domenica 29 aprile 2012

A ciascuno il suo, o sulla misura verbale delle nostre spalle

Ieri stavo per dire una cosa bruttissima. Ho incontrato a un concerto degli Alligator Nail una giovane donna che conosco da tempo. Non siamo propriamente amici, ma insomma.  Mi è comunque molto simpatica, anche se l'avverto come definitivamente lontana dai miei pensieri, i miei gusti, ossia da quel fragile castello di carte che nei momenti di maggiore ottimismo chiamiamo io.

Lei a un tratto e senza un apparente accordo al contesto, mi dice: Non ho ancora avuto il tempo di dare un'occhiata a quel che scrivi. E io - ecco la cosa bruttissima - stavo per risponderle: Va bene così, non preoccuparti. Forse è anche meglio. Non sei tu quella a cui mi rivolgo quando pigio le dita su una tastiera.

Risposta che per fortuna non è uscita dalle mie labbra, ed è stata intercettata con anticipo dai gendarmi che sorvegliano la dogana dell'espressione. Ma forse proprio perché bloccata a questo modo, senza i documenti di un accettabile galateo, la frase è rimasta per molto tempo a ciondolare sul confine delle mie certezze, in attesa di una risposta più persuasiva. Che è dunque l'oggetto della mia riflessione attuale.

E' vero, è inutile essere ipocriti: ci sono alcune persone che vengono escluse dalle intenzioni dei nostri gesti, siano essi fisici o comunicativi. I pubblicitari questa condizione la conoscono benissimo, e la chiamano target. Ma anche in linguistica, da molto tempo, si è fatta spazio una simile intuizione, ricapitolata dentro la nozione di lettore implicito. Ogni esercizio narrativo somiglia insomma a una lettera: non si scrive qualcosa ma si scrive a qualcuno, nella migliore delle ipotesi a molti, ma mai a tutti.

Per travasare i propri pensieri sopra a un foglio - elettronico o cartaceo poco importa - è dunque necessario uno sforzo preliminare. Quello di collocare al centro del palcoscenico dell'immaginazione un interlocutore potenziale, uno soltanto, con i suoi tic e le sue manie, appetiti e idiosincrasie, un soggetto astratto ma pienamente definito in ogni suo aspetto, che con le nostre parole ci assumiamo l'impegno di prendere per mano e condurre a un ideale accordo tra di noi.

In una bellissima e recente conversazione pubblicata sul web, il famoso psicanalista Massimo Recalcati dichiara di essere stato un bambino con grossi disturbi di comprensione, uno dei pochi ancora bocciati nel corso scolastico elementare, ammette senza i falsi pudori dello status acquisito. Per questa ragione, aggiunge, ora sente il bisogno di depurare il pensiero di Lacan dalle sue vezzose tortuosità, restituendolo nel modo più semplice e chiaro. E ciò come se dovesse farlo comprendere, nella sua accessibile sillabazione, anche al bambino un poco "idiota" che fu, in un corto circuito tra presente e passato che io trovo commovente.

Sembra che il Recalcati adulto voglia caricare sulle spalle della sua attuale intelligenza anche il Massimo bambino, e alla maniera di Enea con il vecchio padre Anchise trasportarlo fino alla terra promessa della comprensione. Solo che il vecchio, qui, si trasforma nel fanciullo, in Ascanio, restituendo valore tripolare all'apparente contrapposizione di padre e figlio. La funzione adulta del pensiero diviene così quella di una sorta di spoletta tra le diverse generazioni del sé.

Questo estensione psicanalitica alle teoria della comunicazione narrativa, io la trovo in ogni caso molto suggestiva. Mi ricorda un altro aneddoto riferito ai primi anni settanta, riportato da Giuseppe Pontiggia nei suoi seminari di scrittura. Il New York Times era in sciopero da lungo tempo, una vertenza sindacale per il rinnovo del contratto, ora non so bene. Un giornalista di una diversa testata era quindi andato a intervistare il direttore del NYT, con cui aveva discusso la materia del contendere. Quando il colloquio tra i due si avviava al termine, il giornalista richiese però anche un parere sui recenti sviluppi della guerra in Vietnam. Al che, il direttore replicò serafico: Mi dispiace, a questa domanda non sono in grado di rispondere. Come vede, siamo in sciopero.

Ma come siete in sciopero?, sbottò l'altro con allibito disappunto. Lei è il direttore del New York Times, uno dei giornali più importanti del mondo - più "autorevoli", si direbbe adesso -, lei è un uomo colto, un famoso giornalista, un intellettuale perfino, e non è in grado di formulare un'opinione su una questione tanto capitale, che coinvolge le discussioni di semplici cittadini anche nei bar, alla fermata degli autobus, nel mesto andirivieni delle sale d'attesa dei dentisti... E cosa c'entra lo sciopero con tutto ciò?!

Ha ragione, rispose il direttore del quotidiano dopo una lunga pausa. E senza scomporsi proseguì: Io sono il direttore del New York Times e non possiedo un'opinione sulla maggiore catastrofe in cui è invischiato il nostro Paese. E però, vede, essendo in sciopero da oltre una settimana, io da quella data non sto più scrivendo. E se non scrivo, come faccio a sapere quel che penso?

Se non scrivo non posso sapere quel che penso... Non male, vero?

Scrivere per pensare e non, come si crede ingenuamente, pensare per scrivere. Ma a questo modo anche il direttore del New York Times prendeva per mano il bambino che era stato, si caricava sulle spalle il vecchio che sarà. Uno slancio della pietas precristiana che può avvenire solo con l'ausilio di quell'affilatissima picozza che è la parola, con cui accompagnare entrambi - il vecchio e il bambino - alla soglia di un'opinione condivisa.

Una dialettica interna, insomma, prima ancora che un composto giudizio pubblico. Senza parole, e dunque anche senza scrittura, non esiste infatti neppure opinione, pensiero, concetto, perché diversamente da quanto pensava Socrate le conoscenze non diventano disponibili solo nel rapporto con un altro, ma dallo sporgersi attento sul proprio pozzo privato. Diversamente anche da quanto creduto da Platone, le idee personali non sono però ferme e immutabili come pescetti, da infilzare già belli e cotti a pelo d'acqua, ma hanno la mobile forma discorsiva di un'anguilla.

Tornando allora alla giovane donna di ieri sera: non è tanto importante, davvero, che lei legga quel che scrivo. Non che io la ritenga meno colta o intelligente o sgamata di me, ma è semplicemente troppo diversa perché io mi possa rispecchiare in lei, e lei in quel bambino e in quel vecchio, così simili al mio ritratto, con cui provo ogni volta a dialogare. Ognuno ha la sua famiglia, per così dire. E spalle troppo piccole per caricarci sopra il mondo intero.

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