolare
o, più propriamente, spettacolo matrimoniale tra la Ferragni e Fedez, il
simbolico inteso quale codice da cui ogni potere trae la sua occulta legittimità, è
messo già da subito fuori gioco, lasciando definitivamente posto
all'immaginario, al sogno, la rêverie. Che coincide con una delle mitologie
più arcaiche e fruste: la ierofania laica tra la bella blogger che si è fatta
tutta da sé, come si dice dal basso, e il principe altrettanto bello e famoso e
partito dal nulla di una periferia, per iscrivere i suoi tatuaggi nell’Olimpo
della rappresentazione. Ma l'emozione fa velo a una struttura sottostante (e
rieccolo il potere, il simbolico…), che, come nell’eccezione del carnevale,
ratifica l’ordine feriale, già che la trasgressione celebra immancabilmente
qualche regola. Nel caso quella di un presunto precetto
ontologico, prima ancora che sociale, per cui ciò che sta sopra deve rimanere
separato da ciò che sta sotto, i belli dai brutti, i vincenti dagli sfigati,
nella neolingua trionfante anche detti "comunisti". E chi insegnò a
smascherare questa macchina mitologica (sempre propizia al potere) fu proprio
Furio Jesi. Qui citato, sia detto senza polemica, un po' a sproposito.
Risposta di Andrea Colamedici:
Vedi,
potrei risponderti specificando che il reale è un'effrazione e quindi non si
può dire, a differenza del simbolico e dell'immaginario, e da qui mille altri
saltimbocca che rasserenerebbero la mia e la tua elucubrazione. Però ti dico:
dai un'occhiata alle stories di Chiara Ferragni. Poi dai un'occhiata alla
comunicazione intellettuale, politica, letteraria italiana e ti accorgerai di
come, a brevissimo, di Lacan e Jesi non resteranno neanche le nostre citazioni
a sproposito, se qualcuno non si prende la briga di uscire di casa e accettare
la sfida.
Guido Hauser:
Andrea,
come ho scritto io la penso diversamente, all’opposto proprio. Non credo,
insomma, che il punto sia intercettare e quindi far lievitare l'emozione
popolare; per dirigerla, magari, in una direzione alternativa e virtuosa. Ce ne
sono già fin troppe, di emozioni. Ce ne sono ovunque. Ed è pericolosissimo
cercare di fare i pifferai delle emozioni altrui, almeno quanto impastare torte con il lievito della mitologia, non a caso De Angeli... Ed è lo stesso tentativo magico di Topolino apprendista stregone,
il quale finisce con l’allagare tutto utilizzando delle scope vivificate (da cosa? Ma dall'emozione fantastica, naturalmente) per
trasportare secchi colmi d’acqua. Asciugare piuttosto, far decantare l'emozione come
un attore al culmine drammatico di una messa in scena brechtiana. Se poi mi
dici che, oggi, con Brecht si perde e con Fedez Ferragni si vince, sono
d'accordo. Ma in questo io sono hegeliano, e tra vincere salendo sul carro
emotivo (e immaginario) di Fedez o aspettare il prossimo tram, io aspetto il tram. Fosse anche quello su cui viaggia Godot…
Andrea Colamedici:
Guido,
è che a forza di rinnegare le emozioni ci giochiamo i sentimenti. D'altra parte
resto un platonico, anche se tradito: i miti s'hanno da fare, non c'è scampo.
Platone si accorse che il suo mondo stava crollando perché i miti/colonne che
aveva intorno erano pieni di crepe. Costruì (inventò) quindi altri miti, più
robusti e altrettanto immaginari. "Queste cose non avvennero mai, ma sono
sempre", scriveva a proposito Sallustio. C'è da guardare al non avvenuto non
perché accadrà (non accadrà), ma perché è. Buonanotte!
Guido Hauser:
Concedendo,
con un po' di generosità, a Fedez e Ferragni un sentimento vero, spuntato non
si sa bene come nel bouquet di cartapesta che ci mostrano orgogliosi e commossi,
credi che per le altre decine di migliaia di persone coinvolte nel e
dall'evento, davvero si possa parlare di sentimenti e non di emulazione degli
stessi, secondo lo schema nietzschiano che porta a distinguere tra desiderio e
vogliuzza ("una vogliuzza oggi, una vogliuzza domani, fermo restando la
salute")? Io penso, ecco, che tu abbia semplicemente utilizzato una
metafora poco felice, o se preferisci un mito degradato. Se ce ne sbarazziamo e
torniamo alle parole nude e crude, forse le nostre posizioni potrebbero riavvicinarsi,
se non ancora convergere. Ad esempio, invece di emozioni o sentimenti, apriamo
il vocabolario alla parola passione, che io trovo estremamente realistica, per
nulla immaginaria o mitologica. Lo stesso realismo che faceva dire a Sartre:
"passione è patire l'altro, è la consapevolezza che la nostra possibilità
di trascenderci è legata alla libertà dell'altro". Passione, libertà e
autotrascendimento. Queste sono dunque le tre parole che io butto sul piatto,
come il giocatore di poker che invece di lasciare rilancia. E che davvero
fatico a coniugare con il matrimonio show di questi giorni… (Buonanotte a te!)
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