martedì 24 aprile 2012

Ti volevo un attimo briffare, o sulla lingua dell'Altro


"Ti volevo un attimo briffare sulla cosa". Ecco, non c'è probabilmente bisogno di aggiungere alcun commento. Niente, almeno, su ciò che da tale stralcio di conversazione telefonica si deduce, ma piuttosto sul come, sulle parole con cui si dice. Neppure è tanto importante sapere che a pronunciarle, in questo caso, è Nicole Minetti parlando con l'amica di una serata da organizzare con il Presidente del consiglio, quello ancora in carica quando le due ragazze programmano il festino. Sarebbe sufficiente se anche fosse stato un ragazzetto di quindici anni chattando su facebook, o la vicina di tappetino durante una lezione di Pilates, ti volevo un attimo briffare sulla cosa, questa non è più lingua italiana ma una diversa manifestazione vocale. Cerchiamo di capire.

Quelli che tutti giornali riportano, e noi con loro, sono con ogni evidenza altri suoni, altri segni e soprattutto altrimenti da come noi ci autopercepiamo nei confronti di un ideale interlocutore, senza con ciò volere emettere alcuna sentenza morale su chi si esprime in tal modo. Una sensazione di totale estraneità, di incomprensione radicale che a chi legge questo blog sarà di certo già capitata. Ma non possiamo negare anche una sorta di risentimento interiore, se vogliamo anche un po' snob, che trova ad esempio espressione nel cinema di Nanni Moretti, e in particolare nel suo urlo liberatorio al termine di una memorabile sequenza di Palombella rossa, così rivolgendosi a una giornalista particolarmente disinvolta: "Ma come parla, come parla... le parole sono importanti: COME PARLA!?"

A maggior ragione tale sensazione, da fisica, viscerale, si farà strada nel pensiero se facciamo tesoro di quanto linguistica e antropologia sostengono riguardo la funzione aggregante di un idioma, riconosciuto quale principale fondamento di una comunità umana strutturata, con il suo ethos che discende dai dispositivi significanti della lingua stessa.

Non siamo infatti noi a parlare originariamente una lingua, ma da essa siamo come parlati, preintenzionati, diretti attraverso i codici inerenti quella specifica modulazione verbale, ad articolare il discorso prima ancora che apriamo bocca. Ed è dunque sempre la nostra vecchia lingua, con le sue strutture sintattiche, vocalità acquisite, radici semantiche occulte a rilasciare il sovrasenso di cui è portatrice ogni singola parola, dopo che questo si sia sedimentato nei calchi fono-grafici di una cultura viva e radiante, allo stesso modo di una pietra rimasta esposta al calore per molto tempo.

Oppure possiamo immaginare un linguaggio come una cialda di Alka-Seltzer, che si discioglie in bollicine a contatto con l'acqua del bicchiere. Bene, se la pasticca è la lingua l'acqua che l'attiva sarà allora l'esperienza concreta dei singoli parlanti, mentre le pareti solide del bicchiere saranno quelle normative e giuridiche dei saperei costituiti, che ne limitano l'azione in una forma ora nuovamente pubblica e controllata dalle istituzioni (l'Università, in primis).

Il celebre psicanalista francese Jacques Lacan chiamava, al solito enigmaticamente, Grand Autre tale giacimento linguistico di significato, con un nome che ne rimarca l'irriducibile alterità. Ma in fondo la sua lambiccata riflessione contiene un'intuizione perfino elementare. C'è infatti il mondo, che è per definizione altro da noi, quale luogo dell'esperienza. Esiste poi la percezione che rappresenta il nostro proprio. Quindi c'è il significato da assegnare alla percezione che discende dall'esperienza, e in cui Lacan ha visto qualcosa come un altro di carattere più generale e condiviso, un Grande Altro, a sottolineare come nel processo di significazione entrino in gioco categorie che esorbitano il soggetto titolare del processo di nominazione, e che sono ereditate quale sorta di dna di ogni lingua.

Il Grande Altro, detta diversamente, rappresenta il codice simbolico che precede e quindi informa il giudizio - estetico, morale, perfino logico, alle volte - ed è dunque il campo in cui è primariamente insediata la contesa del Potere. Il Potere si nasconde insomma nel risvolto delle parole, pronto a sgusciar fuori quando meno te l'aspetti, come l'asso dalla manica del baro.

E così Nicole Minetti, quando briffa per telefono l'amica sulla cosa, manifesta probabilmente oltre le sue intenzioni la natura aliena del linguaggio, che produce e ricapitola le dinamiche vecchie e nuove del Potere. Vecchie e nuove, sì, perché Minetti e chi parla nello stesso modo, così dicendo dichiara la sorgente altra del suo Grande Altro, se ci perdonate il bisticcio di parole. Una sorta di alterità al quadrato: il suo altro è altro da lei ma anche dal nostro altro, direbbe ancora Lacan aggrottando le folte ciglia, ossia divergente dai poteri consolidati in antiche grammatiche ed esausti galatei.

Diversamente, quella che sgorga garrula dagli infiniti cellulari posti sotto controllo per poi colare, sempre più vischiosa, nelle pagine dei giornali e tra le maglie del web, è una neo-lingua smozzicata e intrisa di anglicismi, ormai distante dalle facoltà umane di riconoscimento reciproco. Un po' come il palloncino che si congeda dalle mani di un bimbo distratto: un puntino bianco che si confonde con le nuvole soffici e chiare, prima di disperdersi nel blu.

Ma se per il bambino è già pronto l'uomo dei palloncini con la bombola satura di elio, nella divaricazione babelica e postmoderna dei linguaggi viene a mancare quella comune radice linguistica che è fonte del patto sociale, rendendo impraticabile anche il lavoro di sillabazione della politica. Dato un medesimo sfondo, un comune panorama simbolico di riferimento, il gesto politico cerca infatti di indirizzare la discussione verso un recupero impossibile della parola parlata - un gesto perciò sempre rinviato, in fieri -, forzandola dentro gli argini fasulli del concetto.

In ogni caso, questo slancio ottimistico della volontà verbale, benché utopico, non è del tutto vano, perché produce azione sociale e trasformazione storica, concorrendo così alla gestazione di nuovi nuclei significanti, che si depositeranno anch'essi nella lingua modificandone progressivamente i simboli e le strutture.

Ma il movimento della politica non può fondarsi unicamente sulla razionalità discorsiva, riuscendo a dispiegarsi solo a partire da quella convergenza simbolica che, come abbiamo visto, scava la sua tana dentro la caverna ombrosa di ogni lingua. Non è dunque una casualità se anche la prassi democratica prevede alcune forme di ostracismo - la messa al bando di partiti e movimenti che si richiamino espressamente al Nazismo, ad esempio -, già che senza una concordanza grammaticale non può nemmeno esserci lo scioglimento sintattico prodotto dalla dialettica delle parti, ma solo un conflitto pre-razionale tra brontolii semantici tra loro inconciliabili.

O se preferite, la democrazia contiene al suo interno un nucleo non negoziabile di Potere, che, per essere efficiente e riprendendo una metafora cara a Jean Baudrillard, deve rimanere sigillato dentro le pareti occulte della lingua, così come i lingotti d'oro vengono seppelliti nei forzieri delle banche centrali. Tale gesto di sostituzione assicura al sistema economico l'autorità del suo ordine formale, mentre nel linguaggio - sempre fondato su una sostituzione - sì dà la circolazione delle opinioni in parte però già preformate. Di conseguenza anche la lingua, senza un giacimento aurifero sottratto all'evidenza, si consegna all'inflazione dei significati, insieme alla comunicazione che equivarrà allora alla lieve e contingente oscillazione valutaria. Sempre arginata dai limiti taciuti del Potere, sia chiaro.

Ecco, io trovo allora che le parole di  Nicole Minetti, per quanto estorte da una conversazione privata, testimonino il raggiungimento di tale livello zero della comunicazione, che conduce a un'impasse dell'economia sociale: tra noi e loro, tra il nostro altro e il loro altro, sono venuti meno i codici linguistici di raccordo. E dunque anche una politica fondata sulla logica e la mediazione discorsiva, a queste condizioni, non è più praticabile. Perciò la nuova politica si offre solo nelle forme del dominio e dell'insubordinazione: o stai con quelli che briffano e cosano, o stai contro di loro per vincerli, cacciarli dal tempio, imporre il sigillo del tuo verbo sopra a quel che le orecchie intendono come la miseria del loro balbettare.

Una politica ulteriore, già che la nozione di novità è ormai ostaggio permanente del marketing elettorale, si darà allora solamente nelle forme agite del conflitto sociale. Oppure - ma qui siamo in piena utopia edificante - in quelle meditate dello studio, della conoscenza, del lento e faticoso ripristino di una lingua veicolare, in cui tutti possano nuovamente riconoscersi e comunicare. Ma forse, più realisticamente, sarà lingua di "cose da briffare". E allora dovrà essere la pigrizia nostalgica di un rassicurante petrarchismo a essere accompagnata alla porta dalla caotica vitalità dei nuovi barbari. Dal momento che posti in piedi, a questo eterno show che si rinnova tra la laringe e il palato, non se ne danno.

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